domenica 12 giugno 2016

Uno sguardo ad Adolf Hitler.

hitler
 
 
Volentieri, riportiamo in seguito a segnalazione, questa intervista a Giorgio Galli che ben si inserisce anche nel quadro delle notizie d’attualità. Grassettature e sottolineature nostre [RS]
 
«Hitler fu l’ultimo teorico della guerra tra razze», apparsa su Il Giornale a cura di Luca Gallesi, 9 giugno 2016.
Giorgio Galli, uno dei maggiori politologi italiani, ha insegnato Storia delle dottrine politiche all’Università degli Studi di Milano per più di trent’anni. Nella sua folta produzione saggistica, occupano un posto particolare i suoi studi sui rapporti tra politica ed esoterismo, e in particolare l’argomento del cosiddetto «nazismo magico», ovvero l’analisi dell’influenza della cultura esoterica sul pensiero politico nazionalsocialista in generale e hitleriano in particolare, come si evince dalla lettura del Mein Kampf.
Professor Galli, perché il libro di Hitler è stato, e in parte lo è ancora, considerato un tabù, tale da meritargli l’etichetta di libro proibito?
«Nel libro di proibito non c’è nulla, ma c’è molto antisemitismo, che diventerà, ovviamente dopo la pubblicazione del Mein Kampf, un tema politico drammatico, trasformando il libro nel riferimento teorico di uno delle maggiori tragedie del Ventesimo secolo. Ecco perché è diventato un libro proibito in molte nazioni, anche se ora non lo è più, tanto che è stato pubblicato persino in Israele ed è diventato un classico del pensiero politico; ad esempio, nel libro di storia delle dottrine politiche di Chevallier, un manuale adottato in molte università italiane, viene dato molto spazio al libro di Hitler».
Quindi, non è solo un manuale dell’orrore, ma un testo di teoria politica
«Sì, è un testo che vuole interpretare la storia umana come un conflitto tra razze; se la storia liberale, che è quella crociana, interpreta la storia umana come un progressivo affermarsi del concetto di libertà, e la storia marxista, invece, è determinata dai modi di produzione e dalla conseguente lotta di classe, il Mein Kampf si riallaccia a un altro filone di pensiero, anche questo piuttosto diffuso nell’Ottocento, che risale al Conte de Gobineau e che interpreta la storia come un conflitto di razze. Se per il de Gobineau la decadenza era inarrestabile e la razza bianca era destinata a soccombere davanti all’avanzata del meticciato, per Hitler un intervento dello Stato, con una adeguata politica razziale, avrebbe potuto invertire questa tendenza. Accanto alla politica razziale, il Mein Kampf è ricco di osservazioni geopolitiche: l’espansione a Est, il possibile accordo con l’Inghilterra, l’alleanza con l’Italia erano tutte misure efficaci a contrastare il meticciato, grazie a un territorio esteso e autosufficiente il famoso Lebensraum – dove una politica efficace avrebbe potuto fermare il processo di decadenza».
Dobbiamo considerare il Mein Kampf un vero e proprio manifesto politico?
«Sì, è un progetto politico positivista, con basi teoriche piuttosto diffuse nell’Ottocento, al quale, nella prima parte, Hitler aggiunge la propria autobiografia, con la descrizione della sua giovinezza e l’affermazione che a vent’anni il suo pensiero era già compiuto. A questo proposito, mi ha colpito la sua estrema reticenza nel citare la cultura esoterica, che gli era familiare e che continuò a studiare fino alla fine della sua esistenza».
La continua demonizzazione di Hitler non ha forse contribuito ad aumentarne il fascino?
«Sicuramente, anzi, ne ha fatto quasi una leggenda: tutto ciò che è proibito, ne accresce il fascino a dismisura, fascino che si estende alla sua opera, che non è efficace come i libri di Lenin o agile come quelli di Mussolini».
Hitler, quindi, non si può considerare un pazzo o un ignorante?
«No, non lo era affatto. L’idea di un mondo nel quale la razza bianca avesse diritto di primogenitura e di dominio è un’idea molto diffusa nel Diciannovesimo secolo e all’inizio del Ventesimo. E la possiamo trovare espressa chiaramente anche in Kant o in Hume; quello che cambia, invece, è l’esasperazione del tema ebraico. Ed è curioso osservare come per Hitler l’ebreo sia considerato in modo ambivalente: per un verso è un sottouomo, ma dall’altro è il depositario di un sapere occulto, quello della Cabala, che lo rende superiore e addirittura in grado di conquistare il mondo. Questo, secondo me, è una conseguenza della cultura esoterica di cui Hitler era imbevuto, che vede anche nella purezza del sangue un elemento distintivo, che era comune sicuramente alla cultura ebraica e che doveva diventare comune anche per la razza ariana. Sulla cultura politica normale si innesta, quindi, una vena esoterica e messianica che distingue il nazionalsocialismo dagli altri movimenti nazionali, come si vede chiaramente dal Mein Kampf, dove c’è scritto tutto quello che Hitler avrebbe fatto una volta conquistato il potere: il Lebensraum da conquistare a oriente e tutto il resto. Al contrario dei politici liberali, Hitler mantenne sempre le promesse: il problema è che nessuno gli credette…».
Cosa resta del Mein Kampf: è un documento del passato o ci possono essere riferimenti all’attualità?
«È un classico del pensiero politico, ma è quasi definitivamente passato. Adesso, la visione di una competizione mondiale geopolitica rimane valida, come ho scritto nel libro Scacco alla superclass, appena pubblicato da Mimesis, dove tratteggio la storia del ‘900 come la sequenza di una nuova guerra dei trent’anni (1914-1945), seguita dalla rivoluzione anticolonialista che porta al mondo governato da cinquecento multinazionali. Rimane comunque ancora oggi fondamentale la competizione geopolitica tra stati continentali, che era una delle intuizioni principali del pensiero politico di Hitler, che non a caso conosceva e ammirava Karl Haushofer, teorico principale della geopolitica, le cui idee permeano il Mein Kampf».