sabato 10 settembre 2016

[TOLKIENIANA] Éomer, obbedire e resistere

eomer




di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/

Con il saggio odierno vorrei concludere quello che potremmo definire il “piccolo ciclo pittorico di Rohan”. Attraversando gli ampi colonnati del ligneo palazzo finemente rivestito d’oro abbiamo al contempo contemplato e intessuto degli arazzi nei quali noi stessi, a fianco dei nobili cavalieri del Mark, ci siamo slanciati nella battaglia. Pertanto, al fine di completare questo modesto affresco letterario su Rohan, mi sembra doveroso non tralasciare il ritratto del principe degli Eorlingas, ovvero Éomer figlio di Éomund, fratello di Dama Éowyn nonché nipote di Re Théoden.
Il contesto storico odierno con tutte le sue contraddizioni, le mostruose e progressive aberrazioni che vengono partorite come l’immonda genia di Grendel, che nella corruzione dei potenti e nello stordimento dei popoli si presenta come il «regno del caos» può essere paragonato al tempo in cui Éomer, Maresciallo del Mark, si è venuto a trovare mentre i primi lampi della Guerra dell’Anello si intravedono minacciosi all’orizzonte.
Il regno di Rohan è allo sbando, il re, lo abbiamo visto, è succube di cattivi consiglieri ed essendosi abbandonato ad un quietismo soffocante ha lasciato che i suoi nemici proliferassero all’interno delle mura della sua cittadella fortificata: il cavallo di Troia nella città di Dio. Questo è il drammatico scenario che si dipana sotto gli occhi dell’unico erede al trono di Rohan. Il popolo languisce privato com’è di una guida, l’esercito si impigrisce e le braccia dei guerrieri si indeboliscono a causa del lungo digiuno dalla guerra. Il mestiere delle armi, lo spirito di virile militanza si tramuta in arrendevole irenismo che prepara la vittoria del nemico il quale, sotto suadenti promesse di pace, nasconde la lama della vendetta, pronto a sferrare il colpo mortale. È il principe del Mark che per esorcizzare i velenosi consigli di Grima Vermilinguo invoca la protezione divina quando prega sulle tombe dei suoi padri in cerca di lumi e forza: «Domine libera animam meam a labiis iniquis et a lingua dolosa» (Ps 119,2). E difatti egli sarà l’unico della casa reale a non subire il fascino del suo malefico influsso, conservando la sua fede e la sua libertà. Eppure egli stesso si trova in un drammatico limbo soverchiato com’è da ogni parte, essendo poco più che un fuori legge con scarsi mezzi e una fievole speranza.
Nel capitolo “I cavalieri di Rohan” è Aragorn, il capo e la guida dei Tre Cacciatori, a insegnare ad Éomer quasi mediante una rivelazione profetica: “Quando cadono i grandi, tocca ai piccoli guidare[1]. Una gravosa verità che nel nostro tempo possiamo benissimo applicare a noi stessi come un compito ineludibile che, lo si voglia o no, ricade su ognuno di noi giacché nessuno può scusare se stesso dal bene che doveva e poteva fare e non ha fatto ponendo innanzi le altrui mancanze.
Il vostro destino ormai è di scegliere – prosegue Aragorn – ed a Théoden figlio di Thengel dovrai dire ciò; una guerra aperta lo attende; con Sauron o contro di lui. Nessuno può continuare a vivere come in passato, e pochi conserveranno ciò che appartiene loro[2]. Se non sapessimo che queste parole sono state scritte in un tempo di relativa quiete, penseremmo, e avremmo ragione di farlo, che siano state scritte per noi e per i nostri tempi, ed è proprio per questo che posseggono una valenza quasi profetica che sorpassa la contingenza dello spazio e del tempo.
A questo proposito potremmo noi pensare alla grave crisi oggi in atto nella Chiesa che ne corrode interiormente il tronco come un tarlo. E a ben pensare ci accorgeremmo di quante sorprendenti analogie sussistono fra la Terza Era della Terra di Mezzo e il Terzo Millennio del mondo presente, tanto da renderli simili in molti aspetti non secondari. Ma se è vero, com’è di fatti, che la Chiesa Cattolica è il Regno di Dio e avendo noi allo stesso tempo sotto gli occhi una molteplicità di divisioni interne, di profonde divergenze, di credenze e convinzioni religiose non di rado radicalmente opposte e inconciliabili, vien da chiedersi: “un regno diviso in sé stesso, come può reggersi”? E ancor più dovremmo domandarci con sgomento: quando l’anomia, derivante dalla rinuncia da parte dell’autorità divinamente istituita per regnare, proteggere e pascere, prende il sopravvento, il soldato di Cristo, cioè il portatore dell’Anello, che cosa può fare? In altre parole, “quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?[3].
Nello sfacelo dell’ora presente spetta ad ognuno di noi scegliere, poiché neppure noi possiamo continuare a vivere come in passato. In tal senso la figura di Éomer riveste un ruolo di estrema e durevole attualità, da una parte perché espressione di un preciso modello di virtù cristiana, egli infatti incarna l’ideale del “principe cristiano” ma anche del vir catholicus impegnato nel diuturno combattimento spirituale. E d’altra parte, con il suo comportamento, offre uno straordinario esempio di quale debba essere il giusto modo di porsi dinanzi al vacillare, se non addirittura al tradimento, dei governanti siano essi uomini di Chiesa o uomini di Stato.
La fedeltà a Cristo, alla sua Chiesa e alla sua santa ed immutabile Dottrina comporta ineluttabilmente una scelta. Non sarebbe la prima volta che in un racconto, storico o immaginario, degli uomini “grandi” vacillano nel loro ruolo di guida, mentre i “piccoli”, disprezzati ed esiliati, devono portare il peso della debolezza di quelli plasmando così la fortuna di tutti. Pensiamo soltanto al caso emblematico del vescovo Atanasio d’Alessandria (IV sec.) braccato, esiliato, scomunicato e ricoperto di ingiuriose calunnie da una parte all’altra dell’Europa.
L’Imperatore Costanzo aveva esiliato, fra gli altri, anche Papa Liberio il quale insieme a San Lucifero di Cagliari, Sant’Ilario di Poitiers e San Paolino di Treviri si era opposto in un primo momento alla scomunica di Sant’Atanasio. Tuttavia “secondo le testimonianze di Atanasio, Ilario, Girolamo e Sozomeno, Liberio riuscì a ottenere il ritorno dall’esilio di Berea in Tracia, abbandonando Atanasio e la formula nicena. Secondo lo storico greco Sozomeno, che scrive su buone informazioni nel 5° secolo, Liberio avrebbe sottoscritto una delle formule di Sirmio, al fine di rimettere la pace in Oriente e di poter far ritorno a Roma”[4].
L’accusa ingiuriosa dell’Imperatore Costanzo contro Atanasio per costringere Papa Liberio a scomunicarlo suona molto familiare alle nostre orecchie giacché, mediante la calunnia, mira ad evidenziare il frutto della sua intransigenza dottrinale ossia la divisione degli animi. Così l’empio imperatore Costanzo gli fa presente: “la vita di Atanasio, notoriamente malvagia, la sua infaticabile opposizione alla pace nella Chiesa, i suoi intrighi per far nascere la discordia”[5].
Da allora sono passati circa 1700 anni, eppure gli argomenti a fondamento della persecuzione dei fedeli servitori di Cristo sono sempre gli stessi. Coloro che pongono la Verità al di sopra del rispetto umano vengono accusati, oggi come allora, di “rompere la comunione”, di “dividere”, di “disobbedire” e in questo, per associazione, gli si attribuisce per padre il Diavolo. Questi infatti è per antonomasia colui che “divide” mentre Cristo è colui che “unisce”: una sorta di sillogismo universale e infallibile. Purtroppo costoro si lasciano ingannare da una giudizio sulla realtà superficiale e semplicistico giacché non sempre il Diavolo divide gli uomini, né Cristo è sempre fattore di unità e concordia. “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Sono venuto infatti a mettere in discordia il figlio col padre, la figlia con la madre, la nuora con la suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10,34-36).
Il Signore in questa sentenza utilizza il termine “non crediate” che in latino suona «nolite arbitrari» cioè non vi ingannate, o non vi illudete, o meglio ancora non vi inventate che io sia venuto a mettere d’accordo tutti quanti, o a stabilire sulla terra una sorta di “movimento per la pace universale”. L’opera di divisione del demonio è sostanzialmente e primariamente volta a separare l’uomo da Dio e successivamente l’uomo dal bene e dalla virtù, ma per coloro che praticano il male e rifiutano di sottostare alla Legge di Dio satana diviene un fattore di unità e di concordia perché tutti si scagliano, come un solo uomo, contro il Figlio di Dio come insegnano le Scritture: “Adstiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius[6].
Credo perciò che possa tornare di grande utilità riprodurre qui gli argomenti seducenti, così come li riporta il cardinal J.H. Newman,  di cui si servirono gli eusebiani Fortunaziano e Demofilo per convincere Papa Liberio a cedere sulla dottrina e, di conseguenza, a scomunicare il Vescovo Sant’Atanasio, ricevendo in premio il ritorno dall’esilio: «Essi gli dissero – dice Newman citando Maimbourg – che non riuscivano a rendersi conto di come un uomo del suo valore e del suo spirito volesse soffrire così a lungo per una opinione chimerica che esisteva solo nell’immaginazione di persone poco o nulla intelligenti. E che, se egli avesse sofferto per la causa di Dio e della Chiesa, cui Dio lo aveva posto a capo, essi non solo avrebbero considerato gloriose le sue sofferenze, ma, desiderosi di condividere tale gloria, sarebbero divenuti suoi compagni d’esilio. Ma la questione per cui egli si trovava là non aveva niente a che vedere né con Dio né con la religione, e riguardava solo una persona privata di nome Atanasio, la cui causa non aveva niente in comune con quella della Chiesa, da lungo tempo accusato di innumerevoli crimini dalla voce pubblica, condannato da vari concili, ed espulso dalla propria sede dal grande Costantino, il cui giudizio era più che sufficiente, da solo, a giustificare le accuse che Oriente ed Occidente gli avevano così spesso rivolto. Del resto, anche se Atanasio non fosse stato così colpevole come appariva dalle condanne pronunciate, era comunque necessario sacrificarlo per la pace della Chiesa e gettarlo in mare per placare la tempesta da lui suscitata. E poi, dal momento che la maggioranza dei vescovi l’aveva condannato, ogni ulteriore difesa non avrebbe che provocato uno scisma, e sarebbe stato molto strano vedere il prelato romano abbandonare la Chiesa ed esiliarsi in Tracia a soffrire per uno che, sia la giustizia divina che quella umana, avevano tante volte giudicato colpevole. Era giunto il momento di disingannarsi e di aprire gli occhi, alla fine, per vedere se, nel caso di Atanasio, non fosse stata la passione a spingerlo a dare un falso allarme, e ad opporsi ad una eresia immaginaria, facendo credere al mondo che loro, gli eusebiani, avevano il proposito di stabilire l’errore»[7].
La similitudine tra questi consiglieri untuosi e il perfido Grima Vermilinguo è impressionante, e ancor più colpisce la reazione di Papa Liberio se accostata a quella di Théoden. Il Re di Rohan infatti, sdegnato per l’intransigenza di Éomer giustifica il suo esilio adducendo una pretesa “disobbedienza” all’autorità del Re: “«Si è ribellato ai miei ordini e ha minacciato di morte Grìma nella mia sala del trono»[8]. Una colpa apparentemente sufficiente a giustificare un provvedimento che potremmo definire quasi di “scomunica”. Ma il buon vecchio Gandalf, nella sua profetica saggezza, corregge l’affettato legalismo di Re Théoden: «Un uomo può amare te, eppure non amare Vermilinguo o i suoi consigli», ribatté Gandalf”[9]. Una sentenza questa che contiene in sé il principio per distinguere gli ordini cattivi dai buoni consigli, e ancora per distinguere l’autorità legittima dall’esercizio abusivo di quella stessa autorità. Di più, direi che con questa semplice sentenza Gandalf abbia sancito la legittima resistenza all’autorità quando essa non è guidata dal bene e dalla giustizia ma bensì è sobillata e manovrata dai “cattivi maestri”. In realtà, in questo caso la specie dell’azione in oggetto non sarebbe la “disobbedienza” quanto una più forte obbedienza al bene assoluto ed immutabile sul quale si fonda la stessa autorità umana, il cui scopo è giustificato soltanto dall’esercizio e l’amministrazione del bene. “Nolite arbitrari” ci dice ancora il Maestro Buono, non vi fate arbitri di ciò che è giusto secondo il vostro personale giudizio soggettivo, ma giudicate voi stessi se sia più giusto obbedire agli uomini anche quando comandano l’errore, o obbedire a Dio e alla Sua Legge eterna, immutabile e stabile per sempre, non fatta da mani d’uomo.
Pertanto il coraggio e il valore di Éomer prima ancora che in battaglia si manifestano nella sua integrità morale e intellettuale che gli consentirà di resistere virilmente, seppur con dolore, agli ingiusti ordini del Re guadagnandosi l’esilio e l’infamia agli occhi degli uomini. Eppure per la sua fedeltà al bene e alla verità un onore ben più grande lo attende in fine. “Alcuni all’orecchio del re, sussurrano consigli codardi; – dice il Maresciallo del Mark – ma la guerra sta per giungere. Non tradiremo la nostra alleanza antica con Gondor, e li aiuteremo sino a quando combatteranno: queste sono le parole mie e di coloro che combattono con me[10]. Un giuramento di lealtà, una promessa di aiuto degna di un combattente di Rohan, fedele al Re e alla Patria. Il suo senso del dovere è solido come la quercia e l’energia che pone nell’onorare il suo rango lo pone al di sopra dei suoi coevi. “Il Mark orientale mi è stato affidato[11], professa fiero dinanzi ad Aragorn, conscio della sua responsabilità nel difendere il Regno anche se a causa della sua osservanza viene bandito, esiliato e scomunicato.
Il beato padre Girolamo Savonarola, anch’egli scomunicato da Papa Alessandro VI, nel suo De veritate prophetica, un trattato autobiografico in forma di dialogo, afferma un principio cardine della vita cristiana «bona facere et mala pati Christianum est». Ancora una volta siamo ricondotti alla virtù cardinale della fortezza altrimenti detta «virilitas» la quale ci dispone sia a sopportare pazientemente il male in vista di un bene maggiore, ma anche ad aggredire, per così dire, il vizio per non lasciarci soverchiare da esso. «L’uomo – insegna San Tommaso – non espone la sua persona al pericolo di morte se non per salvare la giustizia. Perciò la lode della fortezza dipende in qualche modo dalla giustizia»[12]. Éomer nonostante l’ingiusta persecuzione non si rivolta contro il suo re come Assalonne con Davide, né per lo scandalo del male che si diffonde dal trono regale diviene un alleato del nemico, al contrario rimane fedele alla casa reale anche se, per il momento, essa ha smarrito la retta via e nel Sacro Palazzo si sono insediati spie e adepti del Nemico. L’esempio di Éomer ci impartisce un prezioso insegnamento: in tempi come questi bisogna accettare la sorte di coloro che sono disprezzati dal mondo e insieme incompresi e perseguitati dai propri capi e pastori, sopportando il male e tuttavia, cosa ancora più importante, non desistendo dal compiere il bene integralmente, professando la verità tutta intera. Un vero uomo, infatti, non sopporta soltanto l’ingiustizia ma pratica anche la giustizia. Il cristiano prosegue stabilmente sul retto cammino invitando così a rivolgere lo sguardo non verso se stesso ma verso il fine della sua incomprensibile perseveranza, additando così facendo la méta e la causa finale della vita cristiana: la vita eterna nel possesso di Dio.
Le terre del Mark insieme ai loro abitanti sono state affidate ad Éomer, ed egli intende restituirle integre e floride al Re quando tornerà a cercare ciò che è suo. Niente vuole cambiare di ciò che ha ricevuto, niente tenere per sé ma tutto ciò che gli è stato trasmesso pretende che si conservi come un tesoro inestimabile alle generazioni che lo seguiranno. Egli sa bene che ciò che è ricevuto non ci appartiene e che tutto ciò di cui disponiamo è un’opportunità per dimostrare il nostro valore prima di restituire il prestito affidatoci per un tempo. «Tradidi vobis quod et accepi», disse l’Apostolo Paolo al termine della sua carriera terrena, mentre si accingeva ad affrontare l’ultima gloriosa marcia verso la rovina, ed è questo il medesimo richiamo all’Autorità che si innalza sopra i cieli che è impresso nel cuore di Éomer muovendolo all’immolazione e al sacrificio di sé pur di conservare intatto il cuore del regno di Rohan: l’onore.
Ma la figura di Éomer potrebbe suscitare anche un’altra riflessione sulla vera obbedienza che potremmo porre in questi termini: “Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?»”[13]. Credo che potremmo sintetizzare la morale della nota parabola evangelica dicendo che ci sono due specie di cristiani: coloro che dicono di sì a Dio con la bocca ma poi non mettono in pratica la sua Legge, e coloro che, attraverso la virtù, vincono se stessi e l’incertezza degli inizi per volgersi totalmente al timore di Dio nel suo diuturno servizio. I primi apparentemente sembrano servi fedeli, ammantati del vello di candidi agnelli: la falsa obbedienza che cela e giustifica l’attaccamento alla viziosità. I secondi appaiono disobbedienti e ribelli, considerati dei presuntuosi ma sotto il fallace giudizio degli uomini riposa la quiete del giusto, “l’uomo infatti giudica le apparenze, il Signore giudica il cuore[14].
Molti erano i cortigiani di Théoden al tempo dell’apostasia ma pochi coloro che lo servivano con amore filiale e fedeltà indefessa. Molti godevano del suo favore saziandosi alla sua mensa forti dell’approvazione del re, ma pochi coloro che desideravano la pace per la casa del loro signore. Mentre il Maresciallo di Rohan, l’eques Christi, era divorato dallo zelo per la casa del Signore tanto da subire per essa l’infamia della ingiusta condanna.
In tutti coloro che condividono i patimenti della Croce di Cristo possiamo rinvenire una traccia e una riproduzione in scala delle virtù del Nostro divino Redentore. Egli al fasto della corte di Meduseld contaminata dall’ipocrisia e dalla corruzione preferì la via dell’esilio, e in compagnia di pochi fedeli cavalieri affrontò il freddo delle lunghe notti al chiaro di luna o nelle tempestose veglie in attesa d’un’alba grigia senza calore. Da erede al trono si trova vagabondo e fuggiasco nella sua terra, combattente eroico e silenzioso nessuno è lì per ringraziarlo; il sangue dei suoi uomini, arditi che hanno preferito l’ignominia alla gloria del mondo, scorre nelle battaglie ai confini più remoti del regno dove le orde di orribili e oscure creature non consente il riposo notturno; soltanto il crepitio dei fuochi da campo rischiara le tenebre che da Isengard si stendono sulle praterie, ora pallide, di Rohan. Ramingo nel suo stesso Paese che lo ha rigettato, Éomer vaga nomade insieme ad un pugno di prodi che null’altro chiedono se non di conservare la libertà per la propria Patria e restituire l’onore dovuto al Signore dei signori, al Re dei re, ahimé da troppo tempo detronizzato dalla sede regale acquistata a prezzo del suo inestimabile Sangue.
Éomer a giudizio degli uomini appariva il peggior nemico del Re, colui che divideva il regno al suo interno indebolendolo, e per dipiù osteggiando l’autorità regia. In realtà nessuno serviva sua maestà meglio dell’esiliato Éomer, il figlio disprezzato e fedele che, a causa della sua lealtà, venne considerato alla stregua di un bandito fuori legge, nemico del regno. In realtà questo signore dei cavalli non è da meno del suo antenato Eorl il Giovane, e la sua virtù va ad aggiungersi a quella degli altri personaggi che l’intelligenza sub-creatrice di J.R.R. Tolkien, illuminata dalla fede, ha creato per il ristoro di noi piccoli uomini della Terza Era.
Vorrei infine terminare con un omaggio che spero ci porti a guardare ancora più la realtà nel modo in cui la guardava Tolkien, ossia con quella “trasparenza” metafisica, o sensibilità poetica, che ci permette di penetrare la mera apparenza delle cose per giungere alla loro reale essenza. In questo sguardo semplice, limpido e oserei dire di fanciullo rientra l’amore di questo veterano della prima guerra mondiale per i cavalli. La Grande Guerra fu l’ultimo conflitto in cui vennero utilizzati i reparti a cavallo prontamente sostituiti dalle certamente più distruttive macchine della moderna tecnologia bellica. Tolkien detestava il progresso tecnologico e amava in maniera del tutto speciale i cavalli, per questo motivo ha voluto inventare un regno in cui queste magnifiche e nobili creature fossero stimate e curate in particolar modo tanto da essere capaci, in determinati casi, di parlare il linguaggio degli uomini. E se ci pensiamo questo suo affetto per il cavallo non è affatto casuale giacché questa creatura più di altre esprime la nobiltà e l’eleganza, essendo al contempo fiera e umile, forte e aggraziata, coraggiosa e indomita. Non a caso la Sacra Scrittura ne loda le qualità dedicandole persino un breve componimento poetico che non ha eguali in quanto a bellezza e profondità e che possiamo presumere abbia ispirato anche la creazione del regno di Rohan: “Puoi tu dare forza al cavallo e vestire di fremiti il suo collo? Lo fai tu sbuffare come un fumaiolo? Il suo alto nitrito incute spavento. Scalpita nella valle giulivo e con impeto va incontro alle armi. Sprezza la paura, non teme, né retrocede davanti alla spada. Su di lui risuona la faretra, il luccicar della lancia e del dardo. Strepitando, fremendo, divora lo spazio e al suono della tromba più non si tiene. Al primo squillo grida: “Ih! Ih!”, e da lontano fiuta la battaglia, le grida dei condottieri, il fragor della mischia”. (Job 39,19-25).
Non poteva esserci un destriero più adeguato per un guerriero come Éomer. Il cavallo e il cavaliere formano quasi un tutt’uno, il mondo degli uomini e il mondo dei cavalli si intrecciano ed entrambi dipendono l’uno dall’altro in una simbiosi epica, magnifica, cristiana. Ma il prezioso legato spirituale che questa figura ci trasmette è ben più di un vago e sentimentale amore per le creature: è una lezione imperitura di cui fare tesoro nei giorni a venire e che sant’Agostino, il «Doctor Gratiae», ha mirabilmente sintetizzato in questo modo: «In persecutione militia, in pace constantia coronatur»[15]. Che nella lingua corrente significa: “In tempo di persecuzione è premiato il combattimento, in tempo di pace è premiata la perseveranza”.
Coraggio uomini dell’Ovest, la battaglia del Fosso di Helm è finita, ma la battaglia per la Terra di Mezzo è appena iniziata.





[1] p. 534.
[2] P. 351.
[3] Sal 10,3.
[4] K. BIHLMEYER – H. TECHLE, Storia della Chiesa vol. I, Morcelliana, Brescia 1960, p.305)
[5] Cit. in J.H.NEWMAN, Gli ariani del IV secolo, Jaca Book, Milano 1981, pp. 244-245.
[6] At 4,26-27.
[7] L’opera di L. Maimbourg (1610-1686) cui si riferisce Newman è la Histoire de l’arianisme avec l’origine et le progrès de l’hérésie des sociniens, 3 voll., 1673; in J.H.NEWMAN, “Gli ariani del IV secolo”, Jaca Book, Milano 1981, p. 246.
[8] Il Signore degli Anelli, cit., p. 628.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem, 534.
[11] Ibidem.
[12] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 123, a. 12, ad 3m.
[13] Mt 21,28-31.
[14] 1°Re 16,7.
[15] Serm. 303, 2.