lunedì 27 febbraio 2017

VIDEO: La popolazione tedesca di Trento - Die deutsche Bevölkerung von Trient


A Reggio Emilia si ricordano Mario e Fermo, morti per la pace

Fonte: http://www.unsertirol24.com/

Mario Angioletti e Fermo Baricchi, braccianti uccisi durante la manifestazione contro la guerra ed il comizio di Cesare Battisti a Reggio Emilia,  il 25 febbraio 1915.



In questi giorni Reggio Emilia,  è in programma un evento articolato, fra convegni. dibattiti, mostre e momenti musicali.    E’ un evento di ricordo e di condanna per una guerra assurda,  voluta da pochi e sofferta da tanti. E che riguarda da vicino anche noi, anche se tanti, nella nostra Terra, non lo sanno, o fanno finta di non saperlo.  Per raccontare questa storia, riportiamo l’invito all’evento “Una città per la Pace”.  Non servono altre parole.

Ci hanno colpito a morte davanti all’Ariosto. Ci hanno ucciso il 25 febbraio 1915. Ci chiamiamo Fermo Angioletti e Mario Baricchi. Di noi non si ricorda più nessuno. Eppure manifestavamo contro la guerra e contro il comizio di Battisti. Di Battisti si ricordano tutti. Ci sono strade e piazze dedicate a lui. Di Angioletti e Baricchi non ci sono più nemmeno le tombe.
Siamo spariti nel nulla e sono ferite più profonde di quelle che ci fecero le forze dell’ordine. Perché essere dimenticati è come morire per niente. E’ come morire due volte. Una beffa che sembra volere ripetere per sempre che i poveri rimangono poveri e non valgono nulla nemmeno da morti. E invece in piazza ci siamo andati, perché eravamo stanchi di vivere così. Di nascere, respirare, sudare, indossare un uniforme e morire solo perché lo diceva qualcuno più importante di noi. Eravamo davvero stanchi di stare piegati ore e ore a fare diventare ricchi i ricchi per pochi spiccioli. Una paga da fame. Una vita da fame.
E poi ci volevano pure convincere che dovevamo morire in guerra per loro. Potevamo diventare “eroi”. Hanno riempito il mondo di cimiteri pieni di eroi. Poveri Eroi. Eroi poveri.
Quindi prendete la matita e il taccuino. Strappate una pagina e scriveteci in cima: Fermo Angioletti e Mario Baricchi. Piegatelo e tenetelo nel portafoglio. Avevamo appena compiuto diciotto anni. E siamo morti per la Pace. Il 25 febbraio 1915. Davanti all’Ariosto.
 
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martedì 21 febbraio 2017

Giuseppina Negrelli, eroina del Tirolo assieme a Hofer

Fonte: Trento è Tirolo - Trient ist Tirol.



Giuseppina Negrelli di Primiero, nata Gioseffa Franca Elisabetta Giovanna Negrelli (Fiera, 1790 - Mezzano..., 1842), una donna protagonista dell'Insorgenza Tirolese guidata da Andreas Hofer contro l'occupazione francese.
I genitori furono Angelo Michele Negrelli ed Elisabetta Würtemperger, una famiglia di commercianti di legname a Fiera di Primiero. Il fratello di Giuseppina fu il grande ingegniere austriaco Luigi (Alois) Negrelli (Fiera, 1799 – Vienna, 1858).
La storia è testimone del patriottismo tirolese della nostra gente e Giuseppina ne è sicuramente un simbolo da valutare. Dopo le invasioni napoleoniche, in tutto il Tirolo vengono formate commissioni di difesa. In Primiero, a capo del borgomastro Negrelli (padre di Giuseppina) con sei (6) compagnie Schützen agli ordini di Francesco Bosio, Luigi Savoi, Luigi Piazza, Francesco Zorzi e dei conti Villabruna di Transacqua e Welsperg di Fiera (quest'ultimo padrino di Giuseppina).
La giovane Giuseppina, appena diciottenne, ottenne il permesso per combattere assieme agli Schützen nella compagnia locale come portabandiera e staffetta, potendo servirsi di un cavallo e indossare abiti militari. Ha subito preso parte all'insorgenza tirolese con un gruppo di volontari lungo lo Schener.
In seguito alcuni reparti di Schützen guidati proprio dalla Negrelli compirono delle sortite nel territorio di Feltre e di Belluno, operando requisizioni di ogni sorta di generi e respingendo alcuni reparti franco-piemontesi. Tale gesto fu elogiato in una lettera scritta dal barone Paolo von Taxis, tenente colonnello e comandante degli avamposti, che scrisse:
"Una certa Giuseppina Negrelli, di 18 anni, indossati abiti maschili, è partita con i Bersaglieri per la guerra e le donne stesse si sono sistemate in una posizione da cui poter rovesciare sassi sul nemico. Questa notizia, partecipatami dal Signor Intendente Generale, sarà resa nota a tutti".
Giuseppina Negrelli ha vissuto come una donna normale dopo l'insorgenza e la vita trascorse senza particolari eventi. Nel 1816 sposò Antonio Zorzi ed ebbe tre figli. Assieme ai connazionali Katharina Lanz (di San Vigilio di Marebbe) e ad Andreas Hofer (di Sankt Leonhard in Passiria), è una delle figure simboliche dell'insorgenza tirolese contro il dominio napoleonico.
Come lei vi sono tante altre donne ignote che hanno combattuto durante la difesa del Tirolo nel 1809. Nel 2009 la Repubblica Austriaca ha coniato una moneta commemorativa con Andreas Hofer assieme a Giuseppina Negrelli.
Alla faccia di quanti malintenzionati che dicono che la nostra storia sia iniziata dopo il Congresso di Vienna (1815), il Primiero ci presenta la giovane Giuseppina Negrelli come testimone dell'attaccamento popolare alla propria terra e del nostro secolare passato austriaco.

venerdì 17 febbraio 2017

-STROFETTE SBILENCHE-

Fonte: Vota Franz Josef




Antefatti: la ferrovia Monfalcone-Cervignano fu voluta dagli ingegneri Giulio Dreossi e Giacomo Antonelli, il parlamento di Vienna lo appro...vò nel 1893, nel 1897 fu completata. Il giorno in cui i due ingegneri provenienti da Udine (lì giunti da Vienna) passarono il ponte sull'Aussa vennero travolti dalla popolazione festante, in quell'occasione un certo Toni Cont cantava la strofetta sbilenca: Viva Dreossi / E Antonelli / In grazia di quelli / In ferrovia si va, è di quei giorni, e fa il paio con l'altra, creata dai triestini nel 1857, per l'inaugurazione della ferrovia meridionale Trieste-Vienna: Adesso che gavemo / La strada ferrata / In mezza giornata / Se vien e se va (oppure, La boba in pignata /Mai più mancherà).

-Rimembranze di un centenario 1977-

martedì 14 febbraio 2017

Mr Belloc racconta la Rivoluzione francese

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di Luca Fumagalli - http://www.radiospada.org/
 
 
La caratteristica principale che rende ogni saggio storico di Hilaire Belloc un’emozionante avventura nel passato è l’imprevedibilità. Belloc, al pari del suo sodale G. K. Chesterton, ogni volta che tratta un argomento lo fa con arguzia, prendendo le distanze dalla banalità. Per lui il paradosso, il desiderio di fronteggiare l’errata opinione comune, non è una provocazione letteraria – come era per l’amico – ma si concretizza in una rilettura ingegnosa della storia. Anche il libro La rivoluzione francese (1915), da poco ripubblicato in Italia dalla casa editrice veronese Fede & Cultura, non sfugge a questa regola.
 
Per ammissione dello stesso autore, il saggio si configura più come una storia delle idee piuttosto che un racconto degli eventi. Il principale obiettivo di Belloc, infatti, è quello di dimostrare come sia possibile essere cattolici e allo stesso tempo ammirare la Rivoluzione francese. Un’impresa pericolosa, si dirà, ancor più se si considera che la Chiesa condannò in più occasioni l’ideologia del 1789. Ma lo scrittore anglo-francese non è certo tipo facilmente impressionabile, e il risultato del suo lavoro è un piccolo grande gioiello, un volumetto godibile nella lettura e coraggioso nelle asserzioni, dove i luoghi comuni di tanta storiografia vengono rimasticati e rigettati, smontati e brillantemente ricostruiti con credibile tridimensionalità.
 
Da parte paterna nelle vene di Belloc scorreva sangue francese, il repubblicanesimo per lui era qualcosa di naturale, da doversi accettare senza troppe obiezioni; e se questo lo distingueva dai principali autori cattolici inglesi di inizio XX secolo, tutti invariabilmente monarchici, non gli impedì tuttavia di cogliere con una certa genialità limiti e potenzialità di una forma di governo che all’epoca, agli inizi della Grande guerra, intuì quasi profeticamente essere il futuro che attendeva l’Europa.
 
La teoria politica della Rivoluzione, diretta debitrice delle carte di Rousseau e della “Dichiarazione d’indipendenza americana”, secondo Belloc contiene diversi spunti interessanti che, nel complesso, la possono rendere accettabile anche agli occhi di un cattolico. Certamente tale teoria pecca del grave limite di non riconoscere Dio come fonte di ogni potere, ma alcuni propositi fondamentali, quali l’uguaglianza innanzi alla legge e un ripensamento globale del concetto di giustizia, appaiono ai suoi occhi tutt’altro che disprezzabili. D’altronde i dissensi con il clero francese iniziarono solo in un secondo momento, quando le guerre con le potenze europee costrinsero i rivoluzionari a sfogare le frustrazioni contro uno spauracchio di comodo: venne scelta la Chiesa solo perché quest’ultima era così mondanizzata e preda dei fumi del gallicanesimo da risultare agli occhi dei più ormai indistinguibile dall’odiata aristocrazia.
 
Belloc non tace dei massacri di Vandea compiuti in nome di un falso concetto di libertà, dei numerosi martiri trucidati in odio alla fede e di quanti si opposero, compreso il Papa, alla barbarie rivoluzionaria. Ma, come ricordato, il suo scopo è un altro, e lo persegue ripercorrendo anche i fatti principali della storia militare della Rivoluzione – colpevolmente trascurata dagli storici – e studiando il carattere dei protagonisti del periodo, dal debole Luigi XVI al fumantino Robespierre.
 
La rivoluzione francese è dunque un’opera intelligente, condotta secondo un disegno didascalico che non annoia il lettore, costringendolo anzi a fare i conti con un episodio storico per troppo tempo privato della giusta complessità. Un libro ottimo per chiunque mal digerisce verità di comodo, banali e preconfezionate; ennesima perla prodotta dalla penna di uno dei polemisti più talentuosi dell’ultimo secolo.
 
Il libro: H. BELLOC, La rivoluzione francese, Verona, Fede & Cultura, 2016, 166 pp., 16 Euro.
 

giovedì 9 febbraio 2017

L'Impero d'Austria e Aqvileia

Fonte: Vota Franz Josef



Questa pubblicità dei primi del novecento (vedi immagine),da l'idea della grande considerazione,e dei notevoli investimenti,dell'imp.d'Austria per Aquileia...e anche di quanto devono essere grati i friulani e i turisti per le bellezze storiche che ora possono ammirare...pensate che quello che pubblico a seguire,è solo un riassunto dell'attività della Zentralkommission,con i costi sostenuti dall'impero d'Austria per Aquileia..."Per il restauro degli affreschi nella cripta furono necessarie sotto forma di sovvenzioni statali dal 1907 al 1909 3.800 corone (18.468 euro).Nell’anno 1910 raggiunsero in totale 15.000 corone(70.050 euro) nella basilica,comprese quelle per la ricerca archeologica e il sollevamento dei mosaici nella navata settentrionale.
Per il programma di lavoro 1911-1913/14 fu messo a disposizione l’importo di 15.500 corone(euro 69.750) da parte del Ministero delle Finanze che contemporaneamente era responsabile anche degli importi per il grande programma di restauri a Spalato/Split.I costi per i lavori all’interno della basilica e il restauro dei mosaici ammontarono infine alla enorme somma per l'epoca,di 25.662 corone (euro 113.000), per cui rimasero al di sotto del preventivo iniziale di 34.660"
Quando all’inizio del XIX secolo si sviluppò la ricerca archeologica il Münz – und Antiken-Cabinett di Vienna,fondato nel 1798,era l’unica istituzione che conduceva scavi archeologici in Aquileia,nel 1873,essa mutò il nome,divenendo Zentralkommission.L’attività della Zentralkommission ebbe inizio con il suo primo presidente, Karl Czoernig von Czernhausen (1804-1889) ”
Divenuto capo dell’”autorità centrale fiscale” di Trieste,si occupò intensamente del Friuli e della sua storia.Dal 1868 la Zentralkommission mise a disposizione per gli scavi diretti da Karl Baubela fin dal 1871 ogni anno 500 Gulden (flicken ovvero circa 5.000 euro).
Fino alla fine del primo periodo di indagine, nell’anno 1877, furono spesi in tutto 5.130 Fl. (51.300 euro)mentre per i danni all'agricoltura dovuti agli scavi la Zentralkommission stimava una dotazione annua di 2.000 fl. (20.000 euro).
Nel 1873 fu possibile la creazione un museo comunale,tramite donazioni, per cui fu a disposizione anche una somma del ministero dell’istruzione,così che con risoluzione imperiale del 28 giugno 1880 fu concessa la crezione di un museo statale per i rinvenimenti archeologici di Aquileia,Il nuovo museo, in cui trovarono accoglienza anche la Raccolta comunale e numerose collezioni private,fu infine aperto il 1 agosto 1882 e godette immediatamente di grande affluenza.
Il nocciolo era formato dalla collezione di sculture e di iscrizioni acquistata dallo stato per 4.500 fl. (45.000 euro) nel 1879 da Francesco Leopoldo Cassis (1792-1866),e grazie a una donazione imperiale fu possibile l’acquisto della collezione Monari,di cui Heinrich Maionica,aveva predisposto un inventario.Heinrich Maionica (1853-1916) Triestino di nascita,assunse la direzione del museo,in quanto nominato conservatore della prima sezione,egli fu legato ad Aquileia e al suo museo fino al suo collocamento a riposo per ragioni di salute nel 1915.
Dopo l’allestimento del museo nel 1880 erano a disposizione per acquisti e per scavi ogni anno circa 2.300 fl. (23.000 euro)Uno dei più rilevanti monumenti del Friuli è la basilica paleocristiana di Aquileia con il suo mosaico, nel 1893 per la prima volta oggetto di sistematiche indagini storico-architettoniche e archeologiche.La preistoria di queste ricerche può essere ricostruita sulla base di lettere del poliedrico architetto Georg Niemann al mecenate del progetto,il conte Karl Lanckoroński-Brzezie(1848-1933)che era una delle personalità più brillanti nel mondo culturale di quell’epoca,abilitato in storia dell’arte e mecenate delle arti fu anche membro del senato.
Le lettere di Niemann indirizzate a Lanckoroński menzionano la decisione nell'agosto 1893 di effettuare un’indagine archeologica nell’atrio.Essa naturalmente si svolse in collaborazione con Enrico Maionica, che mise disposizione 200 fl. (2.000 euro) delle 400 fl. (4.000 euro) del costo dello scavo,nel corso degli scavi emerse a un metro di profondità il primo pavimento musivo.Il 1 settembre egli lasciò Aquileia,dove l'assistente Anton Gasparin doveva concludere i lavori.Una lettera di Niemann del 22 aprile 1895 indica che gli scavi erano proseguiti,e propose già il 17 maggio 1895 un preventivo di 3.285 fl. (32.850 euro) per la stampa a colori dei mosaici e degli affreschi nella cripta.Ancora nell’anno della loro comparsa (1909) si intraprese il restauro dei mosaici della basilica.
Medesima cura valse, oltre che per il campanile che minacciava di crollare anche per gli affreschi della cripta e per il tetto, ma soprattutto per l’interno della basilica, dove un’ampia parte fino ad allora sconosciuta del precedente edificio paleocristiano era stata riportata alla luce e infine conservata.La priorità sarebbe divenuta ora il mantenimento del nucleo originario non restaurato, inalterato, con-servato al massimo grado rispetto alla ricostruzione tanto apprezzata in precedenza dal romanticismo.Queste nuove tendenze nella tutela dei monumenti si possono indicare in maniera esemplare relativamente al restauro della basilica di Aquileia. I lavori ebbero luogo per stati di avanzamento tra 1909 e 1915.
Tra 1909 e 1911 essi furono diretti dall’ingegnere capo Rudolf Machnitsch,che fu promosso nel 1912 a capo del settore edilizio della Luogotenenza di Trieste.Le prime indagini archeologiche ebbero luogo nel 1909 nella navata destra e sinistra e anche in una parte della navata centrale, dove accanto al mosaico di Giona fu riportata alla luce pure l’iscrizione dedicatoria al vescovo Teodoro, fatto che fu subito riferito dal prelato Karl Drexler alla Zentralkommission,perciò vi fu ora a disposizione una sovvenzione statale di 1.000 corone (5.000 euro).La nuova sistemazione dei mosaici,fu effettuata dal pittore accademico Viktor Förster di Praga.Egli calcolò per il sollevamento, la realizzazione di un piano di cemento,la nuova sistemazione e il restauro dei mosaici 6.980 corone (euro 32.429).Il successore al trono nella sua visita del 12 aprile 1910 si espresse risolutamente disapprovando la nuova sistemazione.Egli espresse inoltre il desiderio che i mosaici dovessero essere lasciati “perché non perdessero il loro splendore e valore storico”La luogotenenza di Trieste dispose il fermo dei lavori.In un documento del 30 luglio 1910 predisposto da Franz Ferdinand si sottolinea che “non si sarebbe dovuto effettuare lo strappo dei mosaici dal loro naturale contesto, sollevarli e utilizzarli come ornamento della chiesa.I costi furono stimati in circa 24.000 corone (111.600 euro).
Nel 1914/15 il restauro fu concluso,l’interno sottoposto a drenaggi e abbassata l’acqua di falda nella parte occidentale della navata settentrionale,così che anche i mosaici dell’area B furono rimessi in luce.Tra l’anno 1914 e la primavera 1915 i pavimenti musivi erano a tal punto consolidati che si poté camminarvi sopra.A causa della mobilitazione,generale il complesso dei lavori si fermò il 5 agosto 1914.Per impedire eventuali danni di guerra – il 23 maggio 1915 l’Italia aveva dichiarato guerra all’Austria-Ungheria – i mosaici furono ricoperti con uno strato di terra.I lavori continuati nel 1917 dalla amministrazione per i monumenti italiana,furono alla fine finanziati e conclusi ancora una volta dall’Austria;e l’opera di protezione del campanile,l’ultima della monarchia asburgica,fu resa accessibile tramite una scala.
L’indagine archeologica a est del campanile, invece,valutata del costo di 2.500 corone (975 euro)non si riusci a realizzare.Indipendentemente dall’origine e dalla loro formazione culturale nella loro attività, sia sotto l’aspetto prevalentemente teorico,come Friedrich von Kenner e il conte Lackoroński mecenate degli scavi,pratico,come Heinrich Maionica,Rudolf Machnitsch e Georg Niemann,e in embrambi i campi come Anton Gnirs, tutti ebbero a cuore la ricerca e la tutela dei monumenti di Aquileja.
La Zentralkommission,ben provvista finanziariamente,e grazie al coinvolgimeto dei suoi protettori e scienziati,diede vita ad un'Aquileia,come è ancor oggi,cioè con il museo,la basilica,gli scavi,e con i suoi tesori d’arte.Nello stesso tempo i progetti archeologici e di tutela monumentale della tarda monarchia asburgica significarono anche un aiuto economico per il Friuli,e si pongono all’inizio del turismo culturale dell’attuale ambito adriatico.Un mio lungo lavoro di riassunto,dell'imponente e amorevole opera della nostra cara Austria per Aquileja...dedicato come sempre,alla mia gente mitteleuropea.

giovedì 2 febbraio 2017

Ida Dalser, la "prima vittima" tirolese di Benito Mussolini.

Fonte: Trento è Tirolo - Trient ist Tirol

Ida Dalser


Quando arrivò a Trento il 6 febbraio 1909, Mussolini era un giovane socialista ancora sconosciuto. Aveva una brevissima esperienza di maestro compiuta in alcune piccole località del Regno d'Italia e in Svizzera. A Trento, il giovane Benito ha cercato - sempre assieme all'amico Cesare Battisti - di promuovere un'italianità di stampo nazionalista, molto diversa dalla realtà sociale del Tirolo Italiano di allora, di lingua italiana, ma sempre fedele all'Impero Austriaco e alle tradizioni locali.
Anche se per breve periodo, Mussolini provò le carceri austriache di Trento e riporta tale esperienza nel suo libro "Il Trentino veduto da un socialista" dove dimostra come la realtà politica e sociale nel Tirolo dei nostri nonni e bisnonni (fedeli sudditi dell'Imperatore d'Austria) era più avanzata di quella italiana.
In Tirolo gli piacevano le trentine, così come le donne di Innsbruck. Ma il giovane aveva capito che poteva sfruttare un "dolce far niente" da una signora benestante. A Milano, il giovane "furbét" ha conosciuto Ida Dalser, una tirolese benestante e, da parte di Mussolini si trattava di un rapporto molto "interessato".
Infatti, si fece finanziare dalla signora spremendola come un limone. Lei avrà un figlio suo, Benito Albino Dalser, mai riconosciuto dal padre (in modo ufficiale).
"Abbandonata", la Sig. Dalser comprese veramente chi era Benito Mussolini e prima dell'ultimo "addio" gli preannunciò quale sarebbe stata la sua fine.

Dimmi quale copricapo e ti dirò...



Prima della Rivoluzione francese il capello era il tricorno, le parti ritorte della tesa erano sollevate, spesso era adornato da bellissime piume, il tessuto era ricamato e talvolta portava anche qualche pietra preziosa.


 
 
 


Nel secolo XIX si è passati al cilindro. Oggi, tale copricapo può sembrare un lusso. In realtà, però, è appena un tubo nero. Si tratta di un pezzo di canna fumaria…A volte era fatto con materiale molto fine. C’era, per esempio, il cosiddetto cilindro a otto riflessi. A confronto del tricorno, però, sembra il copricapo di un becchino. Tanto più che gli uomini si vestivano di nero, come se fossero agenti funebri. L’unico adorno era, talvolta, una perla sulla cravatta.
 
C’è stato, evidentemente, un crollo nei criteri di bellezza, anche nel campo della moda femminile.
 
 
 
 
 
Dopo la Prima guerra mondiale ci fu un enorme cambiamento nella moda. Tutto si rammollì. Il cappello a cilindro scomparve, utilizzato solo per le grandi cerimonie, e fu sostituito dal cappello di feltro morbido. Il cappello di feltro è ancora inferiore al cilindro. Esso è basso, ha qualcosa che si abbassa fino all’altezza dell’uomo. Non è di seta ma di feltro molle. Quasi come se la sua bellezza consistesse nell’essere suscettibile di essere stropicciato. C’è una cosa curiosa nella storia della moda: prima di scomparire un costume si ammorbidisce. Si direbbe che l’ammorbidirsi è il segno di un processo mortale.
 
 
 
Poi venne il berretto di lana, cioè il completo rammollimento del cappello.

Plinio Corrêa de Oliveira