giovedì 25 agosto 2016

DEL CRISTIANESIMO E DELLA DEMOCRAZIA


Fonte: http://progettobarruel.comlu.com/

La Civiltà Cattolica anno XXXI, serie XI, vol. IV (fasc. 729, 27 ott. 1880), Firenze 1880 pag. 281-295.

R.P. Raffaele Ballerini d.C.d.G.

DEL CRISTIANESIMO E DELLA DEMOCRAZIA

I.

In un precedente articolo [1], esaminato il concetto messo in campo da un cattolico liberale, di una futura democrazia cristiana, che avendo il centro in Roma, riconoscesse il Papa, non più Sovrano, e come Pastore supremo della Chiesa e come arbitro civile; ne mostrammo l'assurdità, e per parte della ipotetica democrazia che, essendo cristiana davvero, non avrebbe mai tollerato che altri dominasse in Roma, dal Papa in fuori; e per parte del Papa medesimo, il quale sarebbe venuto ad esservi, come v'è al presente, o suddito, o prigioniero. Resta ora che, secondo la promessa fattane, ragioniamo un poco delle intrinseche relazioni, che l'Autore suppone correre fra la democrazia e il cristianesimo: d'onde inferisce quasi la morale necessità, che l'ultimo e più perfetto trionfo del cristianesimo nel mondo debba essere sotto la forma democratica.
Lasciamo stare il grado maggiore o minore di probabilità che possa avere l'avveramento del presagio, che la democrazia s'abbia a stabilire da per tutto in modo durevole. «Non vi è serio pensatore, scrive l'Autore nostro, che non si avvegga, che si approssima un periodo storico della più alta importanza, uno di quei periodi che sono l'embrione di un avvenire nuovo della società... il trionfo della democrazia!» Le apparenze favoriscono, così per le generali, questo presagio: non mancano però serii pensatori, i quali dubitano fortemente che il delirio democratico, dal quale sembrano oggi presi i popoli inciviliti, sia per condurli alla stabilità nella democrazia; e congetturano invece che, cessate le cause morbose e artificiali di questo delirio, ai furori democratici succederanno ferree dittature, le quali riporranno i popoli in quell'ordine di monarchia equamente temperata, che è il più consentaneo al genio loro ed alle storiche loro tradizioni. Ma di ciò non vogliamo disputare.
Ci piace tuttavia che l'Autore non si stanchi di ribadire il gran chiodo che, senza religione veracemente cristiana, la stabilità della democrazia è un sogno: e sfolgori in mille modi la maschera di democrazia, che si è messa in volto la ingannevole e barbara demagogia della Rivoluzione francese, servilmente imitata e copiata negli altri paesi e nell'Italia segnatamente. Meritano particolare considerazione queste sue giustissime parole: «La vera democrazia è tuttora impossibile, e lo sarà finchè vi sarà da demolire. Quando verrà l'ora di edificare, Iddio manderà i giganti: a demolire bastano i pigmei, bastano braccia profane ed istinti brutali; mentre a riedificare vi vuole lo spirito d'ordine e di carità e l'impulso eroico del sacrificio; vi vogliono braccia che sappiano congiungere, assimilare ed armonizzare; e se non siamo ebeti, ci avvedremo che, cominciando dalla scuola e terminando al Parlamento, tutt'altro vi trionfa, fuorchè la forza che unisce, assimila ed armonizza. E questo è sintomo che la forza prevalente è la demolitrice: ed infatti ovunque si volga lo sguardo, non ci si presentano che demolizioni : demolizione di principii, demolizione di pace domestica, demolizione di costumi, demolizione di pubblica e privata ricchezza, demolizione del sacro palladio della giustizia, demolizione dei comuni, demolizione dei grandi istituti, fondati dalla fede operativa dei secoli a sollievo dell'umanità... E questa smania di demolizione non è una vera demagogia? Grattate pure codesti democratici, e sotto vi troverete immancabilmente il demagogo.»
Ci piace altresì ch'egli batta e ribatta la necessità, che a fondamento della democrazia, se l'edificio suo deve durare, si ponga la vera fede di Gesù Cristo. «La democrazia, così egli, si renderà possibile, quando si sarà capito che la fede, assai più che l'idea, governa il mondo, dacchè di fede si vive ancorchè increduli. Ed i capi della sedicente democrazia pretendono di fondarne il regno, attentando a questo elemento in cui l'uomo, suo malgrado, è obbligato a vivere? Oh dementi!... Spreca il suo fiato il filosofo razionalista, invocando ed evocando una religione dell'avvenire, ed attendendo con la giudaica gente un novello Messia, un maggiore tesmoforo. Il Cristo Dio è venuto, ed è quello di ieri, di oggi, di domani: attendere un domma più divino della buona novella, è un sogno di mente inferma... Invero coteste menti, abbacinate dall'orgoglio, ebbero in pena della loro alterezza la confusione delle idee, come altre volte per la superbia si confusero le lingue: leggete i Dialoghi filosofici di Renan, la Religione dell'avvenire di Mamiani, il Dio Liberale di Filopanti, e ve ne persuaderete abbastanza.»
Riconosciuto pertanto all'Autore questo merito, ch'egli intende prevedere lo stabilimento di una democrazia, non già punto massonica o diabolica, qual è quella che in presente minaccia l'ordine della società, ma di fatto e pienamente cattolica, col suo centro nel romano Pontefice, passiamo ad osservare le dottrine che egli, a proposito dell'alleanza tra il cristianesimo e la democrazia, mette in campo.

II.

«La vera democrazia, dic'egli, altro non è che il regno della giustizia, l'eguaglianza dei diritti, la nullità dei privilegi fittizii e l'esatta conoscenza ed osservanza dei proprii doveri. E se questa e non altra è la chiara definizione della democrazia, chi meglio del Vangelo l'ebbe intesa, promulgata ed imposta a' suoi seguaci?»
Compatiamo l'Autore, che avendo scarsamente studiato la filosofia, non ha chiara idea di ciò che dev'essere una chiara definizione. Nessun logico gli menerebbe buoni i due elementi del regno della giustizia e dell'esatta conoscenza ed osservanza dei proprii doveri, introdotti in questa definizione della democrazia: perocchè ancora nelle altre forme di governo o di socialità, come, per esempio, nella monarchica o nella oligarchica, che sono forme naturalmente buone, può e deve esservi questo doppio elemento; senza del quale si avrebbero a tacciare di inique e di disordinate ab intrinseco: il che è teoricamente e storicamente falsissimo. Questo doppio elemento non convenendo alla sola democrazia ed essendo, non costitutivo suo essenziale, ma più tosto fine od effetto comune alle altre forme ancora di socialità, dalla sua definizione andava escluso. La quale definizione, volendola egli fare conforme la retta logica prescrive, dovea prendere il genere prossimo della cosa, che qui è l'ordinamento del vivere sociale, retto e mantenuto da suprema autorità, e la differenza ultima, ossia la specificante, che, nel caso nostro, è l'eguaglianza dei diritti politici e civili d'ogni membro della società: la quale eguaglianza poi rimove ogni privilegio, non solo fittizio, ma anche reale, secondochè dalla stessa parola di democrazia viene indicato; significando essa, governo del popolo; cioè un popolo che si regge da sè, tolti i riguardi alla nascita, al censo e ad altri titoli accessorii.
Or considerata la democrazia sotto questo rispetto, che è il vero, cade in gravissimo errore l'Autore nostro, asserendo che il Vangelo l'abbia promulgata ed imposta a' suoi seguaci. Il Vangelo non è un codice politico, direttamente ordinato al maggior bene umano di questa vita: ma è un codice religioso e morale, direttamente ordinato alla eterna e soprannaturale salute delle anime: nè il Vangelo per sè raccomanda più la forma politica e sociale della democrazia, che quella della monarchia: ma raccomanda che i suoi seguaci, sotto qualunque foggia di governo si trovino essere, facciano regnare la giustizia, ed esattamente conoscano ed osservino i loro proprii doveri.
Affinchè meglio si capisca il sofisma in cui l'Autore, al muovere del primo passo, è inciampato, distinguiamo parte da parte. Che il Vangelo promulghi ed imponga il regno della giustizia, soprannaturale ed anco naturale, e l'adempimento dei doveri di ciascun uomo, è vero, verissimo: ma che promulghi ed imponga l'eguaglianza dei diritti e la nullità dei privilegi politici e civili, è falso falsissimo. È verissima la prima cosa, giacchè senza giustizia, quantunque naturale, e senza osservanza dei doveri, non può darsi quell'ordine morale, che è voluto da Dio e posto da lui a necessaria condizione della stessa salute: se non che un ordine così fatto si può verificare e si verifica in qualunque forma di politica società il cristiano viva. È poi falsissima la seconda cosa, imperocchè di diritti e di privilegi politici Cristo Signor nostro non si è mai impacciato: e noi sfidiamo chi che si sia a citare una sola parola del suo Vangelo, che di questi tratti, o a questi alluda. L'unica regola di santa politica che Gesù Cristo abbia promulgata e imposta, è che si devo rendere a Dio quel che è di Dio, ed a Cesare quel che è di Cesare: vale a dire che, prima di tutto e sopra tutto, si de[v]e riverire il supremo diritto che ha Dio, come creatore e signore dell'uomo e dell'umana società, e adempierne tutti i precetti; poi, per riguardo a Dio stesso, che comanda l'ordine nell'umano consorzio e da cui ogni ordinata podestà discende, riverire i diritti che ha la politica autorità, cioè Cesare; ossia poi Cesare il capo di una monarchia, ossia un corpo morale reggente una democrazia. Fuori di questa regola, altra nel Vangelo non si ritrova.

III.

Ravviata con questa distinzione la confusa matassa, riman più facile sciogliere i nodi, co' quali l'Autore seguita a svolgere il suo ragionamento. «E non vogliamo persuaderci, interroga egli, che essendo stato il Cristo il primo democratico del mondo, il vero fondatore della democrazia, osteggiandone le dottrine, combattendo Chi sulla terra n'è il naturale custode, noi abbiamo distrutto in quello credevamo edificare? O con me, Egli ci ripete e con l'esempio e con le parole, e il vostro trionfo è sicuro; o senza me ed abortirete nel nascere. Ma a consolarci, in tanta perplessità di cose, giova riflettere che l'eguaglianza dei diritti, cioè la vera democrazia, altro non essendo che la giustizia, ed avendo la giustizia in sè la potenza irresistibile del vero, il regno della democrazia vera dovrà essere invincibile e finirà col trionfare.»
Si può proprio dire, che quanti periodi tanti spropositi. Si lascino i comunisti, i socialisti, i frammassoni, camuffati da credenti, dare, pe' lor mali fini, al Dio Redentore questo titolo di primo democratico del mondo, e di vero fondatore della democrazia. Un cattolico non abuserà mai del linguaggio sino a questo punto, nè si farà lecito di trattare il Cristo Dio con termini di sì triviale ambiguità.
Politicamente e socialmente parlando, il qualificare Gesù Cristo di primo democratico e di fondatore della democrazia, è, come abbiam veduto, una menzogna, la quale, applicata, benchè innocentemente, a sì divino soggetto, pute [= puzza N.d.R.] di bestemmia. Non pure nulla è nel sublime Vangelo di lui, che dia presa a questa menzogna, ma tutto concorre a fare che si ripudii. Di umana politica, lo ridiciamo, il Figliuolo di Dio umanato non volle mai impacciarsi. Egli non venne al mondo pe' miseri interessi di questa: ma veni, predicava egli di sè, acciocchè gli uomini, vitam habeant et abundantius habeant [2]. [«Io sono venuto perché (gli uomini) abbiano la vita e l'abbiano più abbondantemente» trad. G. Ricciotti N.d.R.] Tutto, ne' suoi esempii e ne' suoi insegnamenti, mirava alla vita eterna. Del resto egli nacque povero sì, giacchè volle prendere per sè le pene comuni al maggior numero degli uomini, che sono i poveri, e santificare in sè stesso la povertà; ma tuttavia nacque reale Principe della stirpe di David e con diritti al trono, ch'egli non volle far valere giammai, ma pure aveva notissimi e legittimi. Egli osservò tutte le leggi ed usanze, non solamente le proprie della nazione giudaica, ma ancora quelle imposte dai Romani, conquistatori della Giudea ed usurpatori del pubblico dominio; tantochè egli fece un solenne miracolo, per pagare a Cesare il tributo. Coll'esempio dunque e colle parole, visse soggetto ai poteri costituiti; nè mai si giunse a provare, ch'egli avesse propagate dottrine all'autorità o della Sinagoga o di Cesare opposte. Ed ognuno sa che, al tribunale di Pilato, si presentarono bensì dalla truculenta Sinagoga le accuse di ciò contro lui; ma non vi si poterono sostenere: così che Pilato le disprezzò e da queste vere calunnie egli scoperse che propter invidiam [«per invidia» cfr. Matth. XXVII, 18 N.d.R.] era egli deferito al suo giudizio e gridato a morte.
L'unico senso nel quale a Gesù Cristo, in qualche modo, potrebbe non disdire la denominazione di primo democratico e fondatore della democrazia, è quello che l'Autore nostro ancor egli ha veduto, ed esprime assai bene, dove mostra con calda facondia la necessità di serbare i popoli religiosamente fedeli a Gesù Cristo, poichè l'ineguaglianza naturale delle condizioni umane «non può essere compensata che coll'eguaglianza d'una stessa fede, coll'eguaglianza di tutti dinanzi allo stesso Dio, coll'eguaglianza d'una vita avvenire, nella quale tutto sarà riparato, tutto reintegrato». Oh qui sì che andiamo d'accordo!
Sotto il rispetto, non più politico ed umano, ma celeste e della grazia, il Redentore ha veramente fondato una santissima democrazia, nella quale tutti indistintamente gli uomini sono chiamati ad essere figliuoli adottivi del medesimo Padre; tutti egualmente fratelli del medesimo Verbo fatt'Uomo; tutti, senza divario, ricomperati col medesimo prezzo del sangue divino e della vita di lui; tutti parimente partecipi della medesima fede, dei medesimi sacramenti, del medesimo fine; tutti membri della medesima Chiesa, sottomessi al reggimento di un unico Pastore. Ma che ha egli che fare questo rispetto, con quello della mondana politica e con quello in ispecie della forma democratica del governo civile?
Dato ciò, cade da sè il fallace presupposto dell'Autore, che Gesù Cristo sia naturale custode di questa forma di governo; e che, a proposito di codesta forma, egli abbia detto: Qui non est mecum contra me est [3] [Matth. XII, 30: «Chi non è meco, è contro di me» N.d.R.] e cade e ruina l'altro presupposto, più che fallace, che l'eguaglianza dei diritti sia la giustizia, predestinata a trionfare nel mondo ed a regnarvi. L'eguaglianza dei diritti civili e politici (s'intende) sarà giustizia, dove è giustamente stabilita, senza offesa di altrui diritti preesistenti: ma sarà ingiustizia, dove colla forza, o colla frode, o coll'iniquità si voglia introdurre, a danno dei diritti altrui. In ogni caso poi, potrà essere ed anche sarà parte della giustizia, non mai la giustizia per antonomasia, la quale si stende a ben più altre cose, che alle meramente politiche e civili.
Senza che ov'ha imparato l'Autore, che questa piena giustizia, debba propriamente trionfare nel mondo? Dal Vangelo, no davvero: chè in esso ai fervidi seguaci della essenziale Giustizia e Santità, che è Gesù Cristo, sono invece predette persecuzioni, maledizioni, uccisioni; insomma trattamenti simili a quelli che Cristo, mortale nella terra, ha ricevuti dal mondo.

IV.

Dalla perpetua confusione che l'Autor nostro fa dei due ordini della natura e della grazia, e dei fini a cui tendono le due società politica e religiosa, umana e sovrumana, provengono gli altri errori de' quali, in questa materia, il suo volume è seminato.
Di fatto eccolo tornare ad avvolgersi nella confusione medesima, ove, con argomenti nuovi, pretende confermare la sua tesi. «Il Cristo è il vero fondatore della democrazia, ed è l'istitutore del suo ministero, nè può trovarsi in contraddizione con sè stesso: quindi il vero prete non può essere che democratico. Ma che cosa vuole la democrazia, qual è il fine che si propone, su che si basa? La democrazia vuole la redenzione delle plebi, vuole l'unità del genere umano, vuole l'atterramento dei privilegi. Ebbene e non fu il Cristo che per il primo fe' sentire il beati pauperes? E non è lui che ha predetto, che si farà un solo ovile ed un sol pastore? E non è lui che ha detto: Amatevi, chè voi siete tutti fratelli?»
Abbiamo già osservato quale sia la democrazia, o più tosto la eguaglianza, di cui Gesù Cristo è fondatore; e come di grandissima mano si differenzii dalla democrazia politica e naturale. Perciò è altro grossissimo errore l'affermare, che Gesù Cristo abbia istituito il ministero di questa democrazia e l'abbia commesso a' suoi sacerdoti. Il sacerdozio è costituito da Dio, conforme insegna S. Paolo, per l'esercizio degli atti del suo culto e per la eterna salvazione degli uomini. Omnis pontifex ab hominibus assumptus, pro hominibus constituitur in his quae sunt ad Deum [4]. [Hebr. V, 1: «Ogni pontefice preso di tra gli uomini è preposto  a pro degli uomini a tutte quelle cose, che Dio riguardano, affinchè offerisca doni e sagrifici pei peccati» N.d.R.] Ed il sacerdozio cristiano, in virtù dell'ordine sacramentale ond'è insignito, ha per oggetto del suo ministero, non la umana politica, ma il Corpo vero e il Corpo mistico di Gesù Cristo. Il prete vero adunque non può essere che democratico in questo solo senso, che, riguardo al ministero suo spirituale, non deve usare nessuna accettazione di persone, ma considerare tutti i fedeli alla sua cura dati, o a lui ricorrenti per le cose dell'anima, siccome uguali dinanzi a Dio, o sieno ricchi, o sieno poveri, o sieno deboli, o sieno potenti, o sieno piccoli, o sieno grandi; perocchè, nell'ordine della grazia e della salute, nulla sono e nulla valgono le sociali diversità, i gradi, i titoli, i privilegi umani e civili. Chi in altro senso vuole il prete democratico, non sa quel che si voglia, e colla sua ignoranza o presunzione mira a sconvolgere tutto l'edifizio da Gesù Cristo costrutto.
E poichè tocchiamo questo punto del sacerdozio, ossia della porzione reggente, docente e ministrante nella Chiesa, giova notare quanto sia lungi dal vero che Cristo, circa il suo stesso organismo sociale e visibile, l'abbia fondata nella democrazia, cioè nell'eguaglianza dei diritti. Basta un'occhiata, ancorchè superficiale, al mirabile corpo di questo capolavoro divino, a fare che si scorga subito in esso la disuguaglianza giuridica dei membri che lo compongono. La Chiesa di Gesù Cristo è, per l'essenza sua, gerarchica; e tal è per istituzione di Cristo medesimo. Vi è il Capo supremo, Pietro, vivente sempre ne' suoi successori, vero monarca, investito da Cristo della pienezza di giurisdizione immediata sopra ogni membro del corpo, con diritti e poteri e privilegi a lui unicamente conferiti: vi sono i Vescovi, costituiti nella suprema altezza del sacerdozio, per l'ordine ed il carattere di cui sono dotati, ma esercitanti la particolare loro giurisdizione sotto Pietro: vi sono i semplici sacerdoti, tutti eguali per l'ordine sacro, ma diversi per la giurisdizione che, o dai Vescovi, o da Pietro ricevono: vi è finalmente la plebe, plebs Christi, ed è l'aggregato dei semplici fedeli, senza distinzione alcuna di dignità, o di posto che occupino nel mondo; tanto essendo plebei, sotto l'ordine gerarchico della Chiesa, il contadino e l'operaio, quanto il principe, il re e l'imperatore. Dal che risulta che la Chiesa di Cristo non è una Repubblica, ma un Regno, sebben da quelli del mondo diverso, come Cristo è Re, dai re del mondo diversissimo. La quale diversità spicca massimamente nello scopo suo finale, che è la beatitudine del cielo; nei mezzi, che sono superiori ai naturali, e nell'origine, che è tutta divina e non dipendente dai diritti o dai fatti mondani. Regno conseguentemente che è hic, quaggiù nel mondo; ma non è hinc, derivato cioè dal mondo, perchè Dio l'ha immediatamente costituito nel mondo e ad ogni mondana podestà sottratto. [Cfr. Joann. XVIII, 36-37: «Rispose Gesù: Il regno mio non è di questo mondo: se fosse di questo mondo il mio regno, e i miei ministri certamente si adoprerebbero, perchè non venissi dato in poter de' Giudei: ora poi il regno mio non è di qua (hinc). Dissegli però Pilato: Tu dunque sei re? Rispose Gesù: Tu dici, che io sono re. Io a questo fine son nato, e a questo fine sono venuto nel mondo, di render testimonianza alla verità: Chiunque sta per la verità, ascolta la mia voce.» N.d.R.]
Questo cenno è più che sufficiente a mostrare che la forma sociale, data da Cristo alla sua Chiesa, è ben altra che democratica; e che quindi l'eguaglianza giuridica del ministero nè manco vi esiste nell'ordine puramente spirituale. Or come dunque può, non diciamo salvo il rispetto, non diciamo salva la verità, ma salvo il buon senso comune, adattarsi a Cristo Redentore, in quanto è Autore della Chiesa, il titolo di primo democratico, d'istitutore del ministero della democrazia?
Con simigliante confusione e gratuità e falsità di supposti, lo Scrittor nostro procede a comparare gl'intenti della umana democrazia, con gl'intenti di Gesù Cristo nell'operare la salvazione del mondo.
Si conceda pure che la democrazia propongasi la redenzione delle plebi; questa sarà sempre rispetto al ben essere materiale e politico, non allo spirituale e celeste; che propongasi l'unità del genere umano; questa riguarderebbe (se fosse mai possibile) i modi del governo, e le mutue relazioni di popolo con popolo, nel giro del diritto umano, dei vantaggi umani, dell'umana civiltà, non le soprannaturali, appartenenti alla vita eterna: che propongasi l'atterramento dei privilegi; questi, quando il loro atterramento fosse secondo giustizia, sarebbero civili e politici,  non mai sacri e religiosi. Il perchè, concessi questi intendimenti della democrazia umanitaria, conforme è chiamata da' suoi maestri ed apostoli, non si uscirebbe giammai dalla sfera delle cose terrestri e delle mondane faccende.
Se non che quante volte è mestieri ripetere, che le cose terrestri e mondane non si attengono per sè al Regno di Gesù Cristo, il quale non è istituito per esse, ma per le celesti e sovramondane della salute? La redenzione che Gesù Cristo ha compiuta delle plebi, o meglio dell'intera stirpe d'Adamo, non è la politico-sociale; ma la spirituale dal peccato, dal demonio e dall'eterna morte, cui tutta la nostra progenie era dannata, per la colpa del progenitore. L'unità che Gesù Cristo è venuto a ristabilire nel mondo, non è l'umanitaria dei commerci e degl'interessi, ma quella divina, acciocchè l'uman genere, com'è uno per l'origine e per la natura, così uno sia, per l'unità dello spirito santificante colla grazia e beatificante colla gloria: unum sint, sicut et nos unum sumus [5]. [Ioann. XVII, 22: «Siano una sola cosa, come una sola cosa siam noi». N.d.R.] Per ciò poi che ai privilegi si attiene, Gesù Cristo non ne ha abolito veruno; ma riconfermando la, legge naturale e indirizzandone l'adempimento alla soprannaturale sua carità, ha anzi severamente vietato di ledere la giustizia, che riposa nel gran principio dell'unicuique suum, [«a ciascuno il suo» N.d.R.] dal quale non si possono certamente escludere i legittimi privilegi.
E com'entra il beati pauperes, [Matth. V, 3: «Beati i poveri di spirito» N.d.R.] proferito da Cristo, colla democrazia civile? Egli tanto non ha mirato, con questo detto, a pareggiare socialmente i poveri coi ricchi, che appunto chiamandoli beati, ha inteso di confortarli alla rassegnazione ed alla pazienza nelle angustie del loro stato; promettendo loro il regno dei cieli (e non l'eguaglianza civile) a condizione però che sieno pauperes spiritu, cioè poveri che si contentano della povertà loro, l'accettano dalle mani di Dio; e non ambiscono di tramutare la condizione loro con quella dei ricchi, mediante l'eguaglianza della democrazia. Onde questo detto sublime di Gesù Cristo fa contro, non fa in pro della tesi dell'Autore.
L'unità poi dell'ovile e del pastore lega colla democrazia sociale, come l'oro col piombo. Gesù Cristo, sotto la figura del pastore, pone sè stesso; e sotto quella dell'ovile, i gentili e gli ebrei, i quali, fin dal primo svolgersi del cristianesimo, doveano formare l'unica Chiesa, di cui egli e Pietro sono Capi: egli invisibile e visibile l'altro.
Il medesimo dicasi della carità e fratellanza predicata da Cristo nel mondo, le quali devon sussistere in lui e per lui, in ordine, non già alla politica, ma alla grazia ed alla salute.
Col che non vogliamo già negare che, ancora umanamente e naturalmente, le società civili non abbiano ritratto e non sieno per ritrarre utili grandissimi di pace, di sana libertà e di incrementi, dall'opera soprannaturale di Gesù Cristo; chè sarebbe menzogna: ma negare che questi frutti sieno stati direttamente intesi da Gesù Cristo, come fine proprio e prossimo dell'opera sua. La grazia perfeziona la natura, sì nella conoscenza della verità e sì nella pratica del vivere; ed inoltre è scritto che chi cerca prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia sovranaturale, avrà, come accessorii, anche i beni naturali.

V.

Nè meno erronea o, a dire pochissimo, equivoca è la massima che l'Autore chiama «giusta e suprema formola della democrazia»; ed è che nessuno ha diritto al superfluo, finchè vi è chi manca del necessario. «Principio, continua a dir egli, che scaturisce, come corollario inevitabile, dal comandamento del Cristo: Il di più date al poverello.» Presa come suona, una sì fatta massima giustificherebbe la tesi fondamentale del socialismo, la quale è la più pericolosa delle forme, che la moderna demagogia, aspira di recare ad atto nel mondo civile. L'equivoco sta tutto nella parola diritto.
Il socialismo, o il problema sociale, come altri ama di nominarlo, è il litigio che si dibatte oggi fra chi ha e chi non ha, fra chi possiede e chi non possiede sostanze terrene. Dalla risoluzione di esso si vuole far dipendere l'armonia delle disuguaglianze di condizione e di fortuna, fra gli uomini nella medesima società viventi. Il paganesimo tentò risolverlo contro l'ordine costituito da Dio: e che immaginò? Immaginò la schiavitù, per la quale il massimo numero dovea servire, col sudore e col sangue, ai capricci, alle ambizioni, alle cupidige del minimo. Venne il Redentore del mondo, e colla voce e coll'esempio insegnò, che la soluzione del problema, non poteva essere nell'iniquità e nella prepotenza del forte verso il debole, ma nella vicendevole carità dell'uno verso l'altro. Rivocò [= richiamò, fece ritornare N.d.R.] gli uomini all'ordine della natura, e quest'ordine nobilitò e divinizzò in sè medesimo, mettendosi egli in luogo del bisognoso, e conferendo al povero bisognoso la dignità della stessa Persona sua divina.
Il socialismo dei nostri tempi abborre dalla schiavitù del paganesimo, ma nè meno accetta in verità la santa fratellanza del cristianesimo. Alla carità di Gesù Cristo pretende si sostituisca una giustizia che dimanda sociale, e non sussiste nè nell'ordine della natura, nè in quello del Vangelo santificatore della natura. Suppone esso che chi ha, sia obbligato, per titolo di giustizia, a comunicar del suo a chi non ha. In una parola, della limosina del ricco o del benestante vuol fare un atto di giustizia, non un'opera di carità. Posto ciò, siccome ad ogni diritto corrisponde un dovere, e viceversa, ad ogni dovere corrisponde un diritto, ne seguirebbe che il povero ha un diritto sopra i beni del ricco o dell'agiato; e se questi non adempie il dovere di fargli parte de' suoi beni, il povero, per ragion di giustizia, può richiederne la riparazione. Le conseguenze pratiche di questa sì strana teoria sono facili a dedursi.
Or è vero che il ricco ha l'obbligo di aiutare col suo il povero; ma è falso che quest'obbligo sia di giustizia verso il povero: è invece di carità verso Dio. Il ricco ha un dovere sacro di soccorrere il povero, perchè il Signore Iddio glielo ha ingiunto colla naturale legge e col precetto evangelico dell'amore: e se a questo dovere falla, non offende l'uomo, offende Iddio. Il diritto perciò verso il ricco risiede in Dio, non risiede nel povero; il quale conseguentemente non ha ragione alcuna di giustizia, per esigere dal ricco il soccorso.
Premessa questa dichiarazione, si vede subito quanto sappia d'ambiguo la formola, che nessuno ha diritto al superfluo, finchè vi è chi manca del necessario. Data ancora al vocabolo superfluo la più ampia significazione, resta sempre vero che, rispetto agli altri uomini, ognuno ha diritto al suo, ossia superfluo o non sia: nè Gesù Cristo, col prescrivere di fare limosina col superfluo: Quod superest date eleemosynam [6], [Luc. XI, 41: «Fate limosina di quel, che vi avanza». N.d.R.] ha potuto intendere di spogliare, in pro dei poveri, i ricchi del naturale diritto loro di possedere il proprio. Dal che si fa palese l'errore madornale, che cova sotto l'ambiguità della suddetta formola; sebbene sia giustissimo quel che poi soggiunge l'Autore: «In questo santo principio (appreso però come si è qui spiegato) fu tutta compendiata la soluzione della questione sociale, che gl'imbecilli non intesero, gli egoisti non curarono ed i gaudenti con molta facilità disprezzano.» In vero, il socialismo è una enormità che la Chiesa unicamente può dissipare, nel giro delle idee, colla luce della verità sua e, nel giro dei fatti, colle fiamme della sua carità.
E così torna a dimostrarsi che il cristianesimo, quantunque non abbia per oggetto immediato della sua operazione la civiltà umana e la naturale felicità, pure tanto conferisce a promuovere l'una e l'altra, che si può affermare senza esagerazione, i popoli più veracemente civili e felici essere sempre stati i più veracemente cristiani.

VI.

Dalle cose finora esposte si raccoglie, che se dall'un lato è assurdo lo spacciare il cristianesimo per cittadella, e il divino suo Istitutore per dure supremo della democrazia, dall'altro sarebbe stolto il rappresentarli come avversi a questo modo di politico reggimento. La Chiesa di Gesù Cristo niuna forma di governo predilige e niuna ripudia; perocchè tutte possono essere ugualmente giuste e buone, secondo i diritti, gli aggiunti e i casi che ne determinano la costituzione: e con tutte le è facile accordarsi, per adempiere il soprannaturale uffizio da Dio commessole nel mondo. Ben è certo ch'ella mai nè protegge, nè ispira la tirannide, addolcendo invece l'esercizio del comando negl'imperanti, conforme il documento del celeste Maestro, che inculcò ai superiori la benignità, l'umiltà e la carità, e diede loro in esempio sè medesimo, che non venne ministrari, ma ministrare: di che nella Chiesa stessa questo esercizio della podestà, anche somma, prese nome di ministero, e non punto d'imperio, nè di regno, nè di dominazione. Col rendere poi, quando sia ascoltata ed ubbidita, gli uomini cordialmente religiosi ed onesti, la Chiesa induce nelle società civili il rispetto e l'osservanza delle sane e legittime libertà; avendo i cittadini tanto minor bisogno dell'esterior freno delle leggi, quanto più forte è quello che sentono nella coscienza. Onde francamente asseriamo, che la democrazia, fondata nella giustizia e praticata con virtù, fuori degli influssi della Chiesa, è una chimera. E ciò, perchè questa forma di vita politica richiede una concordia fra la libertà e l'autorità, che non si può stringere in altre mani, che in quelle della religione; e domanda una così fatta temperanza negli animi dei governanti e dei governati, che non si trova eccettochè nel timore santo di Dio.
E questa è la ragione potissima, per la quale i governi democratici siccome le storie ci dimostrano, o sono trascorsi quasi meteore passeggere o, se a lungo sono durati, sono anche riusciti semenzai di civili guerre e discordie; e quindi sono poi sempre stati spenti dalle dittature, convertite in Principati. A provare il qual fatto, abbondano le testimonianze antiche e le moderne. Tutte le repubbliche democratiche, sorte nei tempi del cristianesimo, e quelle segnatamente dei nostri Comuni d'Italia nel medio evo, furono teatri di gare, di odii, di sanguinose e diuturne lizze intestine, di tumulti e di disordini infiniti; e poi tutte caddero, quali in un modo e quali in un altro, sotto la spada e lo scettro d'un signore. Le sole che sopravvissero molti secoli ed ebbero glorie pari alla vita, furon le due di Venezia e di Genova, che non erano altrimenti democratiche, ma aristocratiche.
Nulla diciamo degli esempii che il secolo nostro ci offre, poichè, come bene osserva l'Autore che ci ha data l'occasione di trattare, questi argomenti, nessuna delle istituzioni democratiche introdotte dalla Rivoluzione ha niente che rassomigli ad una vera democrazia: ma tutto sono strumenti di tirannia d'una setta, cupida di godere gli onori e i vantaggi del predominio, per ingrassare i suoi, impoverire ed imbestiare i popoli e guerreggiare Cristo e la sua Chiesa. Ond'è che in questo secolo niun edifizio politico si è creato, che non posasse sull'arena e non sia crollato, o di crollare non minacci, poco dopo che si è costruito. Contro Dio è impossibile cosa venire a capo di niente: e chi contro Dio innalza regni, imperi e repubbliche, attira sopra l'opera sua le maledizioni che affrettano le ruine e la morte.
Ma, checchè sia per avvenire nel mondo, allorchè questa nostra epoca di demolizioni e di nichilismo politico e morale sia passata; succeda allo sfacelo della civiltà un conserto di monarchie o di democrazie, certo è che, se avrà da sussistere, bisognerà necessariamente che esso fondato sia in quell'unica pietra, fuori della quale niente regge e dura. Allora si vedrà che tanto gl'imperi napoleonici e bismarkiani, quanto le repubbliche demagogiche e i regni liberalescamente parlamentari furono come castelli di carta, ombre senza corpo, a cui quadrerà il titolo di vanissime vanità, vanitas vanitatum; perchè imperii, repubbliche e regni edificati nel cristianesimo senza Cristo e contro Cristo.

NOTE:

[1] Vedi quad. 725, pag. 521 segg. [«Di una futura democrazia cristiana accentrata in Roma», Civiltà Cattolica anno XXXI, s. XI. vol. 3 (fasc. 725, 25 agosto 1880) Firenze 1880 pag. 524-537. N.d.R.]
[2] Ioan. X, 10.
[3] Matth. XII, 30.
[4] Hebr. V, 1.
[5] Ioann. XVII, 22.