giovedì 29 settembre 2016

29 settembre 1936 - 29 settembre 2016: LXXX anniversario della scomparsa di S.M.C. Alfonso XII di Spagna.

Per commemorare l'LXXX anniversario della scomparsa di S.M.C. Don Alfonso Carlo di Borbone e Austria-Este, il vero Alfonso XII di Spagna. R.I.P.



Come conseguenza delle ferite riportate in seguito all'incidente nel quale venne investito da una camionetta dell'esercito il giorno precedente, alle prime ore del mattino del 29 di settembre del 1936 moriva in esilio a Vienna Sua Maestà Cattolica Don Alfonso Carlo di Borbone e Austria-Este, Re legittimo delle Spagne, Duca di San Jaime e d’Anjou, a l’età di 87 anni. La sua morte fu una tragica e inaspettata notizia, perché egli godeva di ottima salute e facoltà. Mentre i suoi requetés passavano di vittoria in vittoria nella Penisola (l’ultimo documento ufficiale di Don Alfonso Carlo fu il suo telegramma di felicitazioni per la liberazione del Alcázar de Toledo), l’Arcangelo San Michele accoglieva la sua anima santa, di guerriero di Dio.

Gli sopravvisse la sua sposa, la gran Regina Donna Maria de las Nieves di Braganza. Fu succeduto da suo nipote Don Francesco Saverio di Borbone Parma, il quale Don Alfonso Carlo aveva nominato Principe Reggente nel caso che la sua morte fosse avvenuta prima di aver chiarito a chi corrispondeva la successione legittima. E proprio Don Saverio diverrà nel 1952 Re legittimo delle Spagne.



Fonte: Carlismo 

mercoledì 28 settembre 2016

IL DEBITO NASCE CON L'UNITA' D'ITALIA


Fonte: https://dalvenetoalmondoblog.blogspot.it/



La campagna del 1859 contro l’Austria per la conquista del Lombardo Veneto, costò al Piemonte 50.000.000 di Lire finanziati dallo Stato più altri 40.000.000 di Lire ottenuti come prestito da banche inglesi e francesi e vide l’impiego di 60.000 uomini. La Francia, alleata del Piemonte stanziò una somma di 500.000.000 franchi con cambio Lira-Franco paritario e l’arruolamento di 140.000 soldati. Con l’armistizio di Villafranca tra la Francia, vera vincitrice della guerra e l’Austria sconfitta, parte della Lombardia fu ceduta da questa alla Francia che l’avrebbe girata al Piemonte il quale, in cambio dell’alleanza, cederà La Savoia e Nizza a Napoleone III.

Considerando lo scambio Savoia, Nizza – costo sostenuto dalla Francia, l’annessione parziale della Lombardia costò 590.000.000 di Lire che con coefficiente di attualizzazione di 0,0001175 indicato dall’ISTAT e cambio 1936,27 equivalgono a 2.593.272.940 di euro del 2008 (data ultimo coefficiente disponibile)

Niente male per uno Stato con appena 7.300.000 abitanti, ma è solo l’inizio perché di li a pochi mesi partirà la campagna chiamata, con eccesso di demagogia, l’impresa dei Mille.

Tale campagna divorò 629.106.013 di Lire (2.765.158.644 €) (500.765.545 da confisca di depositi del governo borbonico in Sicilia e 128.340.468 da sottoscrizioni) con una gestione molto allegra, alla garibaldina, che chiudeva entrambe gli occhi negli affari gestiti dalla mafia, preziosa alleata o elargiva incarichi da 18.000 lire a gente infame e vile; nelle fasi finali, impiegò 120.000 soldati regolari piemontesi (altro che la favoletta dei mille!).

“Dal 1848 al 1859, a partire quindi dalla prima guerra di indipendenza il regno sardo aveva maturato un disavanzo totale di 369.308.006 di Lire (1.623.248.234 €). Il debito pubblico era invece di 58.611.470 Lire (257.619.557 €). Nel marzo 1861, all’inaugurazione del Regno d’Italia a Torino, si partiva con un ulteriore debito di 500.000.000 di Lire (2.197.688.932 €). La guerra tra italiani nel 1860-61 era costata altri 150.000.000 (659.306.679 €) di debiti al Piemonte e 13.000.000 di ducati pari a 55.248.618 Lire (242.838.552€) alle Due Sicilie. E non era finita perché nel 1862 il bilancio di previsione dello Stato stimava un disavanzo di 308.846.372 Lire (1.357.496.507 €).”

Per la terza guerdera di indipennza, quella che avrebbe “liberato” il Veneto, si ipotizzavano 100.000.000 (439.537.786 €) di lire di spesa ma visto l’impiego di 200.000 soldati, della flotta militare, e le due devastanti sconfitte subite è immaginabile un costo ben maggiore e tutto perché, l’offerta in dono del Veneto fatta dall’Austria in cambio della desistenza nella guerra contro la Prussia, sembrò un’onta da pagare con il sangue.

I Piemontesi istituzionalizzarono la corruzione come mezzo per indebolire il nemico e vincere le guerre: accadde in Toscana, nel ducato di Parma, ma soprattutto al Sud dove un gran numero di ufficiali borbonici furono corrotti e i soggetti naturalmente predisposti, mafiosi e camorristi, costituirono l’elemento fondante per il nuovo Stato per cui vedevano garantiti i loro loschi traffici da una tacita accondiscendenza, partecipavano alla pubblica amministrazione quando non si sostituivano integralmente ad essa come a Napoli dove camorristi divennero funzionari e agenti della Questura. Protezione per i delinquenti e legge marziale per i lealisti o Briganti, così chiamati i fedeli ai Borboni, che continueranno a combattere per altri 10 anni da partigiani, contro gli invasori Piemontesi.

Istituzionalizzarono il debito come fonte di risorse, debiti che sarebbero insostenibili ora, mostruosi per l’epoca tanto da portare la tassazione a livelli esasperanti; dalle 5 tasse pagate nel Regno delle Due Sicilie si passò alle 22 istituite dai liberatori; i prestiti concessi dalle banche divennero prassi, un nome su tutte Rotschild e gli interessi passivi ad alimentare costantemente il debito.

Agli Stati preunitari, allora tutti ricchi e floridi, l’Unità d’Italia ha garantito paradossalmente, debito da pagare, a volontà e un futuro incerto contrassegnato nel tempo dalla promozione di due guerre mondiali che aggiungeranno, come conseguenza, debito al debito.

Debito che si autoalimenta come una reazione nucleare, gestione disastrosa delle finanze, clientelismi, corruzione, tasse su tasse, emigrazione come fuga dalla miseria morale ed economica, cause ed effetti.

Ieri come oggi! E se non interverrà un evento straordinariamente dirompente domani sarà uguale ad oggi con tendenza al peggio.

Daniele Quaglia

Fonte dei dati: “Controstoria dell’Unità d’Italia” di Gigi Di Fiore, ed. BUR

martedì 27 settembre 2016

La giornaliera Diligenza del San Gottardo




Carrozza utilizzata per collegare Camerlata (zona di Como capolinea della I.R Ferrovia Milano-Monza-Como) a Flüelen (Canton Uri) per mezzo della giornaliera Diligenza del San Gottardo istituita nel 1842, tra la Confederazione Svizzera e il Lombardo-Veneto, e operata dal servizio postale svizzero. La linea permetteva di collegare Milano e Basilea in circa 50 ore, di cui 23 proprio per perorrere questa linea rimasta attiva fino al 1892, anno in cui fu aperta la galleria ferroviaria.
Nella seconda foto la targhetta riporta interessanti riferimenti cronologici e dati sulla circolazione.
Landesmuseum Zurigo, circa 1842



Fonte: Regno Lombardo Veneto / Königreich Lombardo Venetien

No all'adunata degli alpini a Trento nel 2018




Il 2018 per gli abitanti delle attuali Province Autonome di Trento e Bolzano è un anno particolare: ricorre infatti il centenario dall’annessione di questi territori all’Italia.
La Prima Guerra Mondiale ha coinvolto direttamente la nostra terra e la nostra gente: sono migliaia i soldati volontari ed effettivi (Schützen e Kaiserjӓger) che hanno combattuto per l’esercito d’Austria; tanti hanno anche perso la vita.
Questi soldati erano i nostri antenati, nonni e bisnonni che si sono sacrificati in un duro conflitto, spesso combattendo in condizioni disumane, a volte persino sui ghiacciai delle nostre montagne (per questo si parla anche di Guerra Bianca).
Gli alpini combattevano dall’altra parte del fronte, erano un corpo dell’esercito italiano specializzato per il combattimento in montagna.
Nel 2018 vorremmo ricordare, non per recriminazioni politiche o nostalgia, ma per il semplice buonsenso, chi combatté dalla nostra parte e si sacrificò in battaglia. Portiamo rispetto anche agli alpini, naturalmente, e siamo convinti che quegli eventi bellici non si sarebbero mai dovuti svolgere.
Chiediamo pertanto che l’adunata nazionale degli alpini non si svolga nel 2018 a Trento, ma in un’altra data.
Vi chiediamo di firmare questa petizione e di condividerla il più possibile, affinché si possa raggiungere un numero di sottoscrittori tale da poterla presentare a chi di competenza, e che possa vedere quanto questo tema ci stia a cuore.

Questa petizione sarà consegnata a:
  • Provincia Autonoma di Trento
  • Comune di Trento
  • Associazione Nazionale Alpini

Fonte: https://www.change.org/

sabato 24 settembre 2016

Ennesime menzogne "tricolorute" svelate


Fonte: Maledetta Guerra

24 settembre 1863-2016: 153° anniversario dello scioglimento della Brigata Estense a Cartigliano (Vicenza).




Un significativo esempio di coraggio e fedeltà dei popoli delle terre estensi nei confronti della persona del Duca Francesco V di Modena, della loro bandiera e della loro Patria.

Come descrivesse quei momenti un soldato di brigata nelle sue memorie:

"Fu vinto d'improvviso il ritegno della militare disciplina ed i soldati, rotte le file, si affollarono intorno alla carrozza della regal Duchessa ed appresso al cavallo dell'amato Sovrano, gridando Evviva ed Addio!"

FIDELITATI ET CONSTANTIAE IN ADVERSIS - MDCCCLXIII

MEDAGLIA PER LA DISCIOLTA BRIGATA ESTENSE (DETTA ANCHE MEDAGLIA DELL'EMIGRAZIONE)



Fonte immagini: Regno Lombardo Veneto / Königreich Lombardo Venetien

giovedì 22 settembre 2016

Affondato!


Corazzata italiana Amalfi


E con questo, le "navi da battaglia" affondate agli italiani in Adriatico, furono 5. Loro ne affondarono una a Premuda ed un'altra affondarono agli yugoslavi a guerra finita, quasi certamente per intascare il premio (svariati milioni di euro attualizzati) e per rompere le scatole al costituendo Stato SHS, come confermato dalla loro "politica estera" post bellica e dalle azioni dei servizi segreti, come confermato nero su bianco, da documenti inerenti il col. Finzi..., capo per il Litorale del famigerato "ITO".
La "Wien" non era una "corazzata" e nemmeno un "incrociatore corazzato", era più piccola di tutti gli incrociatori più moderni e non poteva prendere il mare quando era molto mosso. Era in realtà una nave per la difesa costiera, paragonabile semmai ai monitor britannici. Molte marine avevano navi di questo tipo, meno quella italiana.
I primi a chiamarla "nave da battaglia costiera" furono gli alti ufficiali KuK, che in questo modo, intendevano "vendere" ai marinai di acqua dolce dell'interno, la costruzione di 3 corazzate a basso prezzo. Servivano più che altro per rompere il ghiaccio, nel passaggio tra le navi a ridotto centrale verso le concezioni più moderne, in un momento nel quale non si era ancora affermata la necessità di avere una flotta potente (Franz Josef era agnostico e diceva di non capirne nulla, l'Arciduca Alberto era contrario a tutte le navi ed avrebbe difeso le coste con le batterie costiere).
Dopo la morte di Alberto e di altri "vecchi austriaci" che non erano tra i favorevoli, la Kriegsmarine riuscì a creare un'opinione pubblica amica, esaltata da Franz Ferdinand, che si può definire come padre putativo della moderna flotta austro ungarica. Iniziò allora, la costruzione di vere corazzate: la classe Habsburg, la classe Herzerzog, la classe Radetzky e la classe Viribus Unitis.

Fonte: Vota Franz Josef

I caduti papalini del 20 settembre 1870

Fonte: http://federiciblog.altervista.org/ 



Il 20 settembre, prima della resa imposta da Pio IX, durante la difesa di Roma, i pontifici recarono numerose perdite all’esercito invasore: tra gli ufficiali 4 morti e 9 feriti, tra la truppa 45 morti e 132 feriti.
I papalini, invece, registrarono 19 morti, deceduti il 20 settembre 1870 e nei giorni successivi in seguito alle ferite, e 68 feriti. Ecco l’elenco dei caduti secondo il Vigevano (altri autori, come Keyes O’Clery, riportano un numero minore di caduti, perché non calcolano alcuni decessi avvenuti negli ospedali dopo il 20 settembre) :

Zuavi:
Sergente Duchet Emilio, francese, di anni 24, deceduto il 1 ottobre.
Sergente Lasserre Gustavo, francese, di anni 25, deceduto il 5 ottobre.
Soldato de l’Estourbeillon, di anni 28, deceduto il 23 settembre.
Soldato Iorand Giovanni Battista, deceduto il 20 settembre.
Soldato Burel Andrea, francese di Marsiglia, di anni 25, deceduto il deceduto il 27 settembre.
Soldato Soenens Enrico, belga, di anni 34, deceduto il 2 ottobre.
Soldato Yorg Giovanni, olandese, di anni 18, deceduto il 27 settembre.
Soldato De Giry (non si hanno altri dati).
altri tre soldati non identificati, deceduti il 20 settembre.

Carabinieri:
Soldato Natele Giovanni, svizzero, di anni 30, deceduto il 15 ottobre.
Soldato Wolf Giorgio, bavarese, di anni 27, deceduto il 28 ottobre.

Dragoni:
Tenente Piccadori Alessandro, di Rieti, di anni 23, deceduto il 20 ottobre.

Artiglieria:
Maresciallo Caporilli Enrico, italiano, deceduto il 20 ottobre.

Soldato Betti, italiano, deceduto il 20 settembre.
Soldato Curtini Nazzareno, italiano, deceduto il 20 settembre.
Soldato Taliani Mariano, di Cingoli, di anni 29, deceduto il 20 settembre.
Soldato Valenti Giuseppe, di Ferentino, di anni 22, deceduto il 3 ottobre.

(Attilio Vigevano, La fine dell’esercito pontificio, ristampa anastatica, Albertelli Editore, Parma 1994, pagg. 672-673; nel testo del Vigevano i nomi di battesimo sono stati italianizzati).

lunedì 19 settembre 2016

Pio IX e il 20 settembre 1870

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 65/16 del 19 settembre 2016, San Gennaro

Pio IX e il 20 settembre 1870

Ricordiamo l’infausto anniversario del 20 settembre pubblicando alcune pagine tratte dall’opera di di Mons. Giuseppe Sebastiano Pelczar, “Pio IX e il suo pontificato”.
Alcune ore dopo, alle 5,15 del 20 settembre, una prima palla dei Piemontesi colpiva le mura di Roma dando principio ad una vera grandine di proiettili lanciati da 60 cannoni, a cui rispondevano appena 18 pezzi dell’artiglieria pontificia. Il nerbo dell’attacco era rivolto contro Porta Pia, Porta Maggiore e contro le caserme del Macao, che porgevano più facile accesso; ma si sparava pure contro le porte Salaria, S. Pancrazio, S. Giovanni e S. Sebastiano.
Al rombo dei cannoni i cardinali Patrizi, Antonelli, Berardi, Bonaparte ed altri come pure tutti i membri del Corpo Diplomatico allora presenti in Roma s’affrettarono al Vaticano indossando le uniformi di gala.
Il Papa celebrò secondo il solito la S. Messa alle ore 7,30; il Corpo Diplomatico ebbe l’onore di assistervi, e verso le ore 9 fu introdotto in presenza di S. S. nella sala della biblioteca privata., le cui finestre mettono sulla piazza di S. Pietro. Il S. Pietro incominciò con ringraziare gl’illustri rappresentanti delle Potenze estere per essersi raccolti alla sua presenza in occasione così penosa, indi soggiunse continuando più a modo di conversazione, che di discorso:
Il Corpo Diplomatico si riunì anche un’altra volta intorno a me: ciò fu al Quirinale nel 1848. (…) io ho scritto al re: non so se egli ha ricevutola mia lettera: gliel’ho mandata coll’indirizzo del suo Ministro degli affari esteri. Penso che gli sarà pervenuta, ma non ne so nulla…
Bixio, il famoso Bixio, è là con l’armata italiana. Ora è generale; ma fin da quando era repubblicano, aveva fatto il progetto di gettare nel Tevere il Papa e i cardinali, quando entrasse in Roma. In inverno sarebbe stato poco piacevole, in estate sarebbe forse un’altra cosa (Nota dell’Autore: Bixio morì di colera nel 1873 mentre viaggiava verso le Indie, ed il suo corpo sepolto nella sabbia fu messo a brandelli dai selvaggi d’Aczyno)...
Egli è là alla porta S. Pancrazio: questo lato è più esposto. Vi sono delle case che soffriranno; fra le altre quella del Torlonia. I ricordi del Tasso corrono molto rischio coi liberatori d’Italia; ma questa gente se se cura poco… (…). Gli alunni del Collegio Americano mi hanno chiesto di prendere le armi, ma li ho ringraziati e detto che si unissero a quelli che assistono i feriti… Ecco che ora Roma è circondata, e si comincia a mancare di molte cose. I muratori non hanno più pozzolana per lavorare e neppure tufo per le fabbriche. I viveri ancora cominciano a divenire cari, e il popolo potrebbe agitarsi…
Ieri nel ritorno dalla Scala Santa ho visto le tante bandiere che hanno messo in Roma per proteggersi. Ve n’erano inglesi, americane, tedesche ed anche turche. Il principe Doria ne ha messa una inglese, non so perché. Quando ritornai da Gaeta, vidi ancora sul mio passaggio molte bandiere che erano state poste in mio onore. Oggi è differente; non le hanno messe per me.
Non è il fior fiore della società che accompagna quegl’Italiani che attaccano il Padre dei cattolici…
In questo punto un ufficiale di stato maggiore da parte del generale Kanzler portò la nuova, che le brecce erano accessibili. I membri del Corpo Diplomatico si tennero in disparte, lasciando il S. Padre a deliberare col card. Antonelli. Indi a pochi istanti il Papa li fece chiamare, e con le lagrime agli occhi disse oro queste parole:
Signori io do l'ordine di capitolare: a che serve difendersi più oltre! Abbandonato da tutti, dovrei tosto o tardi soccombere, ed io non debbo far versare sangue inutilmente. Voi mi siete testimoni, Signori, che lo straniero non entra qui che con la forza; e che se egli sforza la mia porta, lo fa rompendola; ciò basta, il mondo lo saprà, e la storia lo dirà un giorno, a discolpa dei Romani miei figli… non vi parlo di me, o Signori, non è per me ch’io piango, ma sopra quei poveri figli che sono venuti a difendermi come loro padre. Voi vi occuperete ciascuno di quelli del vostro paese. Ve ne sono di tutte le nazioni, soprattutto Francesi. Vi prego di pensare ancora agli Inglesi ed ai Canadesi, i cui interessi non sono qui rappresentati da nessuno. Io ve le raccomando tutti, perché li preserviate dai maltrattamenti, che altri ebbero tanto a soffrire alcuni anni fa. Sciolgo i miei soldati dal giuramento fattomi per lasciarli in loro libertà. Per le condizioni della capitolazioni bisogna vedere il generale Kanzler, bisogna intendersi con lui.
Il Corpo Diplomatico si partì dal Papa, e andò prima dal Pro-Ministro delle armi, poi dal generale Cadorna in Villa Albani.
Frattanto imperversava sulla città una vera pioggia di palle e granate dei cannoni piemontesi. Il generale Bixio, protetto da vigne e vigneti erasi avanzato fino a porta S. Pancrazio, ma qui vi un gruppo di papalini opposergli strenua difesa. Anche alle porte S. Sebastiano e a S. Giovanni, ove dirigeva la difesa l’intrepido de Charette, ferveva una mischia disperata; però le difese di S. Giovanni Laterano e di Santa Croce furono assai danneggiate dalle batterie dell’Angioletti. La lotta fu decisa dal generale Cadorna, che fissato il quartier principale a Villa Albani, diresse il fuoco di alcune decine di cannoni su Porta Pia.
Alle nove e un quarto fu aperta una breccia nel muro di villa Bonaparte, ma gli zuavi, facendo un vivo muro dei loro petti, resistevano a quel fuoco cantando l’inno di Pio XI. Colpiti dai proiettili, morivano eroicamente. Niel e Brondeis, vicini ad esalare l’anima, raccolsero l’ultimo fiato per gridare ancora una volta: Viva Pio IX!
Lo zuavo Burel, non potendo parlare, poiché una pallottola lo aveva colpito in faccia, vergò colla mano che s’irrigidiva fra le agonie mortali queste parole: “Quanto posseggo lascio al Santo Padre”. Quando Pio IX ricevette quello scritto intriso di sangue, lo bagnò di calde lagrime e lo conservò con venerazione.
Allora il Cadorna spinse il 39° reggimento fanteria ed il 35° bersaglieri all’assalto. Questi corrono spavaldi al grido di Viva Savoia, mentre le file pontificie gridano in coro Viva Pio IX. Quand’ecco, accorre un ufficiale, coll’ordine del Kanzler, di cessare il fuoco; gli zuavi depongono dolenti le carabine, ed il tenente Maudit infigge sulla breccia la bandiera bianca; ciononostante il distaccamento piemontese, contro le norme guerresche, s’intromette in città. Già prima il Papa aveva ordinato al colonnello Azzanesi d’inalberare la bandiera bianca sulla cupola di S. Pietro, ma ciò non trattenne il gen. Bixio dal continuare il bombardamento. Solo 10 minuti dopo le ore dieci cessò il fuoco su tutta la linea.
Così dunque la rivoluzione riuscì vittoriosa. Non potendo entrare in Roma sotto la guida di Mazzini, vi entrò guidata da Vittorio Emanuele, innalzandovi la croce sabauda contro la croce di Cristo. Un rampollo di famiglia cattolica, da cui erano usciti dei santi, si fece strumento; ed essa, demoralizzando una parte del popolo italiano e disseminando per quelle terre l’agitazione e l’insurrezione, lo aiutò ad effettuare l’annessione. Grazie al concorso della rivoluzione, all’appoggio di Napoleone III, alla massoneria ed al liberalismo europeo (…)
Verso le ore 11, prima ancora che fosse conclusa la capitolazione, mentre però la bandiera stava alzata a Porta Pia, al Quirinale e sulla cupola di S. Pietro, un distaccamento italiano s’intrometteva in città; e con esso introducevansi alcune migliaia di emigranti e rivoluzionari di professione a fine di preparare uno splendido ricevimento all’esercito che sarebbe entrato nel pomeriggio. (…) frattanto la plebaglia abbandonavasi alle più infami violenze, specialmente contro i sodati ed altri di più notorietà fedeltà al Papa: di che avvisato il generale Cadorna, cinicamente rispose: Lasciate che il popolo si sfoghi!
L’esercito pontificio si ritirò al di là dal Tevere. I valorosi zuavi passarono l’intera notte sotto il porticato di S. Pietro; al mattino, schieratisi in ordine sotto le finestre del Vaticano, il colonnello Alet alzò la spada gridando: Viva Pio IX, Papa e Re. Il Pontefice si affacciò a benedire per l’ultima volta il suo esercito, che presentò l’arme. La scena era così commovente, che il Papa se ne ritrasse cogli occhi lagrimosi e quasi svenuto. Ma non tardò a rimettersi in calma, ed allora prese ad informarsi con vivo interesse dalla moglie del gen. Kanzler sullo stato dei feriti. Poveri figli, disse allora, che il Signore ne li compensi. Fu certo un gran delitto, ma esso ricadrà sui suoi autori.
In quel giorno l’esercito pontifico, a fronte alta ed al grido di Viva Pio IX!, sfilò dinanzi all’esercito piemontese, depose le armi e fu diretto a Civitavecchia, donde poi ciascuno fu rimandato al proprio paese (Nota dell’Autore: nell’esercito trovansi 4800 italiani e 4500 stranieri. NdR: molti prigionieri provenienti dagli Stati italiani pre-unitari furono internarti in campi di concentramento allestiti in Piemonte, dove diversi morirono).
Tre giorni dopo il Papa disciolse la guardia palatina, così che in Vaticano rimasero un 300 o 400 uomini. Siccome la Città Leonina era indifesa, così un’orda rivoluzionaria vi si riversò il 21 settembre, svillaneggiando il S. Padre, saccheggiando la caserma Serristori (la caserma fu colpita da un attentato terroristico nel 1867 che causò la morte a 25 zuavi della banda musicale e ad alcuni passanti, tra cui una bimba di sei anni, NdR) ed avanzandosi poscia fino al colonnato di S. Pietro, ove erano stati acquartierati gli zuavi. I più forsennati vollero anzi profanare la basilica, ma ne trovarono chiuse le porte. V’era il pericolo che la bordaglia s’avventasse sul Vaticano tanto più che due assalitori e due soldati pontifici caddero colpiti dagli spari; pertanto il card. Antonelli si vide costretto ad invocare l’aiuto dell’esercito piemontese, che s’affrettò ad occupare quel quartiere fino alle porte del Vaticano, occupando pure ben tosto il castello S. Angelo. Pio IX rimase prigioniero nel proprio palazzo.
Tratto dal libro: Pio IX e il suo pontificato. Sullo sfondo delle vicende della Chiesa nel secolo XIX, di Giuseppe Sebastiano Pelczar, vol. II, pagg. 556-560, Torino 1910, Libreria G.B. Berruti.
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sabato 17 settembre 2016

Beggiato versus Romano su Veneto e Serenissima, per non dimenticare come l’Italia crede alla libertà

Fonte: http://www.lindipendenzanuova.com/

Ed ecco il botta e risposta citato da Gilberto Oneto tra Ettore Beggiato e Sergio Romano.
(http://www.lindipendenzanuova.com/venetismo-senza-padanismo-destinato-alla-sconfitta/)
Lo riproponiamo qui integralmente, per non dimenticare….
Le date vanno ritarate rispetto all’evento, che si consumò il 25 maggio 2013.
di REDAZIONE
Pubblichiamo, di seguito, il “botta e risposta” fra Ettore Beggiato e Sergio Romano, apparse nella rubrica “La lettera del giorno” su “Il Corriere della Sera” di oggi.
Nella sua risposta a una lettera pubblicata sul Corriere del 13 maggio, lei ricorda giustamente che la Scozia e la Catalogna sono nazioni storiche, mentre la Padania no: giustissimo. Io credo che nazione storica d’Europa si possa tranquillamente definire il Veneto, popolo che si identifica nella Serenissima Repubblica Veneta che ha avuto ben 1.100 di indipendenza, e che ha ancor oggi ha una propria lingua, una propria identità, un proprio modello economico. O no? (Ettore Beggiato)
LA RISPOSTA DI SERGIO ROMANO:
Caro Beggiato, il Veneto è certamente una regione storica, ma credo che nella sua identificazione con la Serenissima vi sia una forzatura leghista. Padova, Verona, Vicenza, Treviso, Udine hanno le loro storie, alquanto diverse da quella di Venezia e della sua Repubblica. Sono state assorbite dal loro grande e fortunato vicino in tempi diversi, ma la classe dirigente della Repubblica è stata per molti secoli prevalentemente veneziana e la elezione di un doge friulano coincide, guarda caso, con l’agonia dello Stato. Nella storia della Repubblica i veneti di terraferma hanno avuto un ruolo importante, ma sono in ultima analisi soltanto una delle quattro principali nazionalità da cui la Repubblica era composta. Venezia partecipò attivamente alle vicende italiane e cercò di estendere la sua influenza nella penisola, ma fu soprattutto un piccolo impero multinazionale e multiconfessionale dell’Adriatico e dell’Egeo.
Mentre quasi tutte le città italiane erano papali o ghibelline e comunque legate, in maggiore o minore misura, alla storia dell’Impero d’Occidente e del Sacro Romano Impero, Venezia fu una costola dell’Impero d’Oriente. La sua gente era cattolica, ma la sua maggiore basilica ricorda gli edifici religiosi di Costantinopoli molto più di quanto assomigli alle chiese del retroterra veneto e della penisola italiana. I veneti di terraferma furono certamente sudditi della Repubblica, ma non diversamente dai croati della Dalmazia, dagli albanesi dell’Adriatico meridionale e dai greci delle isole dell’Egeo. Negli ultimi giorni della sua esistenza non fu difesa dai veronesi, dai padovani e dai vicentini. Si batterono per la Repubblica i suoi schiavoni, molto più fedeli a San Marco di quanto fossero i suoi sudditi italiani. Qualche mese fa, durante un viaggio ad Atene, un amico greco mi ha detto: «Si parla molto dell’influenza che la Turchia ha avuto sui nostri costumi e sulle nostra mentalità, ma si dimentica che una parte della Grecia è stata per molto tempo veneziana ». Un’ultima osservazione, caro Beggiato. Quando fu conquistata dai francesi e, più tardi, ceduta da Napoleone all’Austria, Venezia era ormai da molto tempo l’ombra di se stessa. Possiamo essere orgogliosi del suo grande passato, ma non della sua morte.

Meglio Radetzky di Bava Beccaris

di ROMANO BRACALINI - Fonte: http://www.lindipendenzanuova.com/


Il Concerto di Capodanno da Vienna, si conclude com’è tradizione con la Marcia di Radetzky. Ha ancora la magia di riportare alla mente il mondo calmo e ordinato della Mitteleuropa, di cui fece parte anche il Lombardo-Veneto; un mondo che nostalgicamente contrasta per stile e concezione col “bordello” italiano.
Contro la marcia di Radeztky regolarmente protestano ad ogni inizio d’anno i “patrioti” italiani che avrebbero voluto che l’orchestra di Vienna la cancellasse dal suo programma di Capodanno. Il motivo era che la marcia offendeva i sentimenti degli italiani. Niente di più cretino. Al provincialismo si aggiungeva il ridicolo. Sarebbe come abolire le opere “patriottiche” verdiane per non offendere gli austriaci. Se l’identità italiana è debole, o inesistente, non è colpa di Radeztky che sul campo di battaglia sconfisse più volte i vili e fiacchi italiani e Johann Strauss lo celebrò giustamente come il più popolare eroe dell’Impero, dopo il principe Eugenio. Radetzky non è stato il mostro descritto dalla propaganda italiana che non ha trovato metodi meno ripugnanti e falsi per denigrare un prode soldato.
Nel 1848, allo scoppio delle Cinque Giornate, Radetzky disponeva di un esercito di 16.000 uomini, pochi ma sufficienti a soffocare la rivolta popolare milanese se solo avesse fatto uso dell’artiglieria. Avrebbe potuto farlo, non lo fece perché, disse, non voleva passare per un novello Barbarossa. Uscendo dal Castello la sera della quinta giornata, ossia il 22 marzo, giunto a Porta Romana, sulla strada che lo avrebbe ricondotto nel Quadrilatero, si voltò verso la città che abbandonava giurando che sarebbe presto ritornato. Mantenne la promessa sconfiggendo il debole Carlo Alberto a Custoza e rientrando a Milano ad agosto dello stesso 1848, mentre i borghesi voltagabbana si toglievano il tricolore dal bavero e gridavano “Viva Radetzky”. Non ebbe gli stessi scrupoli morali l’oscuro generale piemontese Bava Beccaris, che non s’era distinto in nessuna campagna del risorgimento, il quale nel 1898, esattamente mezzo secolo dopo, prese a cannonate il popolo di Milano, accusato dal capo del governo marchese Di Rudinì, siculo di pelo rosso, di volere la rivoluzione secessionista. Magari. Ma non era vero. Il popolo milanese protestava per le tasse, per il caro pane, per la fame. Non bisognerebbe mai perdere di vista i migliori esempi della storia, come quando nel 1814, sotto i francesi, i milanesi insorsero contro l’oppressione fiscale dando l’assalto al palazzo di Giuseppe Prina, ministro delle finanze, lo massacrarono e lo scaraventarono dalla finestra.
Il dominio austriaco ha lasciato tracce profonde nella città, nel costume, nella civiltà dei comportamenti, che col tempo e sotto l’influenza italiana, si sono affievoliti. Le tasse erano gravose ma restavano sul territorio.Venezia rinacque sotto la buona politica territoriale di Vienna. Maria Teresa aveva introdotto il catasto del quale ancora oggi non c’è traccia in gran parte del Sud Italia. Le grandi istituzioni culturali milanesi e lombarde risalgono all’epoca austriaca: il Teatro alla Scala, la Biblioteca di Brera, il Palazzo Reale, la Villa Reale di Monza. Solo dopo la definitiva partenza degli austriaci dalla Lombardia, nel 1859, i milanesi si accorsero di ciò che avevano perduto. Avevano rinunciato alla civile Austria per darsi alla torva e levantina Italietta, famosa in Europa come fedifraga e ladra di terre.
Pur ammettendo che nessun popolo ha maggiori diritti di un altro, Carlo Cattaneo riconosceva che se un popolo raggiunge traguardi più avanzati di incivilimento vuol dire che ha caratteri originari che lo distinguono dagli altri. Era il caso dell’Austria. Con l’Austria, prima del 1848, quando poi il Piemonte regio si impadronì della vittoria del popolo milanese, Cattaneo pensava di poter usare il linguaggio della ragione e non quello delle armi, e proponeva si rinunciasse ad ogni progetto insurrezionale per indurre il governo austriaco a concedere le riforme richieste. Restava fermo nel proprio convincimento, contrario alle “opere di violenza”, anche quando erano in gran parte conflitti per la libertà. Era convinto, senza sbagliare, che ai lombardi convenisse più la civilissima Austria che l’Italia della gabola e della truffa. Gli avessero dato retta, la Lombardia e il Veneto, riuniti sotto un unico scettro, avrebbero continuato a far parte dell’Impero e di un patrimonio di civiltà comune.
Radetzky appartiene alla storia, legittimamente anche alla nostra. Parlava perfettamente italiano, amava Milano, abitava in via Brisa, una piccola strada che incrocia l’attuale corso Magenta, amava le partite a carte, la buona tavola, le osterie popolari; conviveva con una milanesona, la Giuditta Meregalli, che faceva la stiratrice. Ogni mattina andava a piedi, senza scorta, fino al Castello e all’ingresso i mendicati gli andavano incontro ed egli, uomo di buon cuore, dava un obolo a tutti. Morì nel 1858 e volle restare a Milano, finchè gli avvenimenti politici glielo consentirono. I suoi resti vennero traslati a Vienna nel 1859, quando la Lombardia, con il solito imbroglio italiano, venne annessa al Piemonte.
Leonardo Sciascia diceva che Milano è diversa perché ha avuto Maria Teresa e il dominio austriaco, lo diceva da siciliano; Napoli è quella che è perché ha avuto gli spagnoli e i Borboni. La differenza si vede. Stoffa diversa. Radeztzy era il leale difensore dell’Impero, di gran lunga il più civile e tollerante del nefasto regno d’Italia. Bava Beccaris è stato dimenticato, Radetzki vive nella memoria e nella devozione degli antichi ex sudditi dell’Impero.

giovedì 15 settembre 2016

150 anni fa la “Rivolta del Sette e Mezzo” di Palermo: perché, oggi, è importante ricordarla

di Ignazio Coppola - Fonte: http://www.inuovivespri.it/


Il 15 Settembre di 150 anni fa i palermitani scesero in piazza per ribellarsi agli assassini e predoni di casa Savoia. La rivolta durò sette giorni e mezzo e fu repressa nel sangue dai generali piemontesi. Ma anche se i soliti libri di storia hanno ignorato e continuano a ignorarla, “La Rivolta del Sette e Mezzo” rimane nella memoria dei palermitani che, quando vogliono, sanno ribellarsi alle prepotenze dei Governi romani e degli stessi sindaci che li vessano con tasse e balzelli truffaldini

“Se dovessi ripercorrere le strade della Sicilia, i siciliani mi prenderebbero a sassate”. Così scriveva Garibaldi ad Adelaide Cairoli nel 1866. I palermitani nel Settembre di quello stesso anno fecero molto di più, rivoltandosi e prendendo a fucilate i nuovi padroni dell’Isola. Il 15 Settembre del 1866, esattamente 150 anni fa, infatti, scoppiò a Palermo quella che è passata alla storia come “La rivolta del Sette e Mezzo”, così detta perché durò appunto sette giorni e mezzo. E precisamente dal 15 al 22 Settembre di quell’anno.
Erano passati appena sei anni dall’unità d’Italia, e già i siciliani si erano accorti a loro spese che il nuovo era anche peggio del vecchio.
Dall’assolutismo borbonico s’era passati ad un regime prevaricatore e repressivo, che aveva finito per tutelare, in una scontata logica gattopardiana, le stesse classi e la stessa aristocrazia terriera, il cui potere i siciliani si erano illusi fosse finito con l’unità d’Italia. Con il “Sette e Mezzo”, i palermitani si riscoprirono i degni eredi dei Vespri Siciliani, per lo spirito di ribellione, come allora, contro ogni forma di sopraffazione e di violenza.
Fu lo scontro feroce tra chi annettendo la Sicilia intendeva colonizzarla e chi da quell’annessione si illudeva  di essere affrancato da ogni forma di dispotismo ed assolutismo: quella lotta all’assolutismo che aveva portato, nel 1860, alcuni siciliani a battersi a fianco dei garibaldini.
La rivolta scoppiò puntuale il 15 Settembre del 1866, al grido di “Viva la Repubblica”, “Viva santa Rosalia”, “Viva Francesco II“ ed allo sventolare delle bandiere rosse, a dimostrazione dell’eterogeneità e della spontaneità dell’insurrezione.
Alla rivolta presero parte renitenti di leva (in Sicilia quasi ventimila), ecclesiastici espropriati, repubblicani, mazziniani, socialisti, autonomisti, impiegati borbonici cacciati dai loro posti di lavoro, legittimisti, contadini che avevano sperato con le promesse di Garibaldi nella distribuzione delle terre ed avevano ricevuto soltanto fucilate ed i rappresentanti delle arti e dei mestieri, colpiti pesantemente dalla soppressione delle corporazioni religiose. Tutti accomunati nell’avversione verso un regime accentratore e dispotico, che nulla concedeva alle aspettative che il nuovo Stato unitario, in premessa, aveva illusoriamente creato.
Anche se la rivolta non ebbe un capo carismatico – e proprio per questo da alcuni storici fu definita “acefala” – furono proprio i rappresentanti delle corporazioni ad essere i soggetti propulsori della rivolta palermitana del “Sette e Mezzo”. Gli uomini che seppero condurre con disciplina l’azione degli insorti furono dei capisquadra riconosciuti autorevolmente nei vari quartieri di Palermo e rappresentanti delle varie corporazioni e dei ceti artigianali quali Francesco Bonafede (che in seguito aderirà all’internazionale socialista), Salvatore Nobile, Francesco Pagano, Salvatore Miceli; poi vi erano i reduci delle rivolte del 1848 e del 1860. Questi, grosso modo, furono i coordinatori strategici della rivolta.
Per dare maggiore legittimazione ed autorevolezza all’insurrezione venne costituito un comitato provvisorio rivoluzionario, rappresentativo di tutte le componenti che avevano promosso la rivolta, con la presenza anche di aristocratici, quali il marchese di Torrearsa ed il principe di Linguaglossa. A quest’ultimo venne affidato il compito di presiedere la rivolta.
Una volta sedata la sommossa gli aristocratici si dissoceranno e diranno di essere stati costretti con la forza a far parte del comitato.
La vera forza e la motivazione ideale dei rivoltosi fu la consapevolezza della “giusta causa” per la quale si battevano, spinti ormai da una condizione che andava oltre ogni limite di sopportazione per lo stato di prostazione sociale e di repressione autoritaria cui erano stati sottoposti dal nuovo governo Italo-piemontese con nuove tasse, la coscrizione obbligatoria e, in ultimo, la soppressione delle corporazioni religiose in applicazione alla legge Siccardi (già vigente nel regno di Sardegna sin dal giugno del 1850), con la conseguenza di buttare sul lastrico più di diecimila famiglie nella sola città di Palermo.




In poche ore, i rivoltosi, così fortemente motivati, riuscirono a sconfiggere le truppe sabaude comandate dal generale Calderina ed assumere in pieno il controllo della situazione.
Nei giorni successivi al 15 Settembre furono sbarcati nel porto di Palermo, ad ondate successive, più di 40.000 regi agli ordini del generale Aglietti prima e del generale Raffaele Cadorna poi, per reprimere nel sangue la rivolta e decretare lo stato d’assedio della città di Palermo.
In quegli eroici sette giorni i palermitani provarono l’ebbrezza e coltivarono la speranza di essere padroni dei loro destini, del loro futuro e della loro città. Avevano costretto ad asserragliarsi a Palazzo di Città, il generale Gabriele Camozzi, comandante delle guardia nazionale forte di 12.000 uomini, il prefetto Torrelli e il sindaco marchese Starrabba di Rudinì.
Alla fine di quelle eroiche sette giornate di lotta, quando si trovarono davanti 40.000 militari (fanti, granatieri e bersaglieri) sbarcati ad ondate successive da decine e decine di vascelli militari ed anche da navi mercantili) i rivoltosi di Palermo furono costretti alla resa.
I caduti e i feriti per le strade si contarono a migliaia. Mentre il generale Raffaele Cadorna (padre di Luigi, l’artefice delle disfatta di Caporetto), ormai padrone della piazza, poteva decretare lo stato d’assedio della città.
La reazione e le rappresaglie più sanguinose e terribili non si fecero attendere. Mentre da parte dei rivoltosi, per tutto il tempo della sommossa, sì era tenuto un contegno corretto, da veri rivoluzionari e non da briganti, senza che ci si abbandonasse a saccheggi e vendette personali o a ruberie, diverso fu il comportamento delle truppe regie e governative una volta ristabilito l’ordine.
In questo senso è significativa l’autorevole testimonianza del console di Francia dell’epoca a Palermo, che sul corretto comportamento dei rivoltosi durante la sommossa così ebbe a scrivere:
“I numerosi soldati ed ufficiali, che sono stati fatti prigionieri, non sono stati fatti oggetto di alcun cattivo trattamento. Tutti i consolati e le delegazioni straniere sono state rispettate. Questa condotta – concludeva il console di Francia a Palermo – non è certo quella dei briganti, ma di veri rivoluzionari che si rifanno ad un ideale, ad uno scopo politico ed a una giusta causa”.
In una lettera, un ufficiale dei granatieri, Antonio Cattaneo, a testimonianza delle atrocità commesse dai regi, scrisse ad alcuni amici.
“Vi posso assicurare che qualche vendetta la facemmo anche noi, fucilando quanti ci capitavano. Anzi il 23 Settembre, condotti fuori porta circa 80 arrestati si posero in un fosso e ci si fece fuoco addosso, finché bastò per ucciderli tutti”.
Ma ancor più raccapricciante, quando lo stato d’assedio posto dal generale Cadorna era stato già revocato con il ritorno, si fa per dire, alla legalità, fu quanto accadde tra il 12 ed il 15 Gennaio  del 1867. Due gruppi di detenuti, senza alcun processo e senza alcuna sentenza, furono fucilati dalle truppe durante l loro traduzione a Palermo. Stesso destino per altri cinque prigionieri provenienti da Misilmeri, fucilati ad un paio di chilometri dal capoluogo.
Una rivolta quella del “Sette e Mezzo” del Settembre del 1866 epica e certamente gloriosa ma, more solito, puntualmente ignorata e dimenticata dai libri di scuola e dalla storiografia risorgimentale. Una rivolta  che rimane un’eroica pagina della storia del popolo palermitano e proprio perché dimenticata è da parte nostra un atto dovuto ricordarla nella ricorrenza del suo 150° anniversario.

lunedì 12 settembre 2016

1683: la crociata di Innocenzo XI salva la Cristianità



Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 63/16 del 12 settembre 2016, SS. Nome di Maria

1683: la crociata di Innocenzo XI salva la Cristianità

Radiomessaggio di Pio XII in onore del beato Innocenzo XI (7/10/1956)

(…) Se non che in un'altra lotta, più minacciosa e tremenda, fu dato a Innocenzo XI di cogliere la palma della vittoria, meritandosi nella storia il titolo di salvatore della Cristianità dalla invasione dei Turchi. Al qual proposito teniamo a rendere noto che nel ricordare tali memorabili eventi, essenziali nella vita del Nostro Beato, ma lontani di quasi tre secoli e svoltisi in circostanze così diverse dalle presenti e ormai pienamente sorpassate, non abbiamo inteso in alcun modo di mancar di riguardo verso la Nazione turca, con la quale abbiamo relazioni, se non ufficiali, certo del tutto cortesi.
A dire il vero, Innocenzo non era un uomo politico nè per professione nè per inclinazione. Si ha anzi quasi l'impressione che, al momento della sua elevazione alla Sede di Pietro, non possedesse in questo punto una conoscenza del tutto chiara ed esatta della condizione straordinariamente intricata dell'Europa in quel tempo. Anche come Papa, egli si mantenne completamente al di fuori delle varie Leghe ed alleanze dei Principi cristiani, fra di loro o degli uni contro gli altri. Se dunque la storia commemora la sua grande azione politica, si spiega soltanto col fatto che la coscienza della sua responsabilità lo indusse ad entrare in quel campo. Si trattava, verso il 168o, di liberare l'Europa cristiana da un pericolo mortale, che, nella giusta estimazione di Innocenzo XI, non avrebbe potuto essere scongiurato, — dopo il necessario ricorso all'aiuto divino, — se non con un'azione, almeno principalmente, politica, iniziata dal Papa stesso, riunendo, cioè, le forze sparse delle nazioni europee sotto l'unico vessillo cristiano.
La vittoria marittima delle forze cristiane a Lepanto, la cui anima era stato il Suo e Nostro Santo Predecessore Pio V, aveva bensì, fiaccato la potenza ottomana e frenato l'impeto delle sue conquiste. Ma il confine del territorio dominato dai Turchi verso l'Europa centrale, rimasto immutato, rasentava Vienna; dell'Ungheria poi, dopo il 1541, non restava libera che una angusta striscia. La Porta poteva di nuovo sollevarsi, e lo fece sotto l'abile e temuto Gran Visir Kara Mustafà. Era suo disegno invadere l'Europa centrale, i territori della Casa degli Asburgo e, senza dubbio, passare anche in Italia.
In tale condizione di cose il pensiero dominante d'Innocenzo, che egli molto spesso manifestava, talvolta con ardente eloquenza, agli Inviati di Luigi XIV, era un contrattacco concentrico delle Potenze cristiane unite, inclusa Mosca, e in cooperazione con la Persia (cfr. Lettera del Card. Cibo al Nunzio di Polonia, 3o ottobre 1677 - Arch. Segr. Vatic., Nunz. di Polonia 183 A, fol. 104v-105).
Ma la dura realtà dei fatti deluse le sue speranze; Innocenzo dovè ridurre il suo progetto, restringendosi a promuovere un'alleanza tra l'Imperatore Leopoldo I e il Re di Polonia Giovanni III Sobieski, da lui chiamato « l'antemurale della Cristianità ». Però anche contro questo piano si addensò un cumulo di difficoltà, che parvero insormontabili ad ogni umano sforzo. Da parte sua, la Porta, che osservava attentamente gli sviluppi della politica europea, mentre sembrava non nutrire timori circa i Principi cristiani, non nascondeva la sua apprensione per l'opera del Papa. L'Ambasciatore veneziano a Costantinopoli, Pietro Civrano, così infatti informava il Senato di Venezia, nel 1682: « Fra' principi cristiani... non è posto nell'infima considerazione il Pontefice; lo credono atto a comporre qualche lega tra Principi Cristiani, unico più temuto freno degli infedeli » (Le Relazioni degli Stati Europei lette al Senato dagli Ambasciatori veneziani nel secolo decimosettimo, raccolte ed annotate da N. Barozzi e G. Berchet, Turchia, vol. unico, parte II, Venezia 1872, pag. 270).
Apprensione veramente fondata, poichè Innocenzo XI fin dal 1677, con energia quasi sovrumana, non lasciava nulla di intentato per venire a capo di quell'alleanza. Questa, a sua volta, era intralciata, fra l'altro, dagli equivoci e dalle diffidenze nutrite dall'una parte verso l'altra, dal fatto che Sobieski, già per sè poco affezionato all'Imperatore, si era lasciato guadagnare alla politica antiasburgica di Luigi XIV, ed inoltre, perchè nella stessa Polonia l'alleanza con l'Imperatore costituiva pomo di discordia dei partiti. Con lungo e tenace sforzo, il Papa, validamente sostenuto dai suoi Nunzi in Vienna e in Varsavia, eliminò un ostacolo dopo l'altro, fino a trarre Sobieski alla sua causa. Ma ecco che una nuova bufera minacciò di sommergere la nave giunta quasi in porto. In seno alla Dieta polacca, l'opposizione pareva insuperabile. Ma la Provvidenza divina, con visibile intervento, esaudì i voti d'Innocenzo XI. Inaspettatamente, allorchè nell'albeggiare del mattino di Pasqua, 18 aprile 1683, Sobieski comparve dinanzi alla Dieta e chiese l'accettazione dell'alleanza e la chiusura del Parlamento, ogni resistenza cessava. Nel rapporto del Nunzio in Polonia, Mons. Opizio Pallavicino, inviato lo stesso giorno al Card. Cibo, echeggia ancora il tono drammatico di quella lotta, il cui felice esito si attribuiva al santo zelo di Innocenzo XI. In quella notte — così egli scriveva — rimase del tutto compiuta l'opera tanto necessaria per la conservazione della Cristianità, e tanto desiderata dal S. Padre. Questa — egli aggiungeva — è una grazia singolare concessa da Dio alla Cristianità per i voti e le preghiere della Santità Sua, dovendosi confessare non poter essere opera umana, perchè qualunque industria, eloquenza ed arte non era valevole per ciò, dovendosi credere quasi veramente impossibile, e cosa più che naturale, il vedere, se non estinte, sopite le discordie, la rabbia, gli odii e rancori, cresciuti in sommo grado. Insomma tutte le circostanze facevano quasi disperare del buon esito di un affare sì importante, onde l'essersi felicemente concluso deve unicamente attribuirsi a Dio, mosso dai ferventi voti di Sua Santità (cfr. Arch. Segr. Vatic., Nunz. di Polonia 101, fol. 187).
L'intervento divino giungeva in tempo per salvare la Cristianità dal pericolo ormai estremo. Infatti nello stesso giorno in cui l'alleanza fra l'Imperatore Leopoldo e Sobieski era conclusa, il potente esercito turco per l'offensiva da Adrianopoli a Belgrado si metteva in movimento. Nei mesi che seguirono, IL Papa, non tralasciando un più intenso ricorso a Dio, si adoperò affinchè all'alleanza fosse data maggiore saldezza mediante un atto solenne le cui circostanze mostrano come egli fosse la guida morale del movimento di liberazione. Il 16 agosto 1683, nel Palazzo Apostolico del Quirinale i due Cardinali Protettori, Pio per l'Imperatore Leopoldo, e Barberini per il Re di Polonia, prestarono solenne giuramento nelle mani del Pontefice per la esatta esecuzione di tutte le obbligazioni e clausole convenute nell'alleanza offensiva e difensiva contro la Turchia, sottoscritta già dai Plenipotenziari il 1° aprile di quell'anno. La gioia d'Innocenzo XI in quel momento, e la sua commozione fino alle lacrime — come attesta il Card. Barberini in un'accurata relazione al Re di Polonia (20 agosto 1683 - Bibl. Vatic., Barb. lat. 6650, fol. 116-117) — erano pari alla trepidazione di una vigilia di battaglia, e alla speranza che quel patto potesse svilupparsi in una più ampia lega. Devotamente invocato il nome di Dio, il Papa implorò dal Datore di ogni bene le celesti benedizioni su quei Principi, esprimendo l'augurio che quanto era stato convenuto sarebbe inviolabilmente portato ad effetto (cfr. Arch. S. Congreg. de Propaganda Fide, Miscellanea Arm. VI, 39, fol. 280-283). Infatti, sebbene il detto trattato riguardasse immediatamente la guerra contro i Turchi; tuttavia in fine si stipulava che « siccome a questa alleanza erano non solo da invitarsi i Principi cristiani, ma anche da ammettersi quelli che spontaneamente vi si offrissero, perciò ambedue le Parti si obbligavano, in quanto era possibile, d'invitare alla medesima i Principi amici e alleati, di guisa che però si avesse l'accordo e il consenso di ambedue le parti, ogniqualvolta qualche Principe fosse da ammettersi; specialmente ambedue avrebbero invitato con ogni cura i Serenissimi Zar di Mosca » (cfr. Bibl. Vatic., Vat. lat. 12201, fol. 210v).
Nell'ora in cui si compiva così la solenne ratificazione dell'alleanza, Vienna era stretta d'assedio già da un mese, e Sobieski in viaggio con le sue truppe. I grandi eventi erano ormai maturi. La storica ora della battaglia definitiva di Vienna scoccò col primo limpido sole del 12 settembre, allorchè l'esercito di soccorso assalì quello degli assedianti. Prima del tramonto la vittoria arrideva nettamente agli eserciti cristiani, che incalzavano i Turchi in piena disfatta. Era a tutti chiaro che un così splendido successo fu reso possibile soltanto dalla cooperazione delle due armate, l'imperiale e la polacca. I contemporanei gli storici posteriori sono unanimi nell'affermare che l'artefice primario dell'alleanza, e quindi della liberazione di Vienna e del miglior corso che prese da quella la storia d'Europa, fu Innocenzo XI, il quale a sua volta, con commovente umiltà, ne attribuì ogni merito e gloria a Dio, per l'intercessione della sua Santissima Madre. Nel Concistoro segreto del seguente 27 settembre 1683, dopo avere pronunciato amplissime lodi all'Imperatore Leopoldo e al Re di Polonia, egli terminava così la sua Allocuzione: « Quod reliquum est, omnis spes et fiducia Nostra Deo est; Ipse enim, non manus Nostra, fecit haec omnia; proinde sincero cordis affectu convertamus nos ad Dominum Deum, Nostrum, ut mereamur eius semper protectione defendi ab inimicis nostris in angustiis et tribulationibus » (Bibl. Vatic., Bari) lat. 2896, fol. 590v).
A quella vittoria, che segnò il principio della ritirata della Potenza ottomana dall'Europa, e alla susseguente liberazione di Budapest ottenuta tre anni dopo, nel 1686, con l'estendersi della lega a Venezia e a Mosca, è indelebilmente legato il nome del Pontefice Innocenzo XI, come Uomo di Dio e Capo della Cristianità. (…)

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sabato 10 settembre 2016

[TOLKIENIANA] Éomer, obbedire e resistere

eomer




di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/

Con il saggio odierno vorrei concludere quello che potremmo definire il “piccolo ciclo pittorico di Rohan”. Attraversando gli ampi colonnati del ligneo palazzo finemente rivestito d’oro abbiamo al contempo contemplato e intessuto degli arazzi nei quali noi stessi, a fianco dei nobili cavalieri del Mark, ci siamo slanciati nella battaglia. Pertanto, al fine di completare questo modesto affresco letterario su Rohan, mi sembra doveroso non tralasciare il ritratto del principe degli Eorlingas, ovvero Éomer figlio di Éomund, fratello di Dama Éowyn nonché nipote di Re Théoden.
Il contesto storico odierno con tutte le sue contraddizioni, le mostruose e progressive aberrazioni che vengono partorite come l’immonda genia di Grendel, che nella corruzione dei potenti e nello stordimento dei popoli si presenta come il «regno del caos» può essere paragonato al tempo in cui Éomer, Maresciallo del Mark, si è venuto a trovare mentre i primi lampi della Guerra dell’Anello si intravedono minacciosi all’orizzonte.
Il regno di Rohan è allo sbando, il re, lo abbiamo visto, è succube di cattivi consiglieri ed essendosi abbandonato ad un quietismo soffocante ha lasciato che i suoi nemici proliferassero all’interno delle mura della sua cittadella fortificata: il cavallo di Troia nella città di Dio. Questo è il drammatico scenario che si dipana sotto gli occhi dell’unico erede al trono di Rohan. Il popolo languisce privato com’è di una guida, l’esercito si impigrisce e le braccia dei guerrieri si indeboliscono a causa del lungo digiuno dalla guerra. Il mestiere delle armi, lo spirito di virile militanza si tramuta in arrendevole irenismo che prepara la vittoria del nemico il quale, sotto suadenti promesse di pace, nasconde la lama della vendetta, pronto a sferrare il colpo mortale. È il principe del Mark che per esorcizzare i velenosi consigli di Grima Vermilinguo invoca la protezione divina quando prega sulle tombe dei suoi padri in cerca di lumi e forza: «Domine libera animam meam a labiis iniquis et a lingua dolosa» (Ps 119,2). E difatti egli sarà l’unico della casa reale a non subire il fascino del suo malefico influsso, conservando la sua fede e la sua libertà. Eppure egli stesso si trova in un drammatico limbo soverchiato com’è da ogni parte, essendo poco più che un fuori legge con scarsi mezzi e una fievole speranza.
Nel capitolo “I cavalieri di Rohan” è Aragorn, il capo e la guida dei Tre Cacciatori, a insegnare ad Éomer quasi mediante una rivelazione profetica: “Quando cadono i grandi, tocca ai piccoli guidare[1]. Una gravosa verità che nel nostro tempo possiamo benissimo applicare a noi stessi come un compito ineludibile che, lo si voglia o no, ricade su ognuno di noi giacché nessuno può scusare se stesso dal bene che doveva e poteva fare e non ha fatto ponendo innanzi le altrui mancanze.
Il vostro destino ormai è di scegliere – prosegue Aragorn – ed a Théoden figlio di Thengel dovrai dire ciò; una guerra aperta lo attende; con Sauron o contro di lui. Nessuno può continuare a vivere come in passato, e pochi conserveranno ciò che appartiene loro[2]. Se non sapessimo che queste parole sono state scritte in un tempo di relativa quiete, penseremmo, e avremmo ragione di farlo, che siano state scritte per noi e per i nostri tempi, ed è proprio per questo che posseggono una valenza quasi profetica che sorpassa la contingenza dello spazio e del tempo.
A questo proposito potremmo noi pensare alla grave crisi oggi in atto nella Chiesa che ne corrode interiormente il tronco come un tarlo. E a ben pensare ci accorgeremmo di quante sorprendenti analogie sussistono fra la Terza Era della Terra di Mezzo e il Terzo Millennio del mondo presente, tanto da renderli simili in molti aspetti non secondari. Ma se è vero, com’è di fatti, che la Chiesa Cattolica è il Regno di Dio e avendo noi allo stesso tempo sotto gli occhi una molteplicità di divisioni interne, di profonde divergenze, di credenze e convinzioni religiose non di rado radicalmente opposte e inconciliabili, vien da chiedersi: “un regno diviso in sé stesso, come può reggersi”? E ancor più dovremmo domandarci con sgomento: quando l’anomia, derivante dalla rinuncia da parte dell’autorità divinamente istituita per regnare, proteggere e pascere, prende il sopravvento, il soldato di Cristo, cioè il portatore dell’Anello, che cosa può fare? In altre parole, “quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?[3].
Nello sfacelo dell’ora presente spetta ad ognuno di noi scegliere, poiché neppure noi possiamo continuare a vivere come in passato. In tal senso la figura di Éomer riveste un ruolo di estrema e durevole attualità, da una parte perché espressione di un preciso modello di virtù cristiana, egli infatti incarna l’ideale del “principe cristiano” ma anche del vir catholicus impegnato nel diuturno combattimento spirituale. E d’altra parte, con il suo comportamento, offre uno straordinario esempio di quale debba essere il giusto modo di porsi dinanzi al vacillare, se non addirittura al tradimento, dei governanti siano essi uomini di Chiesa o uomini di Stato.
La fedeltà a Cristo, alla sua Chiesa e alla sua santa ed immutabile Dottrina comporta ineluttabilmente una scelta. Non sarebbe la prima volta che in un racconto, storico o immaginario, degli uomini “grandi” vacillano nel loro ruolo di guida, mentre i “piccoli”, disprezzati ed esiliati, devono portare il peso della debolezza di quelli plasmando così la fortuna di tutti. Pensiamo soltanto al caso emblematico del vescovo Atanasio d’Alessandria (IV sec.) braccato, esiliato, scomunicato e ricoperto di ingiuriose calunnie da una parte all’altra dell’Europa.
L’Imperatore Costanzo aveva esiliato, fra gli altri, anche Papa Liberio il quale insieme a San Lucifero di Cagliari, Sant’Ilario di Poitiers e San Paolino di Treviri si era opposto in un primo momento alla scomunica di Sant’Atanasio. Tuttavia “secondo le testimonianze di Atanasio, Ilario, Girolamo e Sozomeno, Liberio riuscì a ottenere il ritorno dall’esilio di Berea in Tracia, abbandonando Atanasio e la formula nicena. Secondo lo storico greco Sozomeno, che scrive su buone informazioni nel 5° secolo, Liberio avrebbe sottoscritto una delle formule di Sirmio, al fine di rimettere la pace in Oriente e di poter far ritorno a Roma”[4].
L’accusa ingiuriosa dell’Imperatore Costanzo contro Atanasio per costringere Papa Liberio a scomunicarlo suona molto familiare alle nostre orecchie giacché, mediante la calunnia, mira ad evidenziare il frutto della sua intransigenza dottrinale ossia la divisione degli animi. Così l’empio imperatore Costanzo gli fa presente: “la vita di Atanasio, notoriamente malvagia, la sua infaticabile opposizione alla pace nella Chiesa, i suoi intrighi per far nascere la discordia”[5].
Da allora sono passati circa 1700 anni, eppure gli argomenti a fondamento della persecuzione dei fedeli servitori di Cristo sono sempre gli stessi. Coloro che pongono la Verità al di sopra del rispetto umano vengono accusati, oggi come allora, di “rompere la comunione”, di “dividere”, di “disobbedire” e in questo, per associazione, gli si attribuisce per padre il Diavolo. Questi infatti è per antonomasia colui che “divide” mentre Cristo è colui che “unisce”: una sorta di sillogismo universale e infallibile. Purtroppo costoro si lasciano ingannare da una giudizio sulla realtà superficiale e semplicistico giacché non sempre il Diavolo divide gli uomini, né Cristo è sempre fattore di unità e concordia. “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Sono venuto infatti a mettere in discordia il figlio col padre, la figlia con la madre, la nuora con la suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10,34-36).
Il Signore in questa sentenza utilizza il termine “non crediate” che in latino suona «nolite arbitrari» cioè non vi ingannate, o non vi illudete, o meglio ancora non vi inventate che io sia venuto a mettere d’accordo tutti quanti, o a stabilire sulla terra una sorta di “movimento per la pace universale”. L’opera di divisione del demonio è sostanzialmente e primariamente volta a separare l’uomo da Dio e successivamente l’uomo dal bene e dalla virtù, ma per coloro che praticano il male e rifiutano di sottostare alla Legge di Dio satana diviene un fattore di unità e di concordia perché tutti si scagliano, come un solo uomo, contro il Figlio di Dio come insegnano le Scritture: “Adstiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius[6].
Credo perciò che possa tornare di grande utilità riprodurre qui gli argomenti seducenti, così come li riporta il cardinal J.H. Newman,  di cui si servirono gli eusebiani Fortunaziano e Demofilo per convincere Papa Liberio a cedere sulla dottrina e, di conseguenza, a scomunicare il Vescovo Sant’Atanasio, ricevendo in premio il ritorno dall’esilio: «Essi gli dissero – dice Newman citando Maimbourg – che non riuscivano a rendersi conto di come un uomo del suo valore e del suo spirito volesse soffrire così a lungo per una opinione chimerica che esisteva solo nell’immaginazione di persone poco o nulla intelligenti. E che, se egli avesse sofferto per la causa di Dio e della Chiesa, cui Dio lo aveva posto a capo, essi non solo avrebbero considerato gloriose le sue sofferenze, ma, desiderosi di condividere tale gloria, sarebbero divenuti suoi compagni d’esilio. Ma la questione per cui egli si trovava là non aveva niente a che vedere né con Dio né con la religione, e riguardava solo una persona privata di nome Atanasio, la cui causa non aveva niente in comune con quella della Chiesa, da lungo tempo accusato di innumerevoli crimini dalla voce pubblica, condannato da vari concili, ed espulso dalla propria sede dal grande Costantino, il cui giudizio era più che sufficiente, da solo, a giustificare le accuse che Oriente ed Occidente gli avevano così spesso rivolto. Del resto, anche se Atanasio non fosse stato così colpevole come appariva dalle condanne pronunciate, era comunque necessario sacrificarlo per la pace della Chiesa e gettarlo in mare per placare la tempesta da lui suscitata. E poi, dal momento che la maggioranza dei vescovi l’aveva condannato, ogni ulteriore difesa non avrebbe che provocato uno scisma, e sarebbe stato molto strano vedere il prelato romano abbandonare la Chiesa ed esiliarsi in Tracia a soffrire per uno che, sia la giustizia divina che quella umana, avevano tante volte giudicato colpevole. Era giunto il momento di disingannarsi e di aprire gli occhi, alla fine, per vedere se, nel caso di Atanasio, non fosse stata la passione a spingerlo a dare un falso allarme, e ad opporsi ad una eresia immaginaria, facendo credere al mondo che loro, gli eusebiani, avevano il proposito di stabilire l’errore»[7].
La similitudine tra questi consiglieri untuosi e il perfido Grima Vermilinguo è impressionante, e ancor più colpisce la reazione di Papa Liberio se accostata a quella di Théoden. Il Re di Rohan infatti, sdegnato per l’intransigenza di Éomer giustifica il suo esilio adducendo una pretesa “disobbedienza” all’autorità del Re: “«Si è ribellato ai miei ordini e ha minacciato di morte Grìma nella mia sala del trono»[8]. Una colpa apparentemente sufficiente a giustificare un provvedimento che potremmo definire quasi di “scomunica”. Ma il buon vecchio Gandalf, nella sua profetica saggezza, corregge l’affettato legalismo di Re Théoden: «Un uomo può amare te, eppure non amare Vermilinguo o i suoi consigli», ribatté Gandalf”[9]. Una sentenza questa che contiene in sé il principio per distinguere gli ordini cattivi dai buoni consigli, e ancora per distinguere l’autorità legittima dall’esercizio abusivo di quella stessa autorità. Di più, direi che con questa semplice sentenza Gandalf abbia sancito la legittima resistenza all’autorità quando essa non è guidata dal bene e dalla giustizia ma bensì è sobillata e manovrata dai “cattivi maestri”. In realtà, in questo caso la specie dell’azione in oggetto non sarebbe la “disobbedienza” quanto una più forte obbedienza al bene assoluto ed immutabile sul quale si fonda la stessa autorità umana, il cui scopo è giustificato soltanto dall’esercizio e l’amministrazione del bene. “Nolite arbitrari” ci dice ancora il Maestro Buono, non vi fate arbitri di ciò che è giusto secondo il vostro personale giudizio soggettivo, ma giudicate voi stessi se sia più giusto obbedire agli uomini anche quando comandano l’errore, o obbedire a Dio e alla Sua Legge eterna, immutabile e stabile per sempre, non fatta da mani d’uomo.
Pertanto il coraggio e il valore di Éomer prima ancora che in battaglia si manifestano nella sua integrità morale e intellettuale che gli consentirà di resistere virilmente, seppur con dolore, agli ingiusti ordini del Re guadagnandosi l’esilio e l’infamia agli occhi degli uomini. Eppure per la sua fedeltà al bene e alla verità un onore ben più grande lo attende in fine. “Alcuni all’orecchio del re, sussurrano consigli codardi; – dice il Maresciallo del Mark – ma la guerra sta per giungere. Non tradiremo la nostra alleanza antica con Gondor, e li aiuteremo sino a quando combatteranno: queste sono le parole mie e di coloro che combattono con me[10]. Un giuramento di lealtà, una promessa di aiuto degna di un combattente di Rohan, fedele al Re e alla Patria. Il suo senso del dovere è solido come la quercia e l’energia che pone nell’onorare il suo rango lo pone al di sopra dei suoi coevi. “Il Mark orientale mi è stato affidato[11], professa fiero dinanzi ad Aragorn, conscio della sua responsabilità nel difendere il Regno anche se a causa della sua osservanza viene bandito, esiliato e scomunicato.
Il beato padre Girolamo Savonarola, anch’egli scomunicato da Papa Alessandro VI, nel suo De veritate prophetica, un trattato autobiografico in forma di dialogo, afferma un principio cardine della vita cristiana «bona facere et mala pati Christianum est». Ancora una volta siamo ricondotti alla virtù cardinale della fortezza altrimenti detta «virilitas» la quale ci dispone sia a sopportare pazientemente il male in vista di un bene maggiore, ma anche ad aggredire, per così dire, il vizio per non lasciarci soverchiare da esso. «L’uomo – insegna San Tommaso – non espone la sua persona al pericolo di morte se non per salvare la giustizia. Perciò la lode della fortezza dipende in qualche modo dalla giustizia»[12]. Éomer nonostante l’ingiusta persecuzione non si rivolta contro il suo re come Assalonne con Davide, né per lo scandalo del male che si diffonde dal trono regale diviene un alleato del nemico, al contrario rimane fedele alla casa reale anche se, per il momento, essa ha smarrito la retta via e nel Sacro Palazzo si sono insediati spie e adepti del Nemico. L’esempio di Éomer ci impartisce un prezioso insegnamento: in tempi come questi bisogna accettare la sorte di coloro che sono disprezzati dal mondo e insieme incompresi e perseguitati dai propri capi e pastori, sopportando il male e tuttavia, cosa ancora più importante, non desistendo dal compiere il bene integralmente, professando la verità tutta intera. Un vero uomo, infatti, non sopporta soltanto l’ingiustizia ma pratica anche la giustizia. Il cristiano prosegue stabilmente sul retto cammino invitando così a rivolgere lo sguardo non verso se stesso ma verso il fine della sua incomprensibile perseveranza, additando così facendo la méta e la causa finale della vita cristiana: la vita eterna nel possesso di Dio.
Le terre del Mark insieme ai loro abitanti sono state affidate ad Éomer, ed egli intende restituirle integre e floride al Re quando tornerà a cercare ciò che è suo. Niente vuole cambiare di ciò che ha ricevuto, niente tenere per sé ma tutto ciò che gli è stato trasmesso pretende che si conservi come un tesoro inestimabile alle generazioni che lo seguiranno. Egli sa bene che ciò che è ricevuto non ci appartiene e che tutto ciò di cui disponiamo è un’opportunità per dimostrare il nostro valore prima di restituire il prestito affidatoci per un tempo. «Tradidi vobis quod et accepi», disse l’Apostolo Paolo al termine della sua carriera terrena, mentre si accingeva ad affrontare l’ultima gloriosa marcia verso la rovina, ed è questo il medesimo richiamo all’Autorità che si innalza sopra i cieli che è impresso nel cuore di Éomer muovendolo all’immolazione e al sacrificio di sé pur di conservare intatto il cuore del regno di Rohan: l’onore.
Ma la figura di Éomer potrebbe suscitare anche un’altra riflessione sulla vera obbedienza che potremmo porre in questi termini: “Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?»”[13]. Credo che potremmo sintetizzare la morale della nota parabola evangelica dicendo che ci sono due specie di cristiani: coloro che dicono di sì a Dio con la bocca ma poi non mettono in pratica la sua Legge, e coloro che, attraverso la virtù, vincono se stessi e l’incertezza degli inizi per volgersi totalmente al timore di Dio nel suo diuturno servizio. I primi apparentemente sembrano servi fedeli, ammantati del vello di candidi agnelli: la falsa obbedienza che cela e giustifica l’attaccamento alla viziosità. I secondi appaiono disobbedienti e ribelli, considerati dei presuntuosi ma sotto il fallace giudizio degli uomini riposa la quiete del giusto, “l’uomo infatti giudica le apparenze, il Signore giudica il cuore[14].
Molti erano i cortigiani di Théoden al tempo dell’apostasia ma pochi coloro che lo servivano con amore filiale e fedeltà indefessa. Molti godevano del suo favore saziandosi alla sua mensa forti dell’approvazione del re, ma pochi coloro che desideravano la pace per la casa del loro signore. Mentre il Maresciallo di Rohan, l’eques Christi, era divorato dallo zelo per la casa del Signore tanto da subire per essa l’infamia della ingiusta condanna.
In tutti coloro che condividono i patimenti della Croce di Cristo possiamo rinvenire una traccia e una riproduzione in scala delle virtù del Nostro divino Redentore. Egli al fasto della corte di Meduseld contaminata dall’ipocrisia e dalla corruzione preferì la via dell’esilio, e in compagnia di pochi fedeli cavalieri affrontò il freddo delle lunghe notti al chiaro di luna o nelle tempestose veglie in attesa d’un’alba grigia senza calore. Da erede al trono si trova vagabondo e fuggiasco nella sua terra, combattente eroico e silenzioso nessuno è lì per ringraziarlo; il sangue dei suoi uomini, arditi che hanno preferito l’ignominia alla gloria del mondo, scorre nelle battaglie ai confini più remoti del regno dove le orde di orribili e oscure creature non consente il riposo notturno; soltanto il crepitio dei fuochi da campo rischiara le tenebre che da Isengard si stendono sulle praterie, ora pallide, di Rohan. Ramingo nel suo stesso Paese che lo ha rigettato, Éomer vaga nomade insieme ad un pugno di prodi che null’altro chiedono se non di conservare la libertà per la propria Patria e restituire l’onore dovuto al Signore dei signori, al Re dei re, ahimé da troppo tempo detronizzato dalla sede regale acquistata a prezzo del suo inestimabile Sangue.
Éomer a giudizio degli uomini appariva il peggior nemico del Re, colui che divideva il regno al suo interno indebolendolo, e per dipiù osteggiando l’autorità regia. In realtà nessuno serviva sua maestà meglio dell’esiliato Éomer, il figlio disprezzato e fedele che, a causa della sua lealtà, venne considerato alla stregua di un bandito fuori legge, nemico del regno. In realtà questo signore dei cavalli non è da meno del suo antenato Eorl il Giovane, e la sua virtù va ad aggiungersi a quella degli altri personaggi che l’intelligenza sub-creatrice di J.R.R. Tolkien, illuminata dalla fede, ha creato per il ristoro di noi piccoli uomini della Terza Era.
Vorrei infine terminare con un omaggio che spero ci porti a guardare ancora più la realtà nel modo in cui la guardava Tolkien, ossia con quella “trasparenza” metafisica, o sensibilità poetica, che ci permette di penetrare la mera apparenza delle cose per giungere alla loro reale essenza. In questo sguardo semplice, limpido e oserei dire di fanciullo rientra l’amore di questo veterano della prima guerra mondiale per i cavalli. La Grande Guerra fu l’ultimo conflitto in cui vennero utilizzati i reparti a cavallo prontamente sostituiti dalle certamente più distruttive macchine della moderna tecnologia bellica. Tolkien detestava il progresso tecnologico e amava in maniera del tutto speciale i cavalli, per questo motivo ha voluto inventare un regno in cui queste magnifiche e nobili creature fossero stimate e curate in particolar modo tanto da essere capaci, in determinati casi, di parlare il linguaggio degli uomini. E se ci pensiamo questo suo affetto per il cavallo non è affatto casuale giacché questa creatura più di altre esprime la nobiltà e l’eleganza, essendo al contempo fiera e umile, forte e aggraziata, coraggiosa e indomita. Non a caso la Sacra Scrittura ne loda le qualità dedicandole persino un breve componimento poetico che non ha eguali in quanto a bellezza e profondità e che possiamo presumere abbia ispirato anche la creazione del regno di Rohan: “Puoi tu dare forza al cavallo e vestire di fremiti il suo collo? Lo fai tu sbuffare come un fumaiolo? Il suo alto nitrito incute spavento. Scalpita nella valle giulivo e con impeto va incontro alle armi. Sprezza la paura, non teme, né retrocede davanti alla spada. Su di lui risuona la faretra, il luccicar della lancia e del dardo. Strepitando, fremendo, divora lo spazio e al suono della tromba più non si tiene. Al primo squillo grida: “Ih! Ih!”, e da lontano fiuta la battaglia, le grida dei condottieri, il fragor della mischia”. (Job 39,19-25).
Non poteva esserci un destriero più adeguato per un guerriero come Éomer. Il cavallo e il cavaliere formano quasi un tutt’uno, il mondo degli uomini e il mondo dei cavalli si intrecciano ed entrambi dipendono l’uno dall’altro in una simbiosi epica, magnifica, cristiana. Ma il prezioso legato spirituale che questa figura ci trasmette è ben più di un vago e sentimentale amore per le creature: è una lezione imperitura di cui fare tesoro nei giorni a venire e che sant’Agostino, il «Doctor Gratiae», ha mirabilmente sintetizzato in questo modo: «In persecutione militia, in pace constantia coronatur»[15]. Che nella lingua corrente significa: “In tempo di persecuzione è premiato il combattimento, in tempo di pace è premiata la perseveranza”.
Coraggio uomini dell’Ovest, la battaglia del Fosso di Helm è finita, ma la battaglia per la Terra di Mezzo è appena iniziata.





[1] p. 534.
[2] P. 351.
[3] Sal 10,3.
[4] K. BIHLMEYER – H. TECHLE, Storia della Chiesa vol. I, Morcelliana, Brescia 1960, p.305)
[5] Cit. in J.H.NEWMAN, Gli ariani del IV secolo, Jaca Book, Milano 1981, pp. 244-245.
[6] At 4,26-27.
[7] L’opera di L. Maimbourg (1610-1686) cui si riferisce Newman è la Histoire de l’arianisme avec l’origine et le progrès de l’hérésie des sociniens, 3 voll., 1673; in J.H.NEWMAN, “Gli ariani del IV secolo”, Jaca Book, Milano 1981, p. 246.
[8] Il Signore degli Anelli, cit., p. 628.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem, 534.
[11] Ibidem.
[12] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 123, a. 12, ad 3m.
[13] Mt 21,28-31.
[14] 1°Re 16,7.
[15] Serm. 303, 2.