martedì 30 agosto 2016

La lettera di Joseph Marie Garibaldì


Questa è la "lettera scritta" da Giuseppe Garibaldi, o per meglio dire Joseph Marie Garibaldì, che 2 giorni prima di morire inviò al professor Carlo Lorenzini, ...meglio conosciuto come Carlo Collodi. E' tratta dal romanzo "Le confessioni di Joseph Marie Garibaldì", di Francesco Luca Borghesi.

«Illustrissimo professore Carlo Lorenzini,
Scrivo con rispetto e gratitudine a Voi che decideste di farmi cosa grata riportando le mie memorie al popolo di una penisola che mai amai come avrei potuto, che mai difesi come avrebbe meritato.
Una penisola che non fu mai e mai sarà la mia patria.
Una penisola meravigliosa che io non solo non unificai, se non unicamente al nome, ma che addirittura divisi, e, per mia colpa, divisa sarà per sempre.
[...] codesto giorno, trentuno maggio ottantadue del secolo milleottocento, sono a ricordare la mia vita trascorsa, in attesa che venga definitivamente compiuto il mio destino [...] forse non temo neppure: diciamo che attendo che presto sia fatta giustizia e chi mai può sapere se dopo la morte vi sarà giustizia?!
Voi infatti penserete che io sia felicemente italiano: se così fosse le sorprese non vi mancheranno.
Se vi aspettavate un patriota, troverete un avventuriero.
Se vi aspettavate un probo, troverete un dissoluto.

La spedizione dei mille fu realmente la più vile porcata che il suolo della penisola possa aver mai vissuto e, a questo punto, spero che mai sia costretta a rivedere.
La mia vita era rivolta alla ricerca di fama e ricchezza: mi venne in mente di unificare l'Italia in quanto sarei potuto diventare potente e ricco.
Cercai appoggi, soldi e falsi ideali su cui far leva e trovai qualcuno che, dopo avermi usato, mi mise da parte.
Diciamo subito e senza giri di parole: il patriottismo in Italia non è mai esistito.
Mi ricordano tutti come il patriota Giuseppe Garibaldi, ma queste sono voci, magari leggende, ma certamente menzogne.
Mi chiamo Joseph Marie Garibaldi e, contrariamente, a quanto pensano molti, sono e mi sento francese.

* VA PRONUNCIATO COSI: Joseph Marie Garibaldì (accento sulla i finale)

Fonte: Venetian History

Sepp Innerkofler

Sepp Innerkofler

Ricordiamo Sepp Innerkofler (Sexten, 1865 – Paternkofel, 1915), nella foto a sinistra, guida alpina tirolese e un profondo conoscitore delle montagne della sua zona, dove aprì nuovi i...tinerari alpinistici sulle Dreizinnen e sul Paternkofel.


Membro dell' Österreichischer Alpenverein (Associazione Alpinisti Austriaci), i proventi della sua professione gli permisero di costruire un modernissimo albergo proprio nel paese natale, coniugando le attività di guida alpina e di albergatore.
In poco tempo Innerkofler divenne una delle persone più facoltose della sua valle e gestì pure la mitica Dreizinnen Hütte, il rifugio al cospetto delle Tre Cime di Lavaredo.
Alla fine della Prima Guerra il rifugio fu requisito senza indennizzo dalle sopraggiunte autorità italiane, come tantissimi altri rifugi tirolesi.
Allo scoppio della Prima Guerra, Innerkofler si arruolò volontario negli Standschützen, come pure i fratelli ed il figlio maggiore e formò la celebre Pattuglia Volante ("die Fliegende Patrouille"), assieme ad altri abili ed esperti conoscitori della zona.
Innerkofler svolse compiti di controllo e sorveglianza della linea di confine e trovò la morte sulla cima del suo amato Paternkofel, durante il tentativo di cacciare via i soldati italiani (Alpini) che vi si erano installati in quel secolare territorio austriaco.
La sua salma riposa ora nel cimitero di Sexten e la locale Compagnia Schützen è dedicata alla memoria del patriota tirolese.

Fonte: Trento è Tirolo - Trient ist Tirol

sabato 27 agosto 2016

[TOLKIENIANA] Théoden, la forza e l’onore

theoden06

di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/

Dopo il nostro ultimo incontro con Dama Éowyn, riprendiamo il nostro percorso a ritroso lungo il cammino che ci riporta a Rohan, attraverso la valle ricoperta da un verdeggiante tappeto di praterie all’imbocco della quale appare, come sentinella di guardia, la solitaria altura di Edoras. Una piccola città fortezza di solido legno, giovane per i longevi elfi ma antica per le brevi età degli uomini, sulla cui vetta si innalza, alla maniera di “città posta sul monte”, lo splendente palazzo d’oro di Meduseld, dimora di Théoden figlio di Thengel, Re del Mark di Rohan.
La figura odierna è quella di un vecchio re, seduto, quasi sprofondato sul suo trono, privato del suo vigore, avviato verso la tomba prima del tempo a causa di quel sentimento di disperata inerzia che paralizza la volontà prosciugando alla radice ogni slancio d’ardore e di eroico sacrificio. Furono sufficienti pochi ma puntuali consigli, sinuosi come serpi che si annidano fra le pieghe delle vesti, per avvelenare la mente e il cuore di un re, un tempo saggio e valoroso combattente. Ma ahimè le cattive compagnie di cui molto spesso ci circondiamo sono la nostra rovina, e anziché ricercare il bene arduo, ci accontentiamo stoltamente del bene facile e futile, gettandoci nelle spire soffocanti della concupiscenza indomita. Quanti i “vermilinguo” che nel segreto, mentre il sonno della nostra coscienza assuefatta al male si fa più profondo, versano nelle nostre orecchie le gocce di un mortale veleno? Molti sono i nemici della nostra anima, a volte sono persino quelli della nostra stessa casa quando ci impediscono di innalzarci verso la carità nella fede, opponendo all’amore di Dio fino al disprezzo del mondo, l’amore del mondo fino a giungere, inevitabilmente, al disprezzo di Dio.
A volte è necessario che la Divina Provvidenza parli al nostro cuore nell’intimo dei pensieri, o nel segreto dei nostri sogni, talvolta invece essa manda delle persone amiche, “messi celesti” a destarci dall’ingannevole sonno del peccato. Talaltra, un dolore o un lutto può divenire un rimedio salutare per scuoterci dal sonno della sciagurata volontà di potenza che pretende innalzare l’uomo, gnosticamente, verso il Monte del Signore per impadronirsene. Per lo più ci sono nascosti gli strumenti con cui la Divina Sapienza si serve per rompere le catene della nostra schiavitù. Per quanto ne sappiamo persino uno spettro che appare verso la mezzanotte e poi, allo spuntar dell’alba, fugge insieme alla brezza mattutina del mare che spira pungente fra le mura del castello di Elsinore, anch’esso può tornare a dare gloria a Dio. Così il fantasma del padre di Amleto, avvelenato dall’amato fratello Claudio, che nel silenzio cupo della notte sussurra all’orecchio del figlio omonimo: «Ricordati di me». Un’anima in pena che geme dalla prigione di fuoco in cui si è risvegliata, suo malgrado, per non aver avuto il tempo di riscattare il male compiuto in vita, assassinata da colui che dallo stesso padre era stato generato. È questo un paradigma della condizione umana segnata dal delitto di Caino, una storia antica e nuova che ritorna aleggiante sopra le acque torbide del cuore dell’uomo ogni qualvolta, alla luce della verità, preferisce le fitte tenebre dell’errore. A noi la scelta, possiamo prediligere l’accomodante compagnia di un «vermilinguo» che coccola il nostro peccato, confortandoci nel male nell’attesa di gettarci ben presto nella fossa, o scegliere di scuoterci dal torpore del peccato per tornare a “respirare l’aria libera” ed ascoltare parole di speranza.
Orbene, incominciamo questo breve tratto di strada tenendoci ben saldi al bordone della fede, e quantunque la guardia del palazzo dovesse intimarci di lasciarla fuori, di metterla cioè da parte, noi ancor più fortemente la stringeremo per evitare gli ingannevoli bagliori di un’aula semioscura dove un re stanco e vegetante aspetta un risveglio di tuono che solo può romperne il mortifero sonno.
Ad imitazione della paterna esortazione di San Paolo, Tolkien invia Gandalf a Théoden per assolverne i vincoli, ricordandogli i suoi doveri i quali, alla luce della verità ora chiara, non appaiono più così opprimenti: «Nox praecéssit dies autem appropinquávit abiciámus ergo opera tenebrarum et induámur arma lucis, sicut in die honeste ambulémus» (Rom 13,12). “La notte è avanzata, bisogna destarsi dalle tenebre del sonno”, un richiamo che riecheggia tanto nelle aule intarsiate del re del Mark quanto nei cuori dei cattolici che si trovano, come noi oggi, ad affrontare tempi come quelli attuali. Tempi di oscurità e di dubbio, di fumo e polvere; tempi di attesa e di gemiti inesprimibili in cui gli ultimi superstiti fra gli uomini dell’Ovest devono radunarsi in un’unica falange, sotto il Vessillo della Croce, per resistere alle orde della Mordor infernale che si prepara a sferrare l’ultimo attacco prima della fine. A noi è toccato in sorte il fardello di conservare la fede contro ogni attentato alla verità, la speranza contro l’ombra spaventosa della disperazione, la carità contro il male soverchiante che tutto ingoia come l’insaziabile «leviatano», démone del mondo antico.
Sarà questo stesso il destino di re Théoden, resistere nei giorni dell’ira, bere la feccia fino in fondo senza la consolazione di tornare a vedere giorni felici per il suo casato. Egli dovrà però essere liberato, quasi “esorcizzato” dall’inedia per poter riprendere possesso di sé stesso e, quindi, del suo regno. Soltanto uscendo dalla menzogna di cui la sua dimora era satura, il vecchio re poteva ritrovare se stesso, giacché, come comprese per divina ispirazione il re pastore d’Israele che conquistò la Gerusalemme terrena al Re del Cielo: “in lúmine tuo vidébimus lúmen”. Allora soltanto il re di Rohan vedrà la realtà così com’è, e dopo lunga cecità potrà riconoscere rincuorato: “«Non è poi così buio qui». […] «No», disse Gandalf. «E gli anni non pesano sulle tue spalle come alcuni vorrebbero. Getta via il bastone!». Dalla mano del Re il nero bordone cadde rumorosamente sulle pietre. Egli si rizzò, pian piano, come un uomo rigido dal lungo curvarsi su qualche triste e duro lavoro. Infine si eresse alto e dritto, ed i suoi occhi blu guardarono il cielo che si apriva[1].
Si rinnova quella profezia che mai verrà meno secondo cui soltanto “la verità rende liberi”, restituendo forza e vigore al braccio rattrappito, ardore al cuore oppresso, scoprendo la brace mai estinta che sopita giaceva sotto la cenere del peccato. Scuotiti o re! E torna ad impugnare la lancia contro i tuoi nemici perché essi si sono moltiplicati! «È ormai tempo di svegliarvi dal sonno» dice l’Apostolo, e San Tommaso commentandone il significato, spiega che questo torpore “si intende del sonno della colpa, secondo quanto si dice in Ef 5,14: «Svegliati tu che dormi, sorgi dai morti…»; o anche della negligenza, secondo Pr 6,9: «Fino a quando pigro, te ne starai a dormire?». Dunque è tempo di sorgere dal sonno della colpa mediante la penitenza. Il Sal 126,2 dice: «Vi alzate dopo esservi messi a sedere…» dal vero sonno della negligenza, mediante la sollecitudine delle buone opere. Is 21,5: «Alzate o capi, prendete lo scudo». Sir 32,15: «L’ora di alzarti non ti rattristi»”[2].
Gandalf il Bianco, quasi come un profeta dell’Antico Israele, si presenta alla corte del re per ricondurlo all’osservanza della legge del Signore, esortandolo a combattere per difendere il gregge a lui affidato. Nel libro l’incontro tra Gandalf e Théoden è molto meno spettacolare di quanto non appaia nella versione cinematografica, infatti, nel capitolo intitolato “Il re del Palazzo d’Oro” che ha come sfondo la corte di Meduseld, ciò che viene narrato è un vero e proprio “invito alla conversione”. In questo senso il rapporto che corre tra Gandalf e Théoden, ma anche tra Gandalf e Denethor, non può non ricordare in maniera analogica le figure di Samuele e Saul, Nathan e Davide, Isaia ed Ezechia, Elia ed Acab, e così via. Lo stregone bianco cavalca verso Edoras per sostenere il canuto re con i consigli e con la spada, ma, soprattutto, con quel medesimo «fuoco segreto» che animò la vita interiore di John Ronald Reuel Tolkien: la fede. Essa è quella fiamma nascosta che appare rischiarando la Notte delle notti, durante la Vigilia Pasquale, in un crescendo melodioso che fa eco al canto degli angeli presso il sepolcro: «Lumen Christi!». E quando la luce che si sprigiona da quella fiamma divina si comincia a diffondere gradualmente nell’oscurità, gli occhi cominciano a distinguere i contorni delle cose che poco prima l’oscurità privava di consistenza, appiattendole nel suo vuoto nulla: è l’uguaglianza delle tenebre. Soltanto alla luce della verità si possono riconoscere, non solo le cose così come sono, ma persino penetrarne la sostanza per scorgerne la mano del Divino artefice che dal nulla le ha plasmate dando loro forma e consistenza, fatte come segno di una realtà più alta che trascende il loro semplice scopo immanente. Questo è il primo frutto della conversione di sire Théoden, la chiarezza della verità che lo restituisce a sé stesso e al suo popolo.
Ma la gioia per essere tornato alla libertà è breve, e il dolore presto o tardi viene a visitare coloro che gli sono soggetti per natura: una sentenza che non risparmia né i giusti né i malvagi. Ai piedi della tomba del proprio figlio, amato e perduto, strappato come giovane virgulto della casa di Eorl, il vecchio re Théoden piange lacerato dal dolore: «Ahimé questi giorni funesti spettano a me. I giovani periscono, e i vecchi resistono. Io dovrò vivere per vedere gli ultimi giorni della mia casata». Chi potrà ridire lo spasimo così profondo e incontenibile di un padre costretto a chiudere quegli occhi che egli stesso vide aprirsi al mondo quando uscirono dal grembo materno? «Un genitore non dovrebbe seppellire il proprio figlio», geme nel lancinante senso di giustizia il sovrano, ultimo della sua stirpe, che deve portare su di sé il fardello dell’onore dei suoi padri e l’afflizione dei suoi contemporanei. Una constatazione tanto dolorosa quanto indubitabile dell’oggettiva innaturalità del male e della morte, non può non toccare il cuore dell’uomo.
Ma ancor più degna di canzoni e di poemi è la forza con la quale quel dolore straziante e incomunicabile viene affrontato dal Re, che soffre e sopporta trascinando la propria croce fin quando la moira Atropo ne fisserà il termine.
La vita dell’uomo è segnata dalla sofferenza, dal suo nascere fino al suo termine, ed essa è la dimensione più concreta del suo esistere sulla terra, ovvero ciò che fa presente il mistero del peccato e il destino degli uomini votati alla morte. Invero, non c’è un’esperienza che faccia sentire così vivo l’uomo come la morte. Eppure, dinanzi alla sofferenza e alla morte ci sono solo due modi, in ultima istanza, di porsi: affrontarle con virile e cristiana rassegnazione, consci dell’ineluttabilità del destino di questo “corpo di morte” animato, tuttavia, dalla speranza nella vita eterna, oppure la cieca disperazione che può prendere la forma di un isterico rifiuto, o di un cinico “nulla” esistenziale.
Il sovrano dalla candida barba, signore dei cavalli, abbraccia la sua croce e avanza nel quotidiano combattimento per recarsi, armato e fiero, incontro al suo destino. Infatti le vicende legate al re del Mark di Rohan assumono via via l’aspetto di un’epopea cavalleresca, il cui primo capitolo presenta la seconda grande prova di Théoden, dopo la morte del figlio suo unigenito, ossia la battaglia al Fosso di Helm, dove si deciderà non solo il destino del regno di Rohan ma di tutta la Terra di Mezzo. Saranno infatti le lance dei suoi Rohirrim, che si getteranno intrepidi dal Trombatorrione sulle picche degli urukhai di Isengard travolgendoli, a decidere anche le sorti di Minas Tirith sui campi del Pelennor.
Così narra J.R.R. Tolkien l’epico finale della battaglia al Fosso di Helm e il trionfo di Théoden sulle armate di Saruman: “In mezzo al clamore apparve il re. Il suo cavallo era bianco come neve, d’oro era lo scudo e lunga la lancia. Alla sua destra cavalcava Aragorn, l’erede di Elendil, e dietro di lui i signori della Casa di Eorl il Giovane. La luce si diffuse nel cielo. La notte scomparve. «Avanti Eorlingas!». Con un urlo e un grande fragore partirono alla carica. Come un boato giù dai cancelli, come un uragano sul ponte, come vento fra l’erba travolsero nel loro galoppo le schiere di Isengard. […] Così Re Théoden uscì a cavallo dal Cancello di Helm e falciando ogni cosa avanti a sé giunse alla grande Diga. Ivi la compagnia s’arrestò. La luce intorno a loro si fece intesa. Raggi di sole avvamparono sui colli a oriente e scintillarono sulle loro lance”[3].
La liricità di queste descrizioni innalza l’immaginazione di chi legge in quella porzione di realtà così profonda e così sottile che chiamiamo «fantasia», ovvero la potenza immaginativa e rappresentativa dell’anima che fa presente a noi stessi in maniera indubitabile la nostra natura intimamente spirituale.
In questo senso il ruolo di Rohan è fortemente evocativo di tutti quei valori che la cavalleria cristiana ha incarnato nei secoli luminosi del Medioevo quali il coraggio, la fedeltà, l’onore, il sacrificio, il servizio, la forza, la devozione, la guerra santa e quel salutare spirito di crociata che segna tutta la vita cristiana dal sorgere del sole al suo tramonto, secondo le parole di Giobbe “militia est vita hominis super terram et sicut dies mercenarii dies eius” (Job 7,1). In tempi non sospetti questo cardine della fede cattolica era pacifico, e nemmeno era pensabile una vita cristiana senza quella disposizione al combattimento, maschia e virile, che ha sospinto tanto i martiri dei primi secoli quanto i missionari di ogni tempo a espandere il Regno visibile di Cristo, cioè la Chiesa, al semplice scopo di sottrarre terreno al dominio tenebroso di satana che, fino all’avvento del nostro Divin Redentore, si estendeva su tutta la terra.
«Dove sono cavallo e cavaliere? Dov’è il corno dal suono violento? Dove sono l’elmo e lo scudiere, e la fulgida capigliatura al vento? […] Son passati come pioggia sulla montagna, come raffiche di vento in campagna; I giorni scompaiono ad ovest, dietro i colli che un mare d’ombra bagna». Questo breve carme, di cui riporto soltanto alcuni versi, nella versione cinematografica delle “Due Torri” vien fatto sospirare, quasi come una preghiera, a Re Theoden, mentre nel libro è Aragorn che la canta a Legolas e Gimli spiegando loro: «Così parlava a Rohan tanto tempo addietro un poeta obliato che narrava quanto fosse alto e bello Eorl il Giovane, giunto galoppando dal Nord; ali aveva ai piedi il suo destriero, Felaròf, padre dei cavalli. Queste son parole che gli Uomini cantano ancora di sera»[4].
Théoden, come quasi tutti i personaggi tolkieniani, è una figura complessa, e quando utilizzo questo aggettivo mi riferisco sia alla sua psicologia interna che lo rende vero ed autentico, e per questo prossimo e familiare all’esperienza personale del lettore, sia alla sua altissima valenza simbolico-religiosa.
Questo vecchio re si trova a dover riscattare l’onore perduto negli anni in cui ha lasciato che il proprio regno cadesse in disgrazia, abbandonato nelle mani del suo consigliere Grima Vermilinguo. Costui, un tempo uomo di Rohan, rinnegò la propria anima vendendosi a Saruman, tradendo il suo re, la sua terra e il suo popolo. Subdolamente addormentato in uno stato di semi-possessione diabolica indotto dai velenosi consigli di Grima che, come abbiamo visto, furono la causa anche del malessere interiore di Dama Éowyn, Théoden deve attraversare un tempo di espiazione e di riscatto che si concluderà con la morte violenta sul campo di battaglia.
L’onta per la sua stoltezza nella vecchiaia è tale da essere insopportabile. Per riscattare il proprio onore e quello della propria casata, egli compie quasi un “voto” che ricorda quello che compì San Luigi IX Re di Francia, quando, essendo scampato ad una malattia, giurò d’intraprendere una nuova Crociata per riconquistare Gerusalemme. Sappiamo che nessuna delle due spedizioni intraprese dal santo Re di Francia ebbe successo. Addirittura nella seconda crociata praticamente non si diede battaglia, giacché, appena poco dopo lo sbarco, il suo esercito, ed egli stesso, fu colpito da un’epidemia di peste che ne determinò l’umiliante ritirata.
Ma quale somiglianza può esserci tra il figlio di Thengel e il figlio di Bianca di Castiglia? Entrambi moriranno in terra straniera, ambedue spireranno nel tentativo di liberare una città «santa», entrambi affrontano una battaglia di cui si dispera il successo consapevoli che vi troveranno la morte, ambedue con l’armatura indosso cadranno conservando il proprio onore. I due re, uno realmente esistito l’altro soltanto nell’immaginario cristiano di Tolkien, condividono la virtù della fortezza che gli fa sperare la ricompensa nel mondo che verrà.
La fine di Théoden, al pari di quella del “Rex Christianissimus”, appare ingloriosa e vana, non trafitto dalla lama dei nemici ma schiacciato dal proprio stesso cavallo. Nevecrino, il destriero del re, sarà la cagione della sua morte. Quasi a significare che la gloria del suo casato, il cavallo emblema e vanto di Rohan, diviene lo strumento mortale della sua condanna. Tuttavia esso è anche un segno di divina predilezione, la quale ha riservato al valoroso re una morte che è sottratta al gaudio dei suoi perversi avversari. Nessun nemico infatti potrà vantarsi di aver abbattuto il sovrano di Rohan, ma per un decreto del Cielo la morte lo prenderà con sé preservandolo dallo scempio dei suoi nemici. Similmente San Luigi, stroncato non dalle scimitarre degli infedeli maomettani ma dalla pietosa mano dell’angelo sterminatore, che con la falce della peste porrà fine alla sua luminosa esistenza.
Il corpo spezzato di sire Théoden, immagine dell’eucaristico pane, è offerto in sacrificio per i suoi che aveva tanto amato. Frantumanto dal suo stesso cavallo, come il chicco che morendo porta frutto, Théoden re si trova a restituire il debito della vita dopo aver combattuto valorosamente, riacquistando l’onore perduto. Rivolto al giovane Merry, cadutogli accanto dopo aver colpito il Servo dell’Oscuro signore, il re agonizzante sussurra: “«Addio Messere Holbytla!», disse. «Il mio corpo è a pezzi. Torno dai miei padri. Ma anche in loro compagnia non avrò da vergognarmi. Ho abbattuto il serpente nero. Un mattino spietato, un giorno felice, un tramonto dorato!»[5].
Come i grandi re e patriarchi dell’antico Israele, Théoden andò ad aggiungersi al suo popolo, per dimorare eternamente nella casa dei suoi padri. Così perirono il cavallo e il cavaliere, uniti in vita e in morte, per la gloria di Dio e la salvezza dei loro congiunti. Similmente Re Luigi IX “il Santo”, con “le braccia in croce e coricato sulla cenere, rese la sua anima a Dio nel 1270, nell’ora stessa nella quale Cristo morì sulla croce. La vigilia della sua morte ripeteva: «Andremo a Gerusalemme». Nella Gerusalemme celeste, conquistata dalla sue sofferenze in mezzo alle avversità, egli doveva regnare con il Re dei re[6].
Esempi di virtù eroica, i due sovrani rappresentano il modello del vero cristiano, combattente instancabile e umile servitore che nel pellegrinaggio armato della vita presente pone il suo cuore e la sua mente lassù, nelle sale splendenti della Gerusalemme celeste, mentre cavalca intrepido verso la morte. “Oh felice Alleluia, quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena tranquillità, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente angustiata, lassù da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nel reale possesso; qui in via, lassù in patria. Cantiamolo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere il gaudio del riposo ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, poiché, al dire dell’Apostolo ci sono certuni che progrediscono in peggio. Se tu progredisci, cammini; ma devi progredire nel bene, nella retta fede, nella buona condotta. Canta e cammina! Non uscire di strada, non volgerti indietro, non fermarti! Rivolti al Signore”[7].
Sancte Lodovice, ora pro nobis.





[1] Il Signore degli Anelli, cit., p. 628.
[2] Expositio et Lectura super Epistolas Pauli Apostoli. Ad Romanos I, lect. 3, n. 1062.
[3] Il Signore degli Anelli, cit., pp. 657-658.
[4] Ibidem, 619.
[5] Il Signore degli Anelli, cit., p. 1012.
[6] 25 agosto. San Luigi Re e Confessore, in Messale Romano, D.G. Lefebvre o.s.b. (a cura di), Torino 1957, p. 1502.
[7] Dai «Discorsi» di sant`Agostino, vescovo, Disc. 256, 1. 2. 3; PL 38, 1191-1193.

giovedì 25 agosto 2016

DEL CRISTIANESIMO E DELLA DEMOCRAZIA


Fonte: http://progettobarruel.comlu.com/

La Civiltà Cattolica anno XXXI, serie XI, vol. IV (fasc. 729, 27 ott. 1880), Firenze 1880 pag. 281-295.

R.P. Raffaele Ballerini d.C.d.G.

DEL CRISTIANESIMO E DELLA DEMOCRAZIA

I.

In un precedente articolo [1], esaminato il concetto messo in campo da un cattolico liberale, di una futura democrazia cristiana, che avendo il centro in Roma, riconoscesse il Papa, non più Sovrano, e come Pastore supremo della Chiesa e come arbitro civile; ne mostrammo l'assurdità, e per parte della ipotetica democrazia che, essendo cristiana davvero, non avrebbe mai tollerato che altri dominasse in Roma, dal Papa in fuori; e per parte del Papa medesimo, il quale sarebbe venuto ad esservi, come v'è al presente, o suddito, o prigioniero. Resta ora che, secondo la promessa fattane, ragioniamo un poco delle intrinseche relazioni, che l'Autore suppone correre fra la democrazia e il cristianesimo: d'onde inferisce quasi la morale necessità, che l'ultimo e più perfetto trionfo del cristianesimo nel mondo debba essere sotto la forma democratica.
Lasciamo stare il grado maggiore o minore di probabilità che possa avere l'avveramento del presagio, che la democrazia s'abbia a stabilire da per tutto in modo durevole. «Non vi è serio pensatore, scrive l'Autore nostro, che non si avvegga, che si approssima un periodo storico della più alta importanza, uno di quei periodi che sono l'embrione di un avvenire nuovo della società... il trionfo della democrazia!» Le apparenze favoriscono, così per le generali, questo presagio: non mancano però serii pensatori, i quali dubitano fortemente che il delirio democratico, dal quale sembrano oggi presi i popoli inciviliti, sia per condurli alla stabilità nella democrazia; e congetturano invece che, cessate le cause morbose e artificiali di questo delirio, ai furori democratici succederanno ferree dittature, le quali riporranno i popoli in quell'ordine di monarchia equamente temperata, che è il più consentaneo al genio loro ed alle storiche loro tradizioni. Ma di ciò non vogliamo disputare.
Ci piace tuttavia che l'Autore non si stanchi di ribadire il gran chiodo che, senza religione veracemente cristiana, la stabilità della democrazia è un sogno: e sfolgori in mille modi la maschera di democrazia, che si è messa in volto la ingannevole e barbara demagogia della Rivoluzione francese, servilmente imitata e copiata negli altri paesi e nell'Italia segnatamente. Meritano particolare considerazione queste sue giustissime parole: «La vera democrazia è tuttora impossibile, e lo sarà finchè vi sarà da demolire. Quando verrà l'ora di edificare, Iddio manderà i giganti: a demolire bastano i pigmei, bastano braccia profane ed istinti brutali; mentre a riedificare vi vuole lo spirito d'ordine e di carità e l'impulso eroico del sacrificio; vi vogliono braccia che sappiano congiungere, assimilare ed armonizzare; e se non siamo ebeti, ci avvedremo che, cominciando dalla scuola e terminando al Parlamento, tutt'altro vi trionfa, fuorchè la forza che unisce, assimila ed armonizza. E questo è sintomo che la forza prevalente è la demolitrice: ed infatti ovunque si volga lo sguardo, non ci si presentano che demolizioni : demolizione di principii, demolizione di pace domestica, demolizione di costumi, demolizione di pubblica e privata ricchezza, demolizione del sacro palladio della giustizia, demolizione dei comuni, demolizione dei grandi istituti, fondati dalla fede operativa dei secoli a sollievo dell'umanità... E questa smania di demolizione non è una vera demagogia? Grattate pure codesti democratici, e sotto vi troverete immancabilmente il demagogo.»
Ci piace altresì ch'egli batta e ribatta la necessità, che a fondamento della democrazia, se l'edificio suo deve durare, si ponga la vera fede di Gesù Cristo. «La democrazia, così egli, si renderà possibile, quando si sarà capito che la fede, assai più che l'idea, governa il mondo, dacchè di fede si vive ancorchè increduli. Ed i capi della sedicente democrazia pretendono di fondarne il regno, attentando a questo elemento in cui l'uomo, suo malgrado, è obbligato a vivere? Oh dementi!... Spreca il suo fiato il filosofo razionalista, invocando ed evocando una religione dell'avvenire, ed attendendo con la giudaica gente un novello Messia, un maggiore tesmoforo. Il Cristo Dio è venuto, ed è quello di ieri, di oggi, di domani: attendere un domma più divino della buona novella, è un sogno di mente inferma... Invero coteste menti, abbacinate dall'orgoglio, ebbero in pena della loro alterezza la confusione delle idee, come altre volte per la superbia si confusero le lingue: leggete i Dialoghi filosofici di Renan, la Religione dell'avvenire di Mamiani, il Dio Liberale di Filopanti, e ve ne persuaderete abbastanza.»
Riconosciuto pertanto all'Autore questo merito, ch'egli intende prevedere lo stabilimento di una democrazia, non già punto massonica o diabolica, qual è quella che in presente minaccia l'ordine della società, ma di fatto e pienamente cattolica, col suo centro nel romano Pontefice, passiamo ad osservare le dottrine che egli, a proposito dell'alleanza tra il cristianesimo e la democrazia, mette in campo.

II.

«La vera democrazia, dic'egli, altro non è che il regno della giustizia, l'eguaglianza dei diritti, la nullità dei privilegi fittizii e l'esatta conoscenza ed osservanza dei proprii doveri. E se questa e non altra è la chiara definizione della democrazia, chi meglio del Vangelo l'ebbe intesa, promulgata ed imposta a' suoi seguaci?»
Compatiamo l'Autore, che avendo scarsamente studiato la filosofia, non ha chiara idea di ciò che dev'essere una chiara definizione. Nessun logico gli menerebbe buoni i due elementi del regno della giustizia e dell'esatta conoscenza ed osservanza dei proprii doveri, introdotti in questa definizione della democrazia: perocchè ancora nelle altre forme di governo o di socialità, come, per esempio, nella monarchica o nella oligarchica, che sono forme naturalmente buone, può e deve esservi questo doppio elemento; senza del quale si avrebbero a tacciare di inique e di disordinate ab intrinseco: il che è teoricamente e storicamente falsissimo. Questo doppio elemento non convenendo alla sola democrazia ed essendo, non costitutivo suo essenziale, ma più tosto fine od effetto comune alle altre forme ancora di socialità, dalla sua definizione andava escluso. La quale definizione, volendola egli fare conforme la retta logica prescrive, dovea prendere il genere prossimo della cosa, che qui è l'ordinamento del vivere sociale, retto e mantenuto da suprema autorità, e la differenza ultima, ossia la specificante, che, nel caso nostro, è l'eguaglianza dei diritti politici e civili d'ogni membro della società: la quale eguaglianza poi rimove ogni privilegio, non solo fittizio, ma anche reale, secondochè dalla stessa parola di democrazia viene indicato; significando essa, governo del popolo; cioè un popolo che si regge da sè, tolti i riguardi alla nascita, al censo e ad altri titoli accessorii.
Or considerata la democrazia sotto questo rispetto, che è il vero, cade in gravissimo errore l'Autore nostro, asserendo che il Vangelo l'abbia promulgata ed imposta a' suoi seguaci. Il Vangelo non è un codice politico, direttamente ordinato al maggior bene umano di questa vita: ma è un codice religioso e morale, direttamente ordinato alla eterna e soprannaturale salute delle anime: nè il Vangelo per sè raccomanda più la forma politica e sociale della democrazia, che quella della monarchia: ma raccomanda che i suoi seguaci, sotto qualunque foggia di governo si trovino essere, facciano regnare la giustizia, ed esattamente conoscano ed osservino i loro proprii doveri.
Affinchè meglio si capisca il sofisma in cui l'Autore, al muovere del primo passo, è inciampato, distinguiamo parte da parte. Che il Vangelo promulghi ed imponga il regno della giustizia, soprannaturale ed anco naturale, e l'adempimento dei doveri di ciascun uomo, è vero, verissimo: ma che promulghi ed imponga l'eguaglianza dei diritti e la nullità dei privilegi politici e civili, è falso falsissimo. È verissima la prima cosa, giacchè senza giustizia, quantunque naturale, e senza osservanza dei doveri, non può darsi quell'ordine morale, che è voluto da Dio e posto da lui a necessaria condizione della stessa salute: se non che un ordine così fatto si può verificare e si verifica in qualunque forma di politica società il cristiano viva. È poi falsissima la seconda cosa, imperocchè di diritti e di privilegi politici Cristo Signor nostro non si è mai impacciato: e noi sfidiamo chi che si sia a citare una sola parola del suo Vangelo, che di questi tratti, o a questi alluda. L'unica regola di santa politica che Gesù Cristo abbia promulgata e imposta, è che si devo rendere a Dio quel che è di Dio, ed a Cesare quel che è di Cesare: vale a dire che, prima di tutto e sopra tutto, si de[v]e riverire il supremo diritto che ha Dio, come creatore e signore dell'uomo e dell'umana società, e adempierne tutti i precetti; poi, per riguardo a Dio stesso, che comanda l'ordine nell'umano consorzio e da cui ogni ordinata podestà discende, riverire i diritti che ha la politica autorità, cioè Cesare; ossia poi Cesare il capo di una monarchia, ossia un corpo morale reggente una democrazia. Fuori di questa regola, altra nel Vangelo non si ritrova.

III.

Ravviata con questa distinzione la confusa matassa, riman più facile sciogliere i nodi, co' quali l'Autore seguita a svolgere il suo ragionamento. «E non vogliamo persuaderci, interroga egli, che essendo stato il Cristo il primo democratico del mondo, il vero fondatore della democrazia, osteggiandone le dottrine, combattendo Chi sulla terra n'è il naturale custode, noi abbiamo distrutto in quello credevamo edificare? O con me, Egli ci ripete e con l'esempio e con le parole, e il vostro trionfo è sicuro; o senza me ed abortirete nel nascere. Ma a consolarci, in tanta perplessità di cose, giova riflettere che l'eguaglianza dei diritti, cioè la vera democrazia, altro non essendo che la giustizia, ed avendo la giustizia in sè la potenza irresistibile del vero, il regno della democrazia vera dovrà essere invincibile e finirà col trionfare.»
Si può proprio dire, che quanti periodi tanti spropositi. Si lascino i comunisti, i socialisti, i frammassoni, camuffati da credenti, dare, pe' lor mali fini, al Dio Redentore questo titolo di primo democratico del mondo, e di vero fondatore della democrazia. Un cattolico non abuserà mai del linguaggio sino a questo punto, nè si farà lecito di trattare il Cristo Dio con termini di sì triviale ambiguità.
Politicamente e socialmente parlando, il qualificare Gesù Cristo di primo democratico e di fondatore della democrazia, è, come abbiam veduto, una menzogna, la quale, applicata, benchè innocentemente, a sì divino soggetto, pute [= puzza N.d.R.] di bestemmia. Non pure nulla è nel sublime Vangelo di lui, che dia presa a questa menzogna, ma tutto concorre a fare che si ripudii. Di umana politica, lo ridiciamo, il Figliuolo di Dio umanato non volle mai impacciarsi. Egli non venne al mondo pe' miseri interessi di questa: ma veni, predicava egli di sè, acciocchè gli uomini, vitam habeant et abundantius habeant [2]. [«Io sono venuto perché (gli uomini) abbiano la vita e l'abbiano più abbondantemente» trad. G. Ricciotti N.d.R.] Tutto, ne' suoi esempii e ne' suoi insegnamenti, mirava alla vita eterna. Del resto egli nacque povero sì, giacchè volle prendere per sè le pene comuni al maggior numero degli uomini, che sono i poveri, e santificare in sè stesso la povertà; ma tuttavia nacque reale Principe della stirpe di David e con diritti al trono, ch'egli non volle far valere giammai, ma pure aveva notissimi e legittimi. Egli osservò tutte le leggi ed usanze, non solamente le proprie della nazione giudaica, ma ancora quelle imposte dai Romani, conquistatori della Giudea ed usurpatori del pubblico dominio; tantochè egli fece un solenne miracolo, per pagare a Cesare il tributo. Coll'esempio dunque e colle parole, visse soggetto ai poteri costituiti; nè mai si giunse a provare, ch'egli avesse propagate dottrine all'autorità o della Sinagoga o di Cesare opposte. Ed ognuno sa che, al tribunale di Pilato, si presentarono bensì dalla truculenta Sinagoga le accuse di ciò contro lui; ma non vi si poterono sostenere: così che Pilato le disprezzò e da queste vere calunnie egli scoperse che propter invidiam [«per invidia» cfr. Matth. XXVII, 18 N.d.R.] era egli deferito al suo giudizio e gridato a morte.
L'unico senso nel quale a Gesù Cristo, in qualche modo, potrebbe non disdire la denominazione di primo democratico e fondatore della democrazia, è quello che l'Autore nostro ancor egli ha veduto, ed esprime assai bene, dove mostra con calda facondia la necessità di serbare i popoli religiosamente fedeli a Gesù Cristo, poichè l'ineguaglianza naturale delle condizioni umane «non può essere compensata che coll'eguaglianza d'una stessa fede, coll'eguaglianza di tutti dinanzi allo stesso Dio, coll'eguaglianza d'una vita avvenire, nella quale tutto sarà riparato, tutto reintegrato». Oh qui sì che andiamo d'accordo!
Sotto il rispetto, non più politico ed umano, ma celeste e della grazia, il Redentore ha veramente fondato una santissima democrazia, nella quale tutti indistintamente gli uomini sono chiamati ad essere figliuoli adottivi del medesimo Padre; tutti egualmente fratelli del medesimo Verbo fatt'Uomo; tutti, senza divario, ricomperati col medesimo prezzo del sangue divino e della vita di lui; tutti parimente partecipi della medesima fede, dei medesimi sacramenti, del medesimo fine; tutti membri della medesima Chiesa, sottomessi al reggimento di un unico Pastore. Ma che ha egli che fare questo rispetto, con quello della mondana politica e con quello in ispecie della forma democratica del governo civile?
Dato ciò, cade da sè il fallace presupposto dell'Autore, che Gesù Cristo sia naturale custode di questa forma di governo; e che, a proposito di codesta forma, egli abbia detto: Qui non est mecum contra me est [3] [Matth. XII, 30: «Chi non è meco, è contro di me» N.d.R.] e cade e ruina l'altro presupposto, più che fallace, che l'eguaglianza dei diritti sia la giustizia, predestinata a trionfare nel mondo ed a regnarvi. L'eguaglianza dei diritti civili e politici (s'intende) sarà giustizia, dove è giustamente stabilita, senza offesa di altrui diritti preesistenti: ma sarà ingiustizia, dove colla forza, o colla frode, o coll'iniquità si voglia introdurre, a danno dei diritti altrui. In ogni caso poi, potrà essere ed anche sarà parte della giustizia, non mai la giustizia per antonomasia, la quale si stende a ben più altre cose, che alle meramente politiche e civili.
Senza che ov'ha imparato l'Autore, che questa piena giustizia, debba propriamente trionfare nel mondo? Dal Vangelo, no davvero: chè in esso ai fervidi seguaci della essenziale Giustizia e Santità, che è Gesù Cristo, sono invece predette persecuzioni, maledizioni, uccisioni; insomma trattamenti simili a quelli che Cristo, mortale nella terra, ha ricevuti dal mondo.

IV.

Dalla perpetua confusione che l'Autor nostro fa dei due ordini della natura e della grazia, e dei fini a cui tendono le due società politica e religiosa, umana e sovrumana, provengono gli altri errori de' quali, in questa materia, il suo volume è seminato.
Di fatto eccolo tornare ad avvolgersi nella confusione medesima, ove, con argomenti nuovi, pretende confermare la sua tesi. «Il Cristo è il vero fondatore della democrazia, ed è l'istitutore del suo ministero, nè può trovarsi in contraddizione con sè stesso: quindi il vero prete non può essere che democratico. Ma che cosa vuole la democrazia, qual è il fine che si propone, su che si basa? La democrazia vuole la redenzione delle plebi, vuole l'unità del genere umano, vuole l'atterramento dei privilegi. Ebbene e non fu il Cristo che per il primo fe' sentire il beati pauperes? E non è lui che ha predetto, che si farà un solo ovile ed un sol pastore? E non è lui che ha detto: Amatevi, chè voi siete tutti fratelli?»
Abbiamo già osservato quale sia la democrazia, o più tosto la eguaglianza, di cui Gesù Cristo è fondatore; e come di grandissima mano si differenzii dalla democrazia politica e naturale. Perciò è altro grossissimo errore l'affermare, che Gesù Cristo abbia istituito il ministero di questa democrazia e l'abbia commesso a' suoi sacerdoti. Il sacerdozio è costituito da Dio, conforme insegna S. Paolo, per l'esercizio degli atti del suo culto e per la eterna salvazione degli uomini. Omnis pontifex ab hominibus assumptus, pro hominibus constituitur in his quae sunt ad Deum [4]. [Hebr. V, 1: «Ogni pontefice preso di tra gli uomini è preposto  a pro degli uomini a tutte quelle cose, che Dio riguardano, affinchè offerisca doni e sagrifici pei peccati» N.d.R.] Ed il sacerdozio cristiano, in virtù dell'ordine sacramentale ond'è insignito, ha per oggetto del suo ministero, non la umana politica, ma il Corpo vero e il Corpo mistico di Gesù Cristo. Il prete vero adunque non può essere che democratico in questo solo senso, che, riguardo al ministero suo spirituale, non deve usare nessuna accettazione di persone, ma considerare tutti i fedeli alla sua cura dati, o a lui ricorrenti per le cose dell'anima, siccome uguali dinanzi a Dio, o sieno ricchi, o sieno poveri, o sieno deboli, o sieno potenti, o sieno piccoli, o sieno grandi; perocchè, nell'ordine della grazia e della salute, nulla sono e nulla valgono le sociali diversità, i gradi, i titoli, i privilegi umani e civili. Chi in altro senso vuole il prete democratico, non sa quel che si voglia, e colla sua ignoranza o presunzione mira a sconvolgere tutto l'edifizio da Gesù Cristo costrutto.
E poichè tocchiamo questo punto del sacerdozio, ossia della porzione reggente, docente e ministrante nella Chiesa, giova notare quanto sia lungi dal vero che Cristo, circa il suo stesso organismo sociale e visibile, l'abbia fondata nella democrazia, cioè nell'eguaglianza dei diritti. Basta un'occhiata, ancorchè superficiale, al mirabile corpo di questo capolavoro divino, a fare che si scorga subito in esso la disuguaglianza giuridica dei membri che lo compongono. La Chiesa di Gesù Cristo è, per l'essenza sua, gerarchica; e tal è per istituzione di Cristo medesimo. Vi è il Capo supremo, Pietro, vivente sempre ne' suoi successori, vero monarca, investito da Cristo della pienezza di giurisdizione immediata sopra ogni membro del corpo, con diritti e poteri e privilegi a lui unicamente conferiti: vi sono i Vescovi, costituiti nella suprema altezza del sacerdozio, per l'ordine ed il carattere di cui sono dotati, ma esercitanti la particolare loro giurisdizione sotto Pietro: vi sono i semplici sacerdoti, tutti eguali per l'ordine sacro, ma diversi per la giurisdizione che, o dai Vescovi, o da Pietro ricevono: vi è finalmente la plebe, plebs Christi, ed è l'aggregato dei semplici fedeli, senza distinzione alcuna di dignità, o di posto che occupino nel mondo; tanto essendo plebei, sotto l'ordine gerarchico della Chiesa, il contadino e l'operaio, quanto il principe, il re e l'imperatore. Dal che risulta che la Chiesa di Cristo non è una Repubblica, ma un Regno, sebben da quelli del mondo diverso, come Cristo è Re, dai re del mondo diversissimo. La quale diversità spicca massimamente nello scopo suo finale, che è la beatitudine del cielo; nei mezzi, che sono superiori ai naturali, e nell'origine, che è tutta divina e non dipendente dai diritti o dai fatti mondani. Regno conseguentemente che è hic, quaggiù nel mondo; ma non è hinc, derivato cioè dal mondo, perchè Dio l'ha immediatamente costituito nel mondo e ad ogni mondana podestà sottratto. [Cfr. Joann. XVIII, 36-37: «Rispose Gesù: Il regno mio non è di questo mondo: se fosse di questo mondo il mio regno, e i miei ministri certamente si adoprerebbero, perchè non venissi dato in poter de' Giudei: ora poi il regno mio non è di qua (hinc). Dissegli però Pilato: Tu dunque sei re? Rispose Gesù: Tu dici, che io sono re. Io a questo fine son nato, e a questo fine sono venuto nel mondo, di render testimonianza alla verità: Chiunque sta per la verità, ascolta la mia voce.» N.d.R.]
Questo cenno è più che sufficiente a mostrare che la forma sociale, data da Cristo alla sua Chiesa, è ben altra che democratica; e che quindi l'eguaglianza giuridica del ministero nè manco vi esiste nell'ordine puramente spirituale. Or come dunque può, non diciamo salvo il rispetto, non diciamo salva la verità, ma salvo il buon senso comune, adattarsi a Cristo Redentore, in quanto è Autore della Chiesa, il titolo di primo democratico, d'istitutore del ministero della democrazia?
Con simigliante confusione e gratuità e falsità di supposti, lo Scrittor nostro procede a comparare gl'intenti della umana democrazia, con gl'intenti di Gesù Cristo nell'operare la salvazione del mondo.
Si conceda pure che la democrazia propongasi la redenzione delle plebi; questa sarà sempre rispetto al ben essere materiale e politico, non allo spirituale e celeste; che propongasi l'unità del genere umano; questa riguarderebbe (se fosse mai possibile) i modi del governo, e le mutue relazioni di popolo con popolo, nel giro del diritto umano, dei vantaggi umani, dell'umana civiltà, non le soprannaturali, appartenenti alla vita eterna: che propongasi l'atterramento dei privilegi; questi, quando il loro atterramento fosse secondo giustizia, sarebbero civili e politici,  non mai sacri e religiosi. Il perchè, concessi questi intendimenti della democrazia umanitaria, conforme è chiamata da' suoi maestri ed apostoli, non si uscirebbe giammai dalla sfera delle cose terrestri e delle mondane faccende.
Se non che quante volte è mestieri ripetere, che le cose terrestri e mondane non si attengono per sè al Regno di Gesù Cristo, il quale non è istituito per esse, ma per le celesti e sovramondane della salute? La redenzione che Gesù Cristo ha compiuta delle plebi, o meglio dell'intera stirpe d'Adamo, non è la politico-sociale; ma la spirituale dal peccato, dal demonio e dall'eterna morte, cui tutta la nostra progenie era dannata, per la colpa del progenitore. L'unità che Gesù Cristo è venuto a ristabilire nel mondo, non è l'umanitaria dei commerci e degl'interessi, ma quella divina, acciocchè l'uman genere, com'è uno per l'origine e per la natura, così uno sia, per l'unità dello spirito santificante colla grazia e beatificante colla gloria: unum sint, sicut et nos unum sumus [5]. [Ioann. XVII, 22: «Siano una sola cosa, come una sola cosa siam noi». N.d.R.] Per ciò poi che ai privilegi si attiene, Gesù Cristo non ne ha abolito veruno; ma riconfermando la, legge naturale e indirizzandone l'adempimento alla soprannaturale sua carità, ha anzi severamente vietato di ledere la giustizia, che riposa nel gran principio dell'unicuique suum, [«a ciascuno il suo» N.d.R.] dal quale non si possono certamente escludere i legittimi privilegi.
E com'entra il beati pauperes, [Matth. V, 3: «Beati i poveri di spirito» N.d.R.] proferito da Cristo, colla democrazia civile? Egli tanto non ha mirato, con questo detto, a pareggiare socialmente i poveri coi ricchi, che appunto chiamandoli beati, ha inteso di confortarli alla rassegnazione ed alla pazienza nelle angustie del loro stato; promettendo loro il regno dei cieli (e non l'eguaglianza civile) a condizione però che sieno pauperes spiritu, cioè poveri che si contentano della povertà loro, l'accettano dalle mani di Dio; e non ambiscono di tramutare la condizione loro con quella dei ricchi, mediante l'eguaglianza della democrazia. Onde questo detto sublime di Gesù Cristo fa contro, non fa in pro della tesi dell'Autore.
L'unità poi dell'ovile e del pastore lega colla democrazia sociale, come l'oro col piombo. Gesù Cristo, sotto la figura del pastore, pone sè stesso; e sotto quella dell'ovile, i gentili e gli ebrei, i quali, fin dal primo svolgersi del cristianesimo, doveano formare l'unica Chiesa, di cui egli e Pietro sono Capi: egli invisibile e visibile l'altro.
Il medesimo dicasi della carità e fratellanza predicata da Cristo nel mondo, le quali devon sussistere in lui e per lui, in ordine, non già alla politica, ma alla grazia ed alla salute.
Col che non vogliamo già negare che, ancora umanamente e naturalmente, le società civili non abbiano ritratto e non sieno per ritrarre utili grandissimi di pace, di sana libertà e di incrementi, dall'opera soprannaturale di Gesù Cristo; chè sarebbe menzogna: ma negare che questi frutti sieno stati direttamente intesi da Gesù Cristo, come fine proprio e prossimo dell'opera sua. La grazia perfeziona la natura, sì nella conoscenza della verità e sì nella pratica del vivere; ed inoltre è scritto che chi cerca prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia sovranaturale, avrà, come accessorii, anche i beni naturali.

V.

Nè meno erronea o, a dire pochissimo, equivoca è la massima che l'Autore chiama «giusta e suprema formola della democrazia»; ed è che nessuno ha diritto al superfluo, finchè vi è chi manca del necessario. «Principio, continua a dir egli, che scaturisce, come corollario inevitabile, dal comandamento del Cristo: Il di più date al poverello.» Presa come suona, una sì fatta massima giustificherebbe la tesi fondamentale del socialismo, la quale è la più pericolosa delle forme, che la moderna demagogia, aspira di recare ad atto nel mondo civile. L'equivoco sta tutto nella parola diritto.
Il socialismo, o il problema sociale, come altri ama di nominarlo, è il litigio che si dibatte oggi fra chi ha e chi non ha, fra chi possiede e chi non possiede sostanze terrene. Dalla risoluzione di esso si vuole far dipendere l'armonia delle disuguaglianze di condizione e di fortuna, fra gli uomini nella medesima società viventi. Il paganesimo tentò risolverlo contro l'ordine costituito da Dio: e che immaginò? Immaginò la schiavitù, per la quale il massimo numero dovea servire, col sudore e col sangue, ai capricci, alle ambizioni, alle cupidige del minimo. Venne il Redentore del mondo, e colla voce e coll'esempio insegnò, che la soluzione del problema, non poteva essere nell'iniquità e nella prepotenza del forte verso il debole, ma nella vicendevole carità dell'uno verso l'altro. Rivocò [= richiamò, fece ritornare N.d.R.] gli uomini all'ordine della natura, e quest'ordine nobilitò e divinizzò in sè medesimo, mettendosi egli in luogo del bisognoso, e conferendo al povero bisognoso la dignità della stessa Persona sua divina.
Il socialismo dei nostri tempi abborre dalla schiavitù del paganesimo, ma nè meno accetta in verità la santa fratellanza del cristianesimo. Alla carità di Gesù Cristo pretende si sostituisca una giustizia che dimanda sociale, e non sussiste nè nell'ordine della natura, nè in quello del Vangelo santificatore della natura. Suppone esso che chi ha, sia obbligato, per titolo di giustizia, a comunicar del suo a chi non ha. In una parola, della limosina del ricco o del benestante vuol fare un atto di giustizia, non un'opera di carità. Posto ciò, siccome ad ogni diritto corrisponde un dovere, e viceversa, ad ogni dovere corrisponde un diritto, ne seguirebbe che il povero ha un diritto sopra i beni del ricco o dell'agiato; e se questi non adempie il dovere di fargli parte de' suoi beni, il povero, per ragion di giustizia, può richiederne la riparazione. Le conseguenze pratiche di questa sì strana teoria sono facili a dedursi.
Or è vero che il ricco ha l'obbligo di aiutare col suo il povero; ma è falso che quest'obbligo sia di giustizia verso il povero: è invece di carità verso Dio. Il ricco ha un dovere sacro di soccorrere il povero, perchè il Signore Iddio glielo ha ingiunto colla naturale legge e col precetto evangelico dell'amore: e se a questo dovere falla, non offende l'uomo, offende Iddio. Il diritto perciò verso il ricco risiede in Dio, non risiede nel povero; il quale conseguentemente non ha ragione alcuna di giustizia, per esigere dal ricco il soccorso.
Premessa questa dichiarazione, si vede subito quanto sappia d'ambiguo la formola, che nessuno ha diritto al superfluo, finchè vi è chi manca del necessario. Data ancora al vocabolo superfluo la più ampia significazione, resta sempre vero che, rispetto agli altri uomini, ognuno ha diritto al suo, ossia superfluo o non sia: nè Gesù Cristo, col prescrivere di fare limosina col superfluo: Quod superest date eleemosynam [6], [Luc. XI, 41: «Fate limosina di quel, che vi avanza». N.d.R.] ha potuto intendere di spogliare, in pro dei poveri, i ricchi del naturale diritto loro di possedere il proprio. Dal che si fa palese l'errore madornale, che cova sotto l'ambiguità della suddetta formola; sebbene sia giustissimo quel che poi soggiunge l'Autore: «In questo santo principio (appreso però come si è qui spiegato) fu tutta compendiata la soluzione della questione sociale, che gl'imbecilli non intesero, gli egoisti non curarono ed i gaudenti con molta facilità disprezzano.» In vero, il socialismo è una enormità che la Chiesa unicamente può dissipare, nel giro delle idee, colla luce della verità sua e, nel giro dei fatti, colle fiamme della sua carità.
E così torna a dimostrarsi che il cristianesimo, quantunque non abbia per oggetto immediato della sua operazione la civiltà umana e la naturale felicità, pure tanto conferisce a promuovere l'una e l'altra, che si può affermare senza esagerazione, i popoli più veracemente civili e felici essere sempre stati i più veracemente cristiani.

VI.

Dalle cose finora esposte si raccoglie, che se dall'un lato è assurdo lo spacciare il cristianesimo per cittadella, e il divino suo Istitutore per dure supremo della democrazia, dall'altro sarebbe stolto il rappresentarli come avversi a questo modo di politico reggimento. La Chiesa di Gesù Cristo niuna forma di governo predilige e niuna ripudia; perocchè tutte possono essere ugualmente giuste e buone, secondo i diritti, gli aggiunti e i casi che ne determinano la costituzione: e con tutte le è facile accordarsi, per adempiere il soprannaturale uffizio da Dio commessole nel mondo. Ben è certo ch'ella mai nè protegge, nè ispira la tirannide, addolcendo invece l'esercizio del comando negl'imperanti, conforme il documento del celeste Maestro, che inculcò ai superiori la benignità, l'umiltà e la carità, e diede loro in esempio sè medesimo, che non venne ministrari, ma ministrare: di che nella Chiesa stessa questo esercizio della podestà, anche somma, prese nome di ministero, e non punto d'imperio, nè di regno, nè di dominazione. Col rendere poi, quando sia ascoltata ed ubbidita, gli uomini cordialmente religiosi ed onesti, la Chiesa induce nelle società civili il rispetto e l'osservanza delle sane e legittime libertà; avendo i cittadini tanto minor bisogno dell'esterior freno delle leggi, quanto più forte è quello che sentono nella coscienza. Onde francamente asseriamo, che la democrazia, fondata nella giustizia e praticata con virtù, fuori degli influssi della Chiesa, è una chimera. E ciò, perchè questa forma di vita politica richiede una concordia fra la libertà e l'autorità, che non si può stringere in altre mani, che in quelle della religione; e domanda una così fatta temperanza negli animi dei governanti e dei governati, che non si trova eccettochè nel timore santo di Dio.
E questa è la ragione potissima, per la quale i governi democratici siccome le storie ci dimostrano, o sono trascorsi quasi meteore passeggere o, se a lungo sono durati, sono anche riusciti semenzai di civili guerre e discordie; e quindi sono poi sempre stati spenti dalle dittature, convertite in Principati. A provare il qual fatto, abbondano le testimonianze antiche e le moderne. Tutte le repubbliche democratiche, sorte nei tempi del cristianesimo, e quelle segnatamente dei nostri Comuni d'Italia nel medio evo, furono teatri di gare, di odii, di sanguinose e diuturne lizze intestine, di tumulti e di disordini infiniti; e poi tutte caddero, quali in un modo e quali in un altro, sotto la spada e lo scettro d'un signore. Le sole che sopravvissero molti secoli ed ebbero glorie pari alla vita, furon le due di Venezia e di Genova, che non erano altrimenti democratiche, ma aristocratiche.
Nulla diciamo degli esempii che il secolo nostro ci offre, poichè, come bene osserva l'Autore che ci ha data l'occasione di trattare, questi argomenti, nessuna delle istituzioni democratiche introdotte dalla Rivoluzione ha niente che rassomigli ad una vera democrazia: ma tutto sono strumenti di tirannia d'una setta, cupida di godere gli onori e i vantaggi del predominio, per ingrassare i suoi, impoverire ed imbestiare i popoli e guerreggiare Cristo e la sua Chiesa. Ond'è che in questo secolo niun edifizio politico si è creato, che non posasse sull'arena e non sia crollato, o di crollare non minacci, poco dopo che si è costruito. Contro Dio è impossibile cosa venire a capo di niente: e chi contro Dio innalza regni, imperi e repubbliche, attira sopra l'opera sua le maledizioni che affrettano le ruine e la morte.
Ma, checchè sia per avvenire nel mondo, allorchè questa nostra epoca di demolizioni e di nichilismo politico e morale sia passata; succeda allo sfacelo della civiltà un conserto di monarchie o di democrazie, certo è che, se avrà da sussistere, bisognerà necessariamente che esso fondato sia in quell'unica pietra, fuori della quale niente regge e dura. Allora si vedrà che tanto gl'imperi napoleonici e bismarkiani, quanto le repubbliche demagogiche e i regni liberalescamente parlamentari furono come castelli di carta, ombre senza corpo, a cui quadrerà il titolo di vanissime vanità, vanitas vanitatum; perchè imperii, repubbliche e regni edificati nel cristianesimo senza Cristo e contro Cristo.

NOTE:

[1] Vedi quad. 725, pag. 521 segg. [«Di una futura democrazia cristiana accentrata in Roma», Civiltà Cattolica anno XXXI, s. XI. vol. 3 (fasc. 725, 25 agosto 1880) Firenze 1880 pag. 524-537. N.d.R.]
[2] Ioan. X, 10.
[3] Matth. XII, 30.
[4] Hebr. V, 1.
[5] Ioann. XVII, 22.

martedì 23 agosto 2016

Le Olimpiadi, una celebrazione pagana

pio colombo

di Ammonio - Fonte: http://www.radiospada.org/

Era il giorno di Natale del 393 d.C.: Teodosio, Imperatore cristianissimo (epperciò vituperato dai moderni), su consiglio di Sant’Ambrogio emanava una costituzione (non pervenutaci in originale, ma citata dallo storico bizantino Giorgio Cedreno nella propria Storia Universale) con la quale proibiva le Olimpiadi, in quanto celebrazione pagana. La pericolosità della manifestazione per le anime era tale che quando il prefetto di Costantinopoli Leonzio propose – scelleratamente – di restaurarla nella Nuova Roma, l’asceta Ipazio si oppose con tutte le proprie forze, onde non far ripiombare le plebi sotto il tremendo dominio degli Dei pagani (rectius, dei demoni).
Infatti, le Olimpiadi erano inscindibilmente connesse al culto di Zeus: ovvero alla deformazione sensuale e lasciva (come dimostrato dalle numerose e vereconde relazioni con femmine umane, o la pederastia nei confronti del coppiere Ganimede) del Dio supremo indoario Dyaus Pitar. Chi partecipasse ai giochi, di fatto, non faceva che prendere parte ad una celebrazione pagana e, dunque, a servire gli idoli muti.
Siffatta radice, pagana ed idolatrica, delle celebrazioni sportive di matrice ellenica non sfuggì, già prima dell’avvento del Redentore, ad Israele: l’erezione di un ginnasio da parte del sommo sacerdote Giasone fu emblema della sua empietà e della collaborazione coi pagani Seleucidi (cfr. 2 Maccabei 4, 12).
Ne derivava che al cristiano non fosse consentito partecipare a tali manifestazioni, e che anzi dovesse essere pieno di letizia per la soppressione delle Olimpiadi.
Sennonché, la malapianta del paganesimo, apparentemente estirpata dalle nerborute braccia dei Principi della Chiesa, non si è punto sopita del tutto, e, a far data dal Basso Medioevo, è tornata a servire i venefici suoi frutti ai popoli della Cristianità, i quali hanno temerariamente riportato alla vita elementi pagani senza dolersene, ammantandoli di un’asserita non religiosità (si pensi alle Veneri sui quadri fiorentini, emblematiche di un epoca medievale) per farli passare come innocui.
Orbene, in tale contesto di progressiva e graduale ri-paganizzazione della Christianitas si colloca la restaurazione delle cerimonie olimpiche. Si dirà che l’operazione del barone De Coubertin – del quale verrà reclamata la cattolicità – sia innocua, e votata al mero trionfo di positivi valori sportivi.
Epperò, simili argomenti sono manifestamente pedestri: già il solo nome di “Olimpiadi” è in se ipso indicativo del paganesimo sotteso ai giuochi de quibus, giacché rimanda senza possibilità alcuna di dubbio all’infausto tempio di Zeus d’Olimpia. Oltretutto, facendo passare le Olimpiadi come fenomeno positivo si spinge chi ne desideri conoscere la storia a scoprire il perché della loro cancellazione in passato, sicché l’Imperatore Teodosio ed il vescovo Ambrogio rimangono rappresi da una luce sinistra, come se chiudendo gli abominevoli giochi pagani si fossero macchiati di un qualche delitto. Da ultimo, siccome la chiusura dei giuochi olimpici corrisponde con l’era di trionfo della Cristianità, nelle masse si infonde la folle idea per cui i tempi in cui gli uomini erano conculcati dal calcagno degli idoli fossero più felici, giacché le tradizioni d’allora vengono ‘recuperate’ dai moderni dopo epoche d’oblio.
L’idea di fondo, com’è sin troppo evidente, è la medesima che portò gli storici fiorentini a denominare “Medioevo” l’epoca di trionfo della Cristianità: un’epoca oscura che starebbe a mo’ di guado tra la paganità ed il mondo moderno, che di essa si ritiene, e tutto sommato purtroppo è, figlia.
Soltanto in un’epoca non cristiana si possono riadattare e riadottare simboli del paganesimo come se nulla fosse. Non fu certo un caso che il regime più paganeggiante nel senso classico del ventesimo secolo, ovvero la Germania Nazista, diede parecchio lustro alle celebrazioni olimpiche, per celebrare non Iddio, quanto l’uomo di stirpe germanica.
Allo stesso modo, gli attori odierni della politica internazionale utilizzano le Olimpiadi al fine di celebrare la propria potenza terrena o per diffondere le proprie malefiche ideologie (vedasi a tale pro l’esclusione degli atleti Russi dalle manifestazioni sportive per compiacere i padroni d’Oltreoceano).
Il tutto, in una celebrazione ecumenica e mondialista, dove atleti che corrono per una corona corruttibile propagano spesso e volentieri modelli e stili di vita che nulla hanno a che fare con Cristo (e tra i medagliati italiani vi sono stati esempi di tal fatta).
Non si può che auspicare l’avvento di nuovi Teodosio, Ambrogio, ed Ipazio, che riconducano la società civile sotto il lieve giogo di Nostro Signore, e disperdano le scorie del Neopaganesimo.

venerdì 19 agosto 2016

LA GIUSTIZIA AUSTRIACA

Fonte: Vota Franz Josef

 

MARIA TERESA, 19 gennaio 1758. Regolamenti per i Tribunali Mercantili del Litorale.

Prima pagina: un parte dei titoli della Regina, seco...nda pagina: il motivo della legge emessa: "far cessare delle ripugnanti consuetudini dei nostri tribunali mercantili".
Terza pagina (della nostra estrapolazione): "Gli avvocati devono accettare solo delle cause delle quali siano convinti".
Quarta pagina: "Gli avvocati che porteranno in tribunale delle cause ingiuste e temerarie saranno multati, la punizione sarà riportata nella sentenza e le punizioni saranno crescenti in conseguenza delle circostanze fino all'ammonizione d'ufficio (supponiamo che ad una seconda ammonizione d'ufficio, l'avvocato non potesse più esercitare).
Quinta pagina: "L'avvocato onorato, non dovrà limitarsi ad ascoltare la parte che gli si rivolge ma dovrà fare accurate riflessioni e ricerche sui fatti esposti, investigare documenti e testimoni..."
Sesta pagina: minuziose istruzioni sulle mansioni ed il comportamento degli avvocati nella preparazione della causa
Settima pagina: "l'avvocato rifonderà i danni derivanti da sue negligenze"... poi si inizia a dare istruzioni sulle modalità di redazione del "libello" (supponiamo fosse il "ricorso"), giungendo nelle pagine successive a fornire anche un esempio iin fac simile di come scrivere un "libello".
Vi immaginate, avere ora una legge che punisce in modo severissimo gli avvocati che sostengono cause ingiuste e temerarie, che dilungano i processi con negligenza, che sono obbligati a rifondere i danni alle controparti, dei ritardi processuali a loro imputabili e che se sgarrano, vengono prima ammoniti e poi espulsi dai Tribunali?

Noi avevamo tutto questo, nel 1758. Ma per fortuna, nel 1918 arrivarono i marziani a "portarci la civiltà "

giovedì 18 agosto 2016

Evento consigliato: 1916 – 2016 Centenario della morte di S.M.I. & R.A. Francesco Giuseppe I – Celebrazioni a Vienna e Milano



In occasione del 186°  GENETLIACO IMPERIALE di Sua Maestà Imperiale e Reale Apostolica FRANCESCO GIUSEPPE I, con immutata devozione e sempre maggior affetto, ricordiamo che:

Ricorrendo il centenario del Pio Transito di S.M.I. & R.A. l’Imperatore Francesco Giuseppe I, di v.m., annunciamo fin d’ora le due commemorazioni previste per il mese di novembre p.v. :
  • VIENNA – Domenica 27 Novembre 2016
Santa Messa Solenne nel Duomo di Santo Stefano (ore 12.00 ca.);
A seguire, corteo fino alla Chiesa dei Cappucini e omaggio all’Imperatore nel Kaisergruft.
  • MILANO – Sabato 19 Novembre
Convegno di Studi Mitteleuropei e Santa Messa a suffragio di S.M.I. & R.A. Francesco Giuseppe I.

N.B. 1 – VERRANNO FORNITE (NON APPENA POSSIBILE) ULTERIORI INFORMAZIONI CIRCA IL PROGRAMMA DELLE CELEBRAZIONI, E LE MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE.

N.B. 2 – IL CRLV PARTECIPERA’ ALLE CELEBRAZIONI VIENNESI: E’ NOSTRA INTENZIONE ORGANIZZARE UN GRUPPO.

PER RICEVERE INFORMAZIONI IN MERITO ALLE CELEBRAZIONI (COMUNICAZIONI E-MAIL E INVITO CARTACEO), SI PREGA DI SOTTOSCRIVERE IL PRESENTE MODULO: https://lombardoveneto.wordpress.com/2016/08/12/1916-2016-centenario-della-morte-di-s-m-i-r-a-francesco-giuseppe-i-celebrazioni-a-vienna-e-milano/

mercoledì 17 agosto 2016

Così parlò Benjamin Freedman – Perchè l’America entrò nella Prima Guerra Mondiale


Benjamin Freedman (1890 – 1984)
di Maurizio Blondet, estratto, da «Israele, USA, il terrorismo islamico» ,

Benjamin Freedman – Uomo d’affari di successo (era il proprietario della Woodbury Soap Co.), ebreo di New York, patriota americano, Benjamin Freedman – che era stato membro della delegazione americana al Congresso di Versailles nel 1919 – ruppe con l’ebraismo organizzato e i circoli sionisti dopo il 1945, accusandoli di aver favorito la vittoria del comunismo in Russia.

Da quel momento, dedicò la vita e le sue ragguardevoli fortune (2,5 milioni di dollari di allora)
a combattere e denunciare le trame dei suoi correligionari (1).
Benjamin Freedman tenne, nel 1961, al Willard Hotel di Washington ad un’influente platea, riunita dal giornale americano Common Sense, il seguente discorso.
«Qui negli Stati Uniti, i sionisti e i loro correligionari hanno il completo controllo del nostro governo.
Per varie ragioni, troppo numerose e complesse da spiegare qui, i sionisti dominano questi Stati Uniti come i monarchi assoluti di questo Paese.

Voi direte che è un’accusa troppo generale: lasciate che vi spieghi quel che ci è accaduto mentre noi tutti dormivamo.

Che cosa accadde?
La Prima Guerra Mondiale scoppiò nell’estate del 1914.

Non sono molti a ricordare, qui presenti.
In quella guerra, Gran Bretagna, Francia e Russia erano da una parte; dalla parte avversa, Germania, Austria-Ungheria e Turchia.
Entro due anni, la Germania aveva vinto quella guerra.
Non solo nominalmente, ma effettivamente.

I sottomarini tedeschi, che stupirono il  mondo, avevano fatto piazza pulita di ogni convoglio che traversava l’Atlantico.

La Gran Bretagna era priva di munizioni per i suoi soldati, e poche riserve alimentari, dopo cui,
la prospettiva della fame.

L’armata francese s’era ammutinata: aveva perso 600 mila giovani nella difesa di Verdun sulla Somme.

L’armata russa stava disertando in massa, tornavano a casa, non amavano lo Zar e non volevano più morire.
L’esercito italiano era collassato [a Caporetto].

Non un colpo era stato sparato su suolo tedesco.
Non un solo soldato nemico aveva attraversato la frontiera germanica.
Eppure, in quell’anno [1916] la Germania offrì all’Inghilterra la pace.
Offriva all’Inghilterra un negoziato di pace su quella base, che i giuristi chiamano dello ‘status quo ante‘.
Ciò significa: ‘Facciamola finita, e lasciamo tutto com’era prima che la guerra cominciasse’.
 L’Inghilterra, nell’estate del 1916, stava seriamente considerando quest’offerta.
 Non aveva scelta.
 O accettava quest’offerta magnanima, o la prosecuzione della guerra avrebbe visto la sua disfatta.

In questo frangente, i sionisti tedeschi, che rappresentavano il sionismo dell’Europa Orientale, presero contatto col Gabinetto di Guerra britannico – la faccio breve perché è una lunga storia,
ma ho i documenti che provano tutto ciò che dico – e dicono: ‘Potete ancora vincere la guerra. Non avete bisogno di cedere. Potete vincere se gli Stati Uniti intervengono al vostro fianco’.
Gli Stati Uniti non erano in guerra allora».
«Eravamo nuovi; eravamo giovani; eravamo ricchi; eravamo potenti.
Essi dissero all’Inghilterra: ‘Noi siamo in grado di portare gli Stati Uniti in guerra come vostro alleato, per battersi al vostro fianco, se solo ci promettete la Palestina dopo la guerra‘. […].

Ora, l’Inghilterra aveva tanto diritto di promettere la Palestina ad altri quanto gli Stati Uniti hanno il diritto di promettere il Giappone all’Irlanda.

E’ assolutamente assurdo che la Gran Bretagna, che non aveva mai avuto alcun interesse o collegamento con quella che oggi chiamiamo Palestina, potesse prometterla come moneta in cambio dell’intervento americano.

Tuttavia, fecero questa promessa, nell’ottobre 1916 [con la Dichiarazione Balfour, ndr.].

E poco dopo – non so se qualcuno di voi lo ricorda – gli Stati Uniti, che erano quasi totalmente
pro-germanici, entrarono in guerra come alleati della Gran Bretagna.

Dico che gli Stati Uniti erano quasi totalmente filotedeschi perché i giornali qui erano controllati dagli ebrei, dai nostri banchieri ebrei – tutti i mezzi di comunicazione di massa – e gli ebrei erano filotedeschi. 
Perché molti di loro provenivano dalla Germania, e anche volevano vedere la Germania rovesciare lo Zar; non volevano che la Russia vincesse.

Questi banchieri ebrei tedeschi, come Kuhn Loeb e delle altre banche d’affari negli Stati Uniti, avevano rifiutato di finanziare la Francia o l’Inghilterra anche con un solo dollaro.
Dicevano: ‘Finché l’Inghilterra è alleata alla Russia, nemmeno un centesimo!’.
Invece finanziavano la Germania; si battevano con la Germania contro la Russia.

Ora, questi stessi ebrei, quando videro la possibilità di ottenere la Palestina, andarono in Inghilterra e fecero l’accordo che ho detto.

Tutto cambiò di colpo, come un semaforo che passa dal rosso al verde.
Dove i giornali erano filotedeschi, […] di colpo, la Germania non era più buona.
Erano i cattivi.
Erano gli Unni.
Sparavano sulle crocerossine.
Tagliavano le mani ai bambini.
Poco dopo, mister Wilson [il presidente Woodrow Wilson, ndr.] dichiarava guerra alla Germania.
I sionisti di Londra avevano spedito telegrammi al giudice Brandeis (2): ‘Lavorati il presidente Wilson. Noi abbiamo dall’Inghilterra quello che vogliamo. Ora tu lavorati il presidente Wilson e porta gli USA in guerra’.
Così entrammo in guerra.
Non avevamo interessi in gioco.

Non avevamo ragione di fare questa guerra, più di quanto non ne abbiamo di essere sulla luna stasera, anziché in questa stanza.
Ci siamo stati trascinati perché i sionisti potessero avere la Palestina.

Questo non è mai stato detto al popolo americano.

Appena noi entrammo in guerra, i sionisti andarono dalla Gran Bretagna e dissero: ‘Bene, noi abbiamo compiuto la nostra parte del patto. Metteteci qualcosa per iscritto come prova che ci darete la Palestina’.
 Non erano sicuri che la guerra durasse un altro anno o altri dieci.
 Per questo cominciarono a chiedere il conto.
La ricevuta.
 Che prese la forma di una lettera, elaborata in un linguaggio molto criptico, in modo che il resto del mondo non capisse di che si trattava.

Questa fu chiamata la Dichiarazione Balfour» (3). […]
«Da qui cominciano tutti i problemi. […]
Sapete quello che accadde.

Quando la guerra finì, la Germania andò alla Conferenza di Pace di Parigi nel 1919 [nella delegazione USA] c’erano 117 ebrei, a rappresentare gli Stati Uniti, capeggiati da Bernard Baruch (4).

C’ero anch’io, e per questo lo so.

Che cosa accadde dunque? 
Alla Conferenza di Pace, mentre si tagliava a pezzi la Germania e si spezzettava l’Europa per darne parti a tutte quelle nazioni che reclamavano il diritto a un certo territorio europeo, gli ebrei presenti dissero: ‘E la Palestina per noi?’, ed esibirono la Dichiarazione Balfour.

Per la prima volta a conoscenza dei tedeschi.

Così i tedeschi per la prima volta compresero: ‘Ah, era questa la posta! Per questo gli Stati Uniti sono entrati in guerra’.

Per la prima volta i tedeschi compresero che erano stati disfatti, che subivano le tremende riparazioni che gli erano imposte dai vincitori, perché i sionisti volevano la Palestina ed erano decisi   ad averla ad ogni costo.
Qui è un punto interessante.

Quando i tedeschi capirono, naturalmente cominciarono a nutrire rancore.

Fino a quel giorno, gli ebrei non erano mai stati meglio in nessun Paese come in Germania.

C’era Rathenau là, che era cento volte più importante nell’industria e nella finanza di Bernard Baruch in questo Paese.

C’era Balin, padrone di due grandi compagnie di navigazione, la North German Lloyd’s e la Hamburg-American Lines.

C’era Bleichroder, che era il banchiere della famiglia Hohenzollern.

Cerano i Warburg di Amburgo, i grandi banchieri d’affari, i più grandi del mondo.
Gli ebrei prosperavano davvero in Germania.
E i tedeschi ebbero la sensazione di essere stati venduti, traditi.

Fu un tradimento che può essere paragonato a questa situazione ipotetica: immaginate che gli USA siano in guerra con l’URSS.
E che stiamo vincendo.
E che proponiamo all’Unione Sovietica: ‘Va bene, smettiamola. Ti offriamo la pace’.
E d’improvviso la Cina Rossa entra in guerra come alleato dell’URSS, e la sua entrata in guerra ci porta alla sconfitta.

Una sconfitta schiacciante, con riparazioni da pagare tali, che l’immaginazione umana non può comprendere.
Immaginate che, dopo la sconfitta, scopriamo che sono stati i cinesi nel nostro Paese, i nostri concittadini cinesi, che abbiamo sempre pensato leali cittadini al nostro fianco, a venderci all’URSS, perché sono stati loro a portare in guerra la Cina contro di noi.

Cosa provereste, allora, in USA, contro i cinesi?

Non credo che uno solo di loro oserebbe mostrarsi per la strada; non ci sarebbero abbastanza lampioni a cui impiccarli.
Ebbene: è quello che provarono i tedeschi verso quegli ebrei.
Erano stati tanto generosi con loro: quando fallì la prima Rivoluzione russa (5) e tutti gli ebrei dovettero fuggire dalla Russia, ripararono in Germania, e la Germania diede loro rifugio.
  Li trattò bene.

Dopo di che, costoro vendono la Germania per la ragione che vogliono la Palestina come ‘focolare ebraico’».
«Ora Nahum Sokolow, e tutti i grandi nomi del sionismo, nel 1919 fino al 1923 scrivevano proprio questo: che il rancore contro gli ebrei in Germania era dovuto al fatto che sapevano che la loro grande disfatta era stata provocata dall’interferenza ebraica, che aveva trascinato nella guerra gli USA.
Gli ebrei stessi lo ammettevano.
[…] 
Tanto più che la Grande Guerra era stata scatenata contro la Germania senza una ragione, una responsabilità tedesca.

Non erano colpevoli di nulla, tranne che di avere successo. 
Avevano costruito una grande nazione.
 Avevano una rete commerciale mondiale.

Dovete ricordare che la Germania al tempo della Rivoluzione francese consisteva di 300 piccole città-stato, principati, ducati e così via.

E fra l’epoca di Napoleone e quella di Bismarck, quelle 300 microscopiche entità politiche separate si unificarono in uno Stato.

Ed entro 50 anni la Germania era divenuta una potenza mondiale.

La sua marina rivaleggiava con quella dell’Impero britannico, vendeva i suoi prodotti in tutto il mondo, poteva competere con chiunque, la sua produzione industriale era la migliore.

Come risultato, che cosa accadde?
 Inghilterra, Francia e Russia si coalizzarono per stroncare la Germania […].

Quando la Germania capì che gli ebrei erano i responsabili della sua sconfitta, naturalmente nutrì rancore.

Ma a nessun ebreo fu torto un capello in quanto ebreo.

Il professor Tansill, della Georgetown University, che ha avuto accesso a tutti i documenti riservati del Dipartimento di Stato, ne cita uno scritto da Hugo Schoenfeldt, un ebreo che Cordell Hull inviò in Europa nel 1933 per investigare sui cosiddetti campi di prigionia politica, e riferì al Dipartimento di Stato USA di avere trovato i detenuti in condizioni molto buone.
Solo erano pieni di comunisti.

E una quantità erano ebrei, perché a quel tempo il 98% dei comunisti in Europa erano ebrei.

Qui, occorre qualche spiegazione storica,
Nel 1918-19 i comunisti presero il potere in Baviera per qualche giorno, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht ed altri, tutti ebrei.

Infatti a guerra finita il Kaiser scappò in Olanda perché i comunisti stavano per impadronirsi della Germania e lui aveva paura di fare la fine dello Zar.

Una volta schiacciata la minaccia comunista, gli ebrei ancora lavorarono […] erano 460 mila ebrei fra 80 milioni di tedeschi, l’1,5% della popolazione, eppure controllavano la stampa, e controllavano l’economia perché avevano valuta estera e quando il marchio svalutò comprarono tutto per un pezzo di pane».
«Gli ebrei tengono nascosto questo, non vogliono che il mondo comprenda che avevano tradito la Germania e i tedeschi se lo ricordavano.
I tedeschi presero misure contro gli ebrei.

Li discriminarono dovunque possibile.

Allo stesso modo noi tratteremmo i cinesi, i negri, i cattolici, o chiunque in questo Paese  che ci avesse venduto al nemico e portato alla sconfitta.

Ad un certo punto gli ebrei del mondo convocarono una conferenza ad Amsterdam.

E qui, venuti da ogni parte del mondo nel luglio 1933, intimarono alla Germania:
‘Mandate via Hitler, rimettete ogni ebreo nella posizione che aveva, sia comunista o no. Non potete trattarci in questo modo. Noi, gli ebrei del mondo, lanciamo un ultimatum contro di voi’.

Potete immaginare come reagirono i tedeschi.

Nel 1933, quando la Germania rifiutò di cedere alla conferenza mondiale ebraica di Amsterdam, Samuel Untermeyer, che era il capo della delegazione americana e presidente della conferenza, tornò in USA, andò agli studios della Columbia Broadcasting System (CBS) e tenne un discorso radiofonico in cui in sostanza diceva:
‘Gli ebrei del mondo dichiarano ora la Guerra Santa contro la Germania. Siamo ora impegnati in un conflitto sacro contro i tedeschi. Li piegheremo con la fame. Useremo contro di essi il boicottaggio mondiale. Così li distruggeremo, perché la loro economia dipende dalle esportazioni’ (6).

E di fatto i due terzi del rifornimento alimentare tedesco dovevano essere importati, e per importarlo dovevano vendere, esportare, i loro prodotti industriali.
All’interno, producevano solo abbastanza cibo per un terzo della popolazione.
Ora in quella dichiarazione, che io ho qui e che fu pubblicata sul New York Times del 7 agosto 1933, Samuel Untermeyer dichiarò audacemente che ‘questo boicottaggio economico è il nostro mezzo di autodifesa.
Il presidente Roosevelt ha propugnato la sua adozione nella Nation Recovery Administration’, che, qualcuno di voi ricorderà, imponeva il boicottaggio contro qualunque Paese non obbedisse alle regole del New Deal, e che poi fu dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema.
Tuttavia, gli ebrei del mondo intero boicottarono la Germania, e il boicottaggio fu così efficace che non potevi più trovare nulla nel mondo con la scritta ‘Made in Germany’.

Un dirigente della Woolworth Co. mi raccontò allora che avevano dovuto buttare via milioni di dollari di vasellame tedesco; perché i negozi erano boicottati se vi si trovava un piatto con la scritta ‘Made in Germany’; vi formavano davanti dei picchetti con cartelli che dicevano ‘Hitler assassino’ e così via.

In un magazzino Macy, di proprietà di una famiglia ebraica, una donna trovò calze con la scritta ‘Made in Germany’
Vidi io stesso il boicottaggio di Macy’s, con centinaia di persone ammassate all’entrata con cartelli che dicevano ‘Assassini’, ‘Hitleriani’, eccetera».
«Va notato che fino a quel momento in Germania non era stato torto un capello sulla testa di un ebreo.
Non c’era persecuzione, né fame, né assassini, nulla.
Ma naturalmente, adesso i tedeschi cominciarono a dire:
‘Chi sono questi che ci boicottano, e mettono alla disoccupazione la nostra gente e paralizzano le nostre industrie?’.

Così cominciarono a dipingere svastiche sulle vetrine dei negozi di proprietà degli ebrei […]

Ma sono nel 1938, quando un giovane ebreo polacco entrò nell’ambasciata tedesca a Parigi e sparò a un funzionario tedesco, solo allora i tedeschi cominciarono ad essere duri con gli ebrei in Germania.

Allora li vediamo spaccare le vetrine e fare pestaggi per a strada.

Io non amo usare la parola ‘antisemitismo’ perché non ha senso, ma siccome ha un senso per voi, dovrò usarla.

La sola ragione del risentimento tedesco  contro gli ebrei era dovuta al fatto che essi furono i responsabili della Prima Guerra mondiale e del boicottaggio mondiale.

In definitiva furono responsabili anche della Seconda Guerra mondiale, perché una volta sfuggite le cose dal controllo, fu assolutamente necessario che gli ebrei e la Germania si battessero in una guerra per questione di sopravvivenza.

Nel frattempo io ho vissuto in Germania, e so che i tedeschi avevano deciso che l’Europa sarebbe stata comunista o ‘cristiana’: non c’è via di mezzo.

E i tedeschi decisero che avrebbero fatto di tutto per mantenerla ‘cristiana’.

Nel novembre 1933 gli Stati Uniti riconobbero l’Unione Sovietica.

L’URSS stava diventando molto potente, e la Germania comprese che ‘presto toccherà a noi, se non saremo forti».

E’ la stessa cosa che diciamo noi, oggi, in questo Paese.
Il nostro governo spende 83-84 miliardi di dollari per la difesa.
Difesa contro chi?
Contro 40 mila piccoli ebrei a Mosca che hanno preso il potere in Russia, e con  le loro azioni tortuose, in molti altri Paesi del mondo.[…]
Che cosa ci aspetta?»
«Se scateniamo una guerra mondiale che può sboccare in una guerra atomica, l’umanità è finita.
Perché una simile guerra può avvenire?
Il fatto è che il sipario sta di nuovo salendo.
Il primo atto fu la Grande Guerra, l’atto secondo la Seconda guerra mondiale, l’atto terzo sarà la Terza guerra mondiale. 
I sionisti e i loro correligionari dovunque vivano, sono determinati ad usare di nuovo gli Stati Uniti perché possano occupare permanentemente la Palestina come loro base per un governo mondiale.

Questo è vero come è vero che sono di fronte a voi.

Non solo io ho letto questo, ma anche voi lo avete letto, ed è noto a tutto il mondo. […]

Io avevo una idea precisa di quello che stava accadendo: ero l’ufficiale di Henry Morgenthau Sr. nella campagna del 1912 in cui il presidente [Woodrow] Wilson fu eletto.
Ero l’uomo di fiducia di Henry Morgenthau Sr., che presiedeva la Commissione Finanze, ed io ero il collegamento tra lui e Rollo Wells, il tesoriere.

In quelle riunioni il presidente Wilson era a capo della tavola, e c’erano tutti gli altri, e io li ho sentiti ficcare nel cervello del presidente Wilson la tassa progressiva sul reddito e quel che poi divenne la Federal Reserve, e li ho sentiti indottrinarlo sul movimento sionista.

Il giudice Brandeis e il presidente Wilson erano vicini come due dita della mano.
  Il presidente Wilson era incompetente come un bambino.

Fu così che ci trascinarono nella Prima guerra mondiale, mentre tutti noi dormivamo. […]

Quali sono i fatti a proposito degli ebrei?

Li chiamo ebrei perché così sono conosciuti, ma io non li chiamo ebrei.
Io mi riferisco ad essi come ai ‘cosiddetti ebrei’, perché so chi sono.

Gli ebrei dell’Europa orientale, che formano il 92% della popolazione mondiale di queste genti che chiamano se stesse ‘ebrei’, erano originariamente Kazari.

Una razza mongolica, turco-finnica.

Erano una tribù guerriera che viveva nel cuore dell’Asia.

Ed erano tali attaccabrighe che gli asiatici li spinsero fuori dall’Asia, nell’Europa orientale.

Lì crearono un grande regno Kazaro di 800 mila miglia quadrate.

A quel tempo [verso l’800 dopo Cristo, ndr] non esistevano gli USA, né molte nazioni europee […]. Erano adoratori del fallo, che è una porcheria, e non entro in dettagli.

Ma era questa la loro religione, come era anche la religione di molti altri pagani e barbari».
«Il re Kazaro finì per disgustarsi della degenerazione del proprio regno, sì che decise di adottare una fede monoteistica – il cristianesimo, l’Islam, o quello che oggi è noto come ebraismo, che è in realtà talmudismo.

Gettando un dado, egli scelse l’ebraismo, e questa diventò la religione di Stato.

Egli mandò inviati alle scuole talmudiche di Pambedita e Sura e ne riportò migliaia di rabbini, aprì sinagoghe e scuole, e il suo popolo diventò quelli che chiamiamo ‘ebrei orientali’.

Non c’era uno di loro che avesse mai messo piede in Terra Santa.
Nessuno!

Eppure sono loro che vengono a chiedere ai cristiani di aiutarli nelle loro insurrezioni in Palestina  dicendo: ‘Aiutate a rimpatriare il Popolo Eletto da Dio nella sua Terra Promessa, la loro patria ancestrale, è il vostro compito come cristiani… voi venerate un ebreo [Gesù] e noi siamo ebrei!’.

Ma sono pagani Kazari che si sono convertiti.

E’ ridicolo chiamarli ‘popolo della Terra Santa’, come sarebbe chiamare 53 milioni di cinesi musulmani ‘Arabi’.

Ora, immaginate quei cinesi musulmani a 2.000 miglia dalla Mecca, se si volessero chiamare ‘arabi’ e tornare in Arabia.
Diremmo che sono pazzi.

Ora, vedete com’è sciocco che le grandi nazioni cristiane del mondo dicano: ‘Usiamo il nostro potere e prestigio per rimpatriare il Popolo Eletto da Dio nella sua patria ancestrale’.

C’è una menzogna peggiore di questa?

Perché loro controllano giornali e riviste, la televisione, l’editoria, e perché abbiamo ministri dal pulpito e politici dalla tribuna che  dicono le stesse cose, non è strano che  crediate in questa menzogna.
Credereste che il bianco è nero se ve lo ripetessero tanto spesso.

Questa menzogna è il fondamento di tutte le sciagure che sono cadute sul mondo.

Sapete cosa fanno gli ebrei nel giorno dell’Espiazione, che voi credete sia loro tanto sacro?

Non ve lo dico per sentito dire…
Quando, il giorno dell’Espiazione, si entra in una sinagoga, ci si alza in piedi per la primissima preghiera che si recita.
Si ripete tre volte, è chiamata ‘Kol Nidre’».
«Con questa preghiera, fai un patto con Dio Onnipotente che ogni giuramento, voto o patto che farai nei prossimi dodici mesi sia vuoto e nullo (7).
Il giuramento non sia un giuramento, il voto non sia un voto, il patto non sia un patto.
Non abbiano forza.
E inoltre, insegna il Talmud, ogni volta che fai un giuramento, un voto o un patto, ricordati del Kol Nidre che recitasti nel giorno dell’Espiazione, e sarai esentato dal dovere di adempierli.

Come potete fidarvi della loro lealtà?

Potete fidarvi come si fidarono i tedeschi nel 1916.
Finiremo per subire lo stesso destino che la Germania ha sofferto, e per gli stessi motivi».
E’ la profezia di Benjamin Freedman.
Ci riguarda.

Maurizio Blondet

Note

1) Freedman fondò tra l’altro la «Lega per la pace con giustizia in Palestina», e collaborò con l’americano «Istituto per la revisione storica», il centro promotore di tutto ciò che viene chiamato «revisionismo storico». E’ scomparso nel 1984.

2) Louis Dembitz Brandeis, influentissimo giudice della Corte Suprema, acceso sionista, fu il consigliere molto ascoltato di W. Wilson. Brandeis apparteneva alla setta ebraica aberrante fondata nella Polonia del ‘700 da Jacob Frank: essa predicava che la salvezza si consegue attraverso il peccato. Confronta il mio «Cronache dell’Anticristo».

3) Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico, lord Arthur Balfour, scrisse a Lord Rotschild una lettera in cui dichiarava: «Il governo di Sua Maestà vede con favore la nascita in Palestina di un focolare nazionale per le genti ebraiche, e userà tutta la sua buona volontà per facilitare il raggiungimento di questo obbiettivo. Si intende che nulla dovrà essere fatto per pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti popolazioni non ebraiche in Palestina». Era la «Dichiarazione Balfour», che decretava di fatto la nascita dello Stato d’Israele. Lord Balfour, spiritista e massone, fondatore della Loggia «Quatuor Coronati» (la Loggia-madre di tutte le Massonerie di obbedienza «scozzese») credeva fra l’altro che agevolare il ritorno degli ebrei in Palestina avrebbe accelerato il secondo avvento di Cristo. Il punto è che la terra che Sua Maestà prometteva agli ebrei non era sotto dominio britannico, ma parte dell’impero Ottomano. Per dare attuazione al «focolare ebraico», il governo britannico non esitò a distogliere centinaia di migliaia di soldati dal pericolante fronte europeo, per spedirli alla conquista di Gerusalemme.

4) Bernard Baruch (1876-1964), potente finanziere ebreo, nato in Texas, fu il consigliere privato di sei presidenti, da Woodrow Wilson (1916) a D. Eisenhower (1950).  Nella prima come nella seconda guerra mondiale, Baruch promosse la creazione del War Industry Board, l’organo di pianificazione centralizzata della produzione bellica. Di fatto, fu una sorta di «governo segreto» degli Stati Uniti, che praticò ampiamente i metodi del socialismo, compreso il controllo della stampa e il sistema di razionamento alimentare. Dopo la seconda guerra mondiale Baruch e i banchieri ebrei americani gestirono i fondi del Piano Marshall. Ne affidarono la distribuzione a Jean Monnet, loro fiduciario. Secondo le istruzioni ricevute, per dare i fondi, Monnet esigeva la cessione da parte degli Stati europei di sostanziali porzioni di sovranità: così fu creata la Comunità Europea.

5) Si tratta della «rivoluzione dekabrista» del 1905, in realtà un putsch di giovani ufficiali zaristi, tutti ebrei. La comunità ebraica russa la sostenne, e i suoi figli vi parteciparono con inaudita violenza. Futuri capi della successiva rivoluzione bolscevica, come Trotsky e Parvus, furono l’anima dei dekabristi, e dovettero riparare all’estero dopo il fallimento.

6) Freedman allude qui al vero e proprio rito magico di maledizione, detto Cherem o scomunica maggiore, celebrato al Madison Square Garden il 6 settembre 1933. «Furono ritualmente accesi due ceri neri e si soffiò tre volte nello shofar [il corno di ariete], mentre il rabbino B.A. Mendelson pronunciava la formula di scomunica» contro la Germania. Samuel Untermeyer, membro del B’nai B’rith, ripeterà il 5 gennaio 1935 la dichiarazione di embargo totale contro le merci tedesche «a nome di tutti gli ebrei, framassoni e cristiani» (Jewish Daily Bulletin, New York,
6 gennaio 1935).

7) E’ la preghiera centrale dello Yom Kippur. Eccone la formula: «Di tutti i voti, le rinunce, i giuramenti, gli anatemi oppure promesse, ammende o delle espressioni attraverso cui facciamo voti, confermiamo, ci impegniamo o promettiamo di qui fino all’avvento del prossimo giorno dell’Espiazione, noi ci pentiamo, in modo che siano tutti sciolti, rimessi e condonati, nulli, senza validità e inesistenti. I nostri voti non sono voti, le nostre rinunce non sono rinunce, e i nostri giuramenti non sono giuramenti». Secondo il rabbino Jacob Taubes, con questa formula il popolo eletto si scioglie dalla comunità del resto del genere umano – dalle sue leggi, dalle sue lealtà alle istituzioni e allo Stato – per dedicarsi solo a Dio. In realtà, il Kol Nidre fonda l’antinomismo radicale della religione ebraica: il «popolo di Dio» non è tenuto ad obbedire ad alcuna norma.
Per Taubes, il popolo ebraico è dunque il popolo dissolutore, il contrario del «kathecon» (Ciò che trattiene l’Anticristo, in San Paolo, ossia il diritto naturale adottato da Roma) (Jacob Taubes, «La Teologia Politica di San Paolo», Adelphi, pagina 71).



Fonte: Estratto, da «Israele, USA, il terrorismo islamico» ,  Maurizio Blondet, EFFEDIEFFE, 2005, pagine 161-171. http://www.veja.it/