giovedì 31 marzo 2016

CAVOUR TRAMA PER L’AGGRESSIONE AL REGNO DI NAPOLI, IL “DIETRO LE QUINTE”

430172_3381389584201_155959528_nI Mille? Benedetti dal conte di Cavour
di Angela Pellicciari
La spedizione in Sicilia sarebbe stata impossibile senza l’appoggio – segreto – del Regno di Sardegna.
“Venga da me quando vuole, ma pria di giorno e che nessuno lo veda e che nessuno lo sappia. Se sarò interrogato in Parlamento o dalla diplomazia (soggiunse, sorridendo), lo rinnegherò come Pietro e dirò: non lo conosco”: così – racconta La Farina – gli disse Cavour durante uno dei numerosissimi e super segreti colloqui per organizzare quella che è passata alla storia come “spedizione dei Mille”.
Perché Cavour non vuole che venga alla luce l’organizzazione capillare da lui stesso meticolosamente preparata – insieme al fido La Farina – per l’invasione dell’Italia meridionale? Perché la vulgata esige che il Regno di Sardegna intervengano solo ed esclusivamente per soccorrere le popolazioni italiane che “gemono” sotto il giogo della schiavitù: in caso contrario, se le apparenze non sono salvate, Cavour rischia la perdita della copertura internazionale indispensabile per l’unificazione dell’Italia sotto i Savoia.
La storiografia del Novecento ha puntualmente ripetuto la versione di comodo raccontata al mondo dai governanti sardi. Ma le cose non stanno così. Per sapere come si sono svolti i fatti è utile ricorrere all’epistolario e agli articoli del braccio destro di Cavour, l’influente storico massone Giuseppe La Farina, potentissimo segretario della Società Nazionale. Nella lettera del 14 ottobre 1860, per esempio, questi racconta all’amico Pietro Sbarbaro: “V’è una parte della mia biografia completamente sconosciuta, ed è forse la più importante, voglio dire le mie relazioni con conte di Cavour: relazioni intime, e pur tenute segretissime dal ‘56 al ‘59, e non sospettate né anco dagli amici stretti del Conte di Cavour. Io vedeva il conte di Cavour quasi tutti i giorni prima dell’alba […] fui io che gli feci conoscere Garibaldi, e che l’indussi ad adoperarlo nella guerra d’indipendenza che si apparecchiava […] Le potrò dare notizia della parte presa da me e dalla Società Nazionale alla spedizione di Sicilia; ed Ella vedrà che il concetto fu mio; che Garibaldi esitava (e ne ho documenti)”, che “e armi e munizioni furono somministrate a Garibaldi da me: egli non aveva nulla”.
In una lettera di poco posteriore lo storico siciliano è ancora più esplicito: “Gl’indugi alla partenza [per la Sicilia] vennero da Garibaldi e da’ suoi amici, i quali dicevano quella impresa una follia. Garibaldi si decise a partire, quando seppe che i Siciliani sarebbero partiti senza di lui. Questa è la verità vera”. La verità che La Farina racconta nelle lettere è da lui lui divulgata anche a mezzo stampa. Sull’Espero il 24 gennaio 1862, per esempio, La Farina scrive: “Per quattro anni lo scrittore di questi articoli vide, quasi tutte le mattine, il conte di Cavour, senza che qualcuno de’ suoi intimi amici lo sapesse, andando sempre due o tre ore prima di giorno, e sortendo spesso da una scaletta segreta, ch’era contigua alla sua camera da letto, quando in anticamera v’era qualcuno che lo potesse conoscere!”.
Dalla testimonianza di La Farina il ruolo di Garibaldi nell’impresa siciliana risulta decisamente ridimensionato. Sarà vero? Sembrerebbe di sì. Perlomeno a leggere quanto il generale scrive a La Farina da Caprera l’8 gennaio 1859: “Circa all’organizzazione convenuta io la lascio interamente a voi. Medici e chiunque de’ miei hanno ordine di non fare nulla senza consultarvi. Lo stesso ho raccomandato a quei di dentro. Vogliatemi bene e comandatemi”.
Se il ruolo di Garibaldi è stato gonfiato ad arte – Garibaldi non avrebbe fatto un passo senza Cavour e La Farina, i loro soldi e le loro armi – cosa dire dei Mille che hanno seguito il generale nell’eroica impresa liberatrice? Leggiamo cosa pensa di loro il generale Giuseppe Garibaldi: “Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del malaffare.

Fonte: http://venetostoria.com/page/12/

mercoledì 30 marzo 2016

SIRIA INSANGUINATA ? IL PRIMO IN EPOCA MODERNA FU NAPOLEONE, CON UN MASSACRO

IL MASSACRO DI 4.400 PRIGIONIERI IN SIRIA. Primavera del 1799.

421704_3225774053910_593662096_nDa “Le campagne di Napoleone” di David G. Chandler ed. Bur Rizzoli.

…Due giorni dopo Bonaparte si trovava alle porte di Giaffa, e tre giorni di accurata preparazione diedero come risultato un assalto vittorioso, guidato da Lannes il 7 marzo. Qui ebbe luogo uno dei più feroci e meno perdonabili episodi della cariere di Bonaparte. Tremila Turchi della cittadella di Giaffa accettarono la parola di un comandante francese subalterno che sarebbe stata loro concessa la vita, ma Bonaparte ordinò l’esecuzione di ognuno di essi e di altri 1.400 prigionieri. Più tardi egli tentò di giustificare questo folle massacro in termini di necessità militare: egli non aveva cibo per tante bocche inutili, non poteva accordar loro una scorta, aveva trovato tra di essi dei turchi di Al Arish che erano stati rilasciati sulla parola, ma nessuna di queste spiegazioni risulta valida. Non vi è dubbio che il vero motivo fosse quello di impressionare Giazzar Pascià il cui soprannome era “il carnefice” con un esempio di crudeltà francese, ma in ogni modo il massacro fu una cosa orribile.
Come un castigo del cielo per quanto era accaduto, nell’esercito scoppiò all’istante una grave pestilenza…”.

L’autore non accenna ad un altro fatto. L’ufficiale preposto alla “macellazione” impazzì subito dopo l’esecuzione del terribile ordine, alla vista di quelle montagne di cadaveri.
Vive Napoleon…

Fonte: http://venetostoria.com/page/

L’ANNO DELL’ANNESSIONE DEL VENETO, IL 1866. SI ATTENDE “EL NOVO PARON” IN CENTRO.

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Piazza delle Erbe nel 1866, in occasione dell’arrivo a Padova del Re Vittorio Emanuele II dopo aver ricevuto a Torino i risultati del plebiscito che sanciva l’annessione del Veneto all’Italia. Si può notare il vecchio edificio delle Debite, prima della sua demolizione:
piena di folla plaudente, a quanto vedo. Le Venezie, di cui il Veneto attuale era il fulcro, accolsero l’annessione con indifferenza, s enon ffastidio o ostilità. Il popolo vedeva il re piemontese come un estraneo, “un paron” che poi si farà odiare, per il carico fiscale, la tassa sul macinato, l’aumentodella povertà che spinse milioni di veneti sulle strade di tutto il mondo.”Porca Italia, ‘ndemo via !” era l’invettiva di tanti poveri cristi, che ammassavano le loro poche cose sulle carrette, dirette con la famiglia, verso qualche porto.


Fonte: http://venetostoria.com/page/

Le persecuzioni da parte dei soldati "italiani" nel Litorale

Quelle che seguono sono testimonianze delle persecuzioni dei militari italiani (dicono anche dei carabinieri) in Istria nelle prime settimane di occupazione. Arrestavano i sacerdoti croati e sloveni per strada e li portavano a Trieste in via Tigor dove venivano trattenuti ed interrogati. Ciò accadeva su segnalazioni spesso anonime raccolte dall'ITO (*) o come in questo caso "a vista".
Alcuni storici dicono che furono incarcerate almeno due centinaia di sacerdoti nel Litorale; quelli che poi furono deportati in Italia per mesi, anni e comunque entro la fine del 1920, furono alcune decine.
Nel frattempo i sacerdoti già arrestat nel 1915 nelle terre occupate, rimanevano in carcere. Qui si dice che negli stessi giorni condividevano la prigionia con il sacerdote in questione, anche altri maggiorenti della cutura "alloglotta" del Litorale tra i quali l'avv. Mogorovič e Gottfried von Banfield.

(*) servizi segreti militari




Fonte: Vota Franz Josef

martedì 29 marzo 2016

S.A.R. Sisto Enrico di Borbone, un Principe Legionario.


Il passato 12 marzo S.A.R. Don Sisto ha ricevuto a El Pardo un alto riconoscimento legionario, con la imposizioni della insignia de honor de la Hermandad de Caballeros Legionarios de Sevilla, dalle mani di una insigne famiglia carlista e legionaria, come ce ne sono molte. Vale la pena ricordare i particolari del suo percorso nel Tercio.


La Famiglia Reale si distinse negli anni sessanta del secolo scorso per un incredibile attivismo in azioni umanitarie. Per la famiglia rivale il confronto era troppo difficile da raggiungere:  l'Infanta María Francisca aveva servito nella Croce Rossa in ausilio degli ungheresi durante la repressione sovietica del 1956; la allora infanta María de las Nieves aveva svolto il Servizio Sociale  nel Castillo de la Mota en Medina del Campo, e inoltre la allora infanta Cecilia si adoperò in aiuto al disastro umanitario nel Biafra. Nel gennaio 1964 José Arturo Márquez de Prado, capo nazionale aggiunto del Requeté, spinse per l'inserimento nella Legión di S.A.R. Don Sisto. L'iniziativa partì in gran parte da suo fratello maggiore  Carlo Ugo e contava dell'appoggio entusiasta di Don Javier. In una operazione totalmente riservata il Comandante Sisto Barranco, delegato dello Stato Maggiore dei Requetés, capo carlista de Melilla e del Banderín de Enganche della Legión e  Capitano della Legión Morán Carapeto –ambe due avevano combattuto nella Cruzada nel Tercio de Requetés sivigliano de Nuestra Señora de los Reyes e mantenevano vivo l'entusiasmo e gli ideali di quei giorni -- realizzarono le modalità opportune per l'inserimento di  S.A.R. sotto il nome di Enrique de Aranjuez. Nell'ambiente militare solo loro conoscevano la sua vera identità, e mai venne dispensato da favoritismo alcuno, obbedendo agli ordini come un soldato qualunque. Con Don Sisto si arruolò un altro giovane carlista bilbaíno, Juan Carlos García de Cortázar, che lasciò i suoi studi al quarto corso della carriera di ingegneria industriale, per stare al fianco dell'Infante.  Finalmente sul finire del  1964 Don Sisto iniziò il  periodo di istruzione a Melilla, nel Tercio Gran Capitán, I de la Legión, giurando sulla bandiera  il 2  maggio 1965, rendendo questa data molto significativa. Al giuramento assistettero vari carlisti andalusi e valenziani, che mantennero segreta l'identità dell'Infante di Spagna. Il giuramento alla bandiera fu il seguente:

·         ¿Juráis a Dios y prometéis a España, besando con unción su bandera, respetar y obedecer siempre a vuestros jefes, no abandonarlos nunca y derramar, si es preciso, en defensa del honor e independencia de la Patria y del orden dentro de ella, hasta la última gota de vuestra sangres?

Quando alcuni "juanisti" scoprirono la presenza di Don Sisto nella Legión iniziarono a fare pressione sui vertici più alti e più sensibili del governo costituito, i cui membri facevano parte dei seguitori del ramo liberale alfonsino. Però nel corpo degli ufficiali legionari e tra il popolo carlista la presenza di Don Sisto suscitava grande simpatia.
 
 
La pretesa di  Don Sisto era quella di realizzare i suoi tre anni di servizio militare. Tuttavia la chiamata Segreteria Tecnica di Carlo Ugo capì che era più propizio pubblicizzare la cosa sfruttando  la sua presenza, filtrandolo ai  media di comunicazione e dedicando  un reportage sulla stampa carlista.  Il franchismo licenziò anticipatamente il legionario Enrique de Aranjuez dopo undici mesi cercando di attutire l'impatto propagandistico  dovuto alla sua presenza, che era in contrasto con l'immagine dei membri della dinastia liberale (il chiamato "Conde de Barcelona" servì sotto bandiera nemica nella Royal Navy e  Juan Carlos fu dispensato di una blanda e favoritistica istruzione all'interno dell'accademia generale, con un  più che mediocre espediente). Da allora Don Sisto mantenne strette relazioni con la Legión, ricevendo riconoscimenti da parte di diversi Hermandades e manifestando pubblicamente la sua disposizione e spirito legionario, come nel manifesto “A los Navarros” del novembre 1977, che oggi non potrebbe essere di maggiore attualità :

·         (…) Yo pido a todos los navarros que por encima de actitudes partidistas y bajo la Bandera de España, que como soldados todos hemos jurado, en esta hora triste y de prueba en que parece que se quiere castigar a Navarra su glorioso sacrificio en la Cruzada del 36 y su valor —con los que logró para su Escudo, que con los de Castilla, León y Aragón forman el real y nacional de España, la Gran Cruz Laureada de San Fernando—, formen en derredor de sus Instituciones naturales para defender las legítimas libertades que constituyen sus Fueros.

Un altro fatto degno di nota è che la Repubblica francese reclamò a Don Sisto la realizzazione del servizio militare, come già aveva fatto suo fratello Carlo Ugo. Don Sisto era nato in esilio, a Pau, città occitana, puramente ispanica, ma sotto la Francia. Tuttavia, come Infante di Spagna, Don Sisto comprendeva di non poter giurare sulla bandiera della Rivoluzione francese e non rispose alla chiamata  del servizio militare francese. Per questo fatto fu condannato a un anno di prigione dal Tribunale permanente delle Forze Armate, il quale dispose anche il sequestro dei suoi beni.
 
 
Dopo essere stato congedato dalla Legión contro la sua volontà e contro il  suo diritto, Don Sisto passò in Portogallo, dove ospitato da amici e parenti della Famiglia Reale lavorò nei principali ambiti della amministrazione civile e anche nel mondo della finanza con la familia Espíritu Santo. Visitò le province portoghesi in Africa, dove mise a  servizio la propria istruzione militare.
 
 
 
 
Fonte:  http://elmatinercarli.blogspot.it/2016/03/sar-don-sixto-enrique-principe.html


Di Redazione A.L.T.A.

domenica 27 marzo 2016

Auguri di una Buona e Santa Pasqua da A.L.T.A.


Felix Pascha!
 
Buona Pasqua!
 
Buena Pasqua!
 
Feliz Páscoa!
 
Bonne Pâques!
 
Happy Easter!
 
Beannachtaí na Cásca!
 
Frohe Ostern!
 
Boldog húsvéti Ünnepeket!
 
Sretan Vaskrs!
 
Честит Великден!
 
Христос воскрес!
 
Wesołych Świąt!
 
Vesele velikonočne praznike!
 
Paște fericit!
 
Šťastné Velikonoce!
 
 
Di Redazione A.L.T.A.

giovedì 24 marzo 2016

Gli uomini che difesero l'Impero dagli "italiani".


Osservate che sguardo... chi avrebbe voluto affrontare della gente simile? Infatti gli italiani avevano un sacro terrore di loro. Come anche dei bosniaci, dei dalmati. Non parliamo degli sloveni che erano in casa loro.
Quando arrivarono gli ucraini ed i romeni tirarono un sospiro di sollievo pensando che il peggio era passato. Ed invece no, proprio i romeni gli diedero una suonata epica alla fine della 10° battaglia facendo oltre 10 mila prigionieri con un paio di reggimenti.... Nemmeno con i ceki gli era andata bene... il 28° reggimento di Praga sciolto per ignominia in Galizia e ricostituito con le reclute, si fece sterminare pur di non arrendersi.
Gli ultimi due superstiti del reggimento furono catturati a Zagora dopo aver finite le munizioni da un bel pezzo e senza più forza di tirargli pietre o di morderli. Un ufficiale vide dei bosniaci reduci da furiosi combattimenti corpo a corpo, tutti sporchi di sangue raggrumato. Seppe che non mangiavano da giorni e li invitò ad andare a rifocillarsi, ma uno di essi rispose: "Ci nutriamo del sangue degli italiani", togliendosi un grumo coagulato sui baffi.
Ed i vecchi della territoriale? Nemmeno con loro andò bene... due compagnie si opposero ad un assalto ormai già perso, ricacciarono due reggimenti, fecero centinaia di prigioneri e riconquistarono una collina ad est di Monfalcone.
Le battaglie dell'Isonzo sono quintali di pagine epiche di resistenza accannita di pochi contro tanti, di aggrediti contro aggressori, di gente che difendeva le proprie terre e le proprie case, di gente leale contro dei traditori. Questa era la differenza principale. Altrochè "popoli oppressi"... e se qualcuno si sentiva oppresso, mai e poi mai avrebbe accettato di diventare ancora più oppresso dagli italiani, il popolo più retrogrado e più analfabeta d'Europa..

Fonte: Vota Franz Josef

martedì 22 marzo 2016

Samwise Gamgee, il servo e l’amico

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di Isacco Tacconi (Fonte: http://www.radiospada.org/)
 
Ogni personaggio tolkieniano esprime un aspetto particolare dell’animo umano e quantunque l’autore non abbia voluto scientemente comporre un’allegoria, ognuno dei protagonisti è realmente portatore dell’umanità così com’è vista dagli occhi di colui che li ha portati, per così dire, alla vita.
Tra queste sfaccettature che John Ronald Reuel è riuscito, da fine scrittore, a rappresentare non c’è né una a mio avviso così bella, così profonda, così edificante e toccante come quella di Samwise Gamgee.
Figlio di Ham (che significa «prosciutto») Gamgee, un gaffiere di…ma, a proposito, che cos’è un “gaffiere”? La traduzione letterale dell’originale inglese «gaffer» corrisponderebbe al nostro “compare” o “vecchio”. Le versioni italiane del Signore degli Anelli per la maggior parte l’hanno italianizzato in “gaffiere” il che non ha molto senso, eppure questo del tutto originale modo di riferirsi al proprio “vecchio” ha contribuito, per lo meno in Italia, ad alimentare un certo “vocabolario tolkieniano” per cui quando sentiamo la parola “gaffiere” non possiamo far altro che pensare a Tolkien e al suo mondo.
Ma procediamo. Di modeste origini i Gamgee, padre e figlio, sono dipendenti della famosa e benestante famiglia Baggins svolgendo per loro la mansione di giardinieri. Perciò, essendo già il servitore di padron Frodo in quanto operaio, Samwise verrà “esortato”, per così dire, da Gandalf a divenirne anche l’“angelo custode” nonché il suo più fedele compagno di viaggio. Infatti, soltanto l’umile “giardiniere” Gamgee berrà fino in fondo la feccia cui era destinato il suo padrone. Nessuno degli altri membri della Compagnia, elfi, uomini, nani o stregoni che partirono da Granburrone alla volta di Mordor sosterrà il peso che questo piccolo servo nel suo eroico nascondimento condividerà col “Portatore dell’Anello”.
Il personaggio di Sam è limpido, trasparente, semplice e genuino; banale come tutti gli hobbit epperò puro di cuore. Si può cogliere la portata del suo cordoglio per la partenza dell’amato padron Frodo nell’ultimo commiato ai Porti Grigi, solo se si considera che Sam non è esattamente uguale agli altri hobbit della Contea; egli è nostalgico e sognatore come Frodo benché più terragno e pragmatico, anch’egli desideroso di uscire, forse più inconsapevolmente che consciamente, dagli stretti e, bisogna dirlo, ottusi confini della Contea. “«Ho anche sentito dire che gli Elfi fuggono verso ovest. […] Stanno percorrendo centinaia e centinaia di miglia attraverso il Mare, con le vele issate al vento; vanno ad ovest e ci lasciano qui», disse Sam, come se canticchiasse una nenia, scuotendo gravemente il capo triste[1]. Anche Sam, come Tolkien, sente il richiamo delle “terre di là dal mare”, del sacro mistero, del leggendario che attraversa il mondo e che, coll’avanzare del Male, abbandona progressivamente questa Terra di Mezzo “per non tornare mai più[2]. Perciò l’interiore dicotomia del vecchio professore di Oxford che costituisce quasi l’ingrediente segreto che rende la sua opera così fiabesca e al contempo così intimamente aderente ad ogni spirito umano, traspare non solo nel personaggio di Frodo ma anche in Sam che vuole vedere gli Elfi e, contemporaneamente, non vuole lasciare la sua amata Inghilterra, cioè la Contea di Tolkien. E nel leggere le lunghissime e dettagliate, a volte tediose, descrizioni in cui il Libro molto spesso si perde deviando dalla narrazione principale, vien da chiedersi: cos’è che rende una fiaba, un racconto così affascinante e coinvolgente? Cos’è che rende il Signore degli Anelli un’opera così diversa da ogni altro romanzo fantastico? In parte lo abbiamo già visto nell’introduzione a questa serie di saggi, ma mi sembra opportuno ritornarvi sopra ancora un poco. La risposta alla domanda è: la tensione verso l’Assoluto, il desiderio del Paradiso, l’insoddisfazione di vivere in una terra “di mezzo” tanto attraente quanto insufficientemente appagante. «Noi tutti – diceva Tolkien – ne abbiamo nostalgia [dell’Eden], e lo intravediamo costantemente: tutta la nostra natura nella sua forma migliore e meno corrotta, più gentile e più umana, è impregnata della sensazione di “esilio”»[3].
L’umanità dei personaggi che li rende veri, palpabili quasi, a tratti ce li fa sentire nostri intimi amici e compagni in questo nostro viaggio che è la vita umana; un viaggio che ognuno deve compiere, interiormente, da solo verso il proprio (Monte) “Fato”. Eppure molto spesso, le più dolci consolazioni che proviamo in questa valle di lacrime ci vengono proprio da coloro che la Divina Provvidenza ci mette accanto, e con i quali condividiamo un tratto del nostro viaggio, dividendo con loro il pane, le lacrime, le gioie e le fatiche; d’altra parte, “in tre si è in compagnia”. Leggendo il Libro, ci si accorge che il tema dell’amicizia in Tolkien non è banale o stereotipato, né pedantemente moralistico ma è profondamente vero e personale. Tolkien fu un uomo che nell’amicizia ritrovò quei legami che troppo presto gli furono strappati. Bisogna considerare infatti che la sua vita fu drammaticamente segnata dalla morte; prima, ancora bambino, dei genitori e poi, da giovane ufficiale inglese nella Battaglia de la Somme, degli amici più cari. Una carneficina quella della Somme, che in un solo giorno falciò ben cinquantamila uomini. Un inferno che gli strappò tutti i suoi amici con i quali era partito dall’Inghilterra per andare a combattere una guerra che non era la sua, una guerra fratricida, satanica come mai si erano verificate prima nella storia dell’umanità. Quell’esperienza di morte e di desolazione si imprimerà profondamente nell’anima del giovane John come il più efficace e duro esercizio della Buona Morte che un uomo possa affrontare.
Non è un caso che un altro uomo di profonda fede cattolica, Eugenio Corti, scrisse dopo anni dal suo ritorno dalla Seconda Guerra mondiale un Romanzo autobiografico intitolato “Il Cavallo Rosso”. Perciò, quando guardiamo con affetto quasi familiare le foto del Professor Tolkien che si accende soddisfatto la sua pipa, oppure lo vediamo sorridere dolcemente con un’espressione che nulla ha di frivolo, pensiamo per un attimo a quelle immagini. Pensiamo a quelle scene di polvere, fango, paurose esplosioni, avanzate notturne mentre gli ufficiali con i fischietti comandano l’attacco sotto una pioggia invisibile di bombe improvvise come fulmini devastanti. Cadaveri sparsi, brandelli di ragazzi, fumo e fuoco che passando attraverso gli occhi che, come li definì Chesterton, sono le finestre dell’anima, si impressero in quel cuore radicato nei Cieli. La morte ha segnato tutta la vita di Tolkien e la morte è, dunque, il grande tema del Signore degli Anelli. Neppure gli hobbit in tutta la loro provincialità riescono ad evitarla.
Il nostro Samwise che “in inglese antico sta per «sciocco»”[4], rientra in quell’opera di valorizzazione dell’“ignobile” che stava tanto a cuore a John Ronald. Sam cioè rappresenta la nobilitazione del volgare senza cui lo stesso eroismo non avrebbe significato e consistenza. A detta dello stesso Tolkien “Sam è il personaggio più compiuto, il successore di Bilbo del primo libro, il vero hobbit. Frodo non è così interessante, perché deve essere di nobili sentimenti, e ha una vocazione. Il libro probabilmente finirà con Sam[5]. E così sarà. Samwise sarà il custode dell’avventura, proseguirà la missione di conservare la memoria delle cose che furono nel pur ordinario scorrere della vita della Contea “occupandosi del giardino e delle locanda”; Sam al pari di un monaco benedettino dell’anno 1000, nella solitudine, sconosciuta ai più, dell’orto botanico del monastero, contribuisce con il suo umile lavoro unito ai patimenti del Cristo, alla Redenzione del mondo.
Sam si preoccupa di condire i conigli con erbe aromatiche e patate stufate, mentre Frodo deve andare a distruggere il Male del Mondo, l’Unico Anello. È il compagno di viaggio che tutti vorremmo avere, perché con la sua pura ed ingenua positività alleggerisce il peso del dovere e del vivere. Il servitore di Frodo doveva necessariamente essere un hobbit ancora più semplice, se vogliamo più leggero, meno serioso; una creatura non dotta, non interessata alle faccende troppo complicate degli uomini, eppure determinato a non abbandonare il suo padrone in quella che entrambi sanno essere un viaggio senza ritorno. In questa umiltà di cuore di Sam risuona quella parola della Scrittura: “Signore, il mio cuore non è orgoglioso e i miei occhi non sono altezzosi; non aspiro a cose troppo grandi e troppo alte per me” (Sal 131,1). Il suo coraggio è straordinario in tutto il cammino ma a tratti si fa addirittura guerresco quando, per esempio, affronta Shelob, il ragno femmina che vuole divorare il suo padrone: “«Vieni lurida bestia!», urlò. «Hai ferito il mio padrone, bruto, e la pagherai. Noi andremo avanti, ma prima regoleremo i conti con te. Vieni, e assaggia di nuovo questa spada!»[6]. Ma accanto a questo ardore di Sam, il nostro caro nonno inglese ha voluto dedicare dello spazio a un elemento apparentemente secondario: il lembas.
La descrizione che Tolkien fornisce della virtù prodigiosa di questo pan di via elfico è straordinariamente aderente alla dottrina cattolica sulla Santa Eucaristia. Quel nutrimento così poco appetitoso e attraente costituisce il sostegno che consente ai due hobbit di giungere alla fine del loro viaggio. Ma ascoltiamo direttamente le parole del Professore: “Il lembas aveva una virtù senza la quale si sarebbero già da tempo lasciati morire. Non soddisfaceva la gola, ed a volte la mente di Sam si empiva d’immagini di cibo e del desiderio di semplici carni e di pane. Eppure, quel pan di via degli Elfi aveva una potenza che aumentava quando i viaggiatori lo consumavano da solo senza mischiarlo ad altri alimenti. Nutriva la volontà e dava forza per sopportare e controllare membra e nervi in misura superiore a quella posseduta normalmente da una natura mortale”[7]. Se non ci dicessero che questo brano si riferisce al lembas chiunque conoscesse un po’ del Catechismo di San Pio X penserebbe che esso parli dell’Augusto Sacramento dell’Altare. E certamente ad esso pensava Tolkien mentre descriveva questo prodigioso “pan di via” (viatico) che non dà gusto o piacere al palato eppure nutre più del cibo comune; conferisce le grazie per essere padrone delle proprie passioni e inclinazioni disordinate; empie di una virtù, cioè la grazia, senza la quale, dice, ci si lascerebbe morire; aumenta le sue proprietà se consumato a digiuno. E come non pensare al digiuno eucaristico che, all’epoca di Tolkien, veniva preso veramente sul serio tanto che si osservava dalla mezzanotte fino alla Messa del mattino dove si riceveva la Santa Comunione. Non era come propone il Catechismo riformato moderno che consente di fare la Comunione dopo soltanto un’ora di digiuno eucaristico: e che digiuno sarebbe? In un’ora la digestione, se va bene, è a metà del suo corso! Ma proseguiamo.
Che c’entra, direte voi, il lembas con una trattazione su Sam Gamgee? Bè, direi che è un elemento fondamentale che Tolkien ha voluto inserire e descrivere con dovizia di dettagli per sottolineare che non è per la sola buona volontà dei protagonisti, o per un loro eroismo innato dal sapore pelagiano-borghese che essi riescono a portare a termine la loro missione. Anzi, il lembas serve a rivelare ancor più la loro debolezza e la loro incapacità a portare un peso sovrumano che, proprio per questo, richiede un supporto sovrumano: la Grazia. Quell’habitus soprannaturale su cui Tolkien imperniò tutta la sua vita e che distingue così radicalmente la fede e la morale cattolica da qualsiasi altra forma contraffatta di cristianesimo, come l’anglicanesimo di C.S. Lewis per esempio.
Samwise, come Frodo, riesce a coronare l’opera a lui impostagli da Gandalf grazie al sostegno e al nutrimento quotidiano del pan di via e non perché fosse tanto (naturaliter) buono e capace. Lo abbiamo visto, e Tolkien tiene a precisarlo: Samwise è l’ignobile e il volgare che viene elevato e nobilitato, ma la sua dabbenaggine rimane tale. Tolkien per sua stessa ammissione amava le creature ignobili, quelle più semplici e poco attraenti. In questo senso gli hobbit esprimono questa sua predilezione nonché la sua personale identificazione con i deboli, con gli “antieroi”.
Ma ciò che colpisce e rende così amabile in particolare il personaggio di Samwise è la sua devozione, la sua incrollabile speranza, la sua indefettibile fedeltà al suo caro padron Frodo. Lo vediamo circondarlo di gesti di affetto e di consolazione: “Sam gli si avvicinò baciandogli la mano. «Allora quanto prima ce ne liberiamo, tanto prima riposeremo»”. E cercando in se stesso il coraggio e il modo per permettere al suo padrone di non fallire nella sua missione gli dichiara: “Coraggio, signor Frodo! Non posso portare io l’Anello, ma posso trasportare voi ed esso insieme. Alzatevi! Suvvia, signor Frodo, caro! Sam vi porterà in groppa. Ditegli dove deve andare, e lui vi andrà”. Il servitore dimentico di sé si rivela l’amico devoto che darebbe la sua vita, il suo corpo in sacrificio per amore del suo padrone. Considera se stesso quasi una bestia da soma, priva di volontà; ha dato tutto se stesso per il padrone lasciando campi, casa, famiglia e l’amore ancora non sbocciato di Rosie Cotton. E cosa ne ha ricevuto in cambio? fatiche, dolori, ansie e pericoli di morte.
Samwise è un vero Cireneo che porta e sopporta con Frodo le angustie e le sofferenze del Viaggio redentivo verso il Monte; che non solo deve sopportare i dolori e gli smarrimenti propri ma anche quelli del padrone facendoli suoi. L’umile servitore non è un grande guerriero come Boromir, né un abile e nobile elfo come Legolas e neppure di stirpe regale come Aragorn, ma tutto quello che è e possiede lo mette al servizio del padrone; non avendo altro da dare, consegna se stesso.
Eppure, il giardiniere di casa Baggins, avendo sacrificato tutto, ritroverà, in misura scossa e traboccante, tutto. Non tornerà a casa a mani vuote ma sarà proprio lui ad ereditare la casa sotto la collina insieme ai tesori di Bilbo, a significare che “chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi a causa del mio nome, ne riceverà cento volte tanto, ed erediterà la vita eterna” (Mt 19,29). Partito servo, tornerà padrone, umile ritorna ricco erede della famiglia Baggins. Verrà rivestito di gloria dall’invisibile giustizia della Provvidenza che dà ad ognuno il giusto salario, a suo tempo.
L’amico e il servo si fondono in un’unica persona o meglio, in una mezza persona: un mezz’uomo! Un hobbit che per la sua mitezza ha ereditato la terra e che, col suo permanere nella Terra di Mezzo, fa eco alle parole del suo amato padron Frodo il quale, mentre salpavano insieme per terre ignote lasciandosi alle spalle la loro amena ed amata Hobbiville, canticchiava come un viandante nella notte al solo lume di una debole torcia:
 
“La via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la Via è fuggita avanti,
Devo inseguirla ad ogni costo
Rincorrendola con piedi alati
Sin all’incrocio con una più larga
Dove si uniscono piste e sentieri.
E poi dove andrò? Nessuno lo sa”.
[1] Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano 1999, p. 76.
[2] Ibidem.
[3] Dalla lettera del 30 gennaio 1945 a Cristopher Tolkien, in J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Cristopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag. 126.
[4] Dalla lettera del 31 maggio 1944 a Cristopher Tolkien, op. cit., pag. 97.
[5] Lettera del 24 dicembre 1944, op. cit., pag. 122.
[6] Il Signore degli Anelli, cit., p. 879.
[7] Ivi, p. 1117.

lunedì 21 marzo 2016

[AUDIO] L’intervento di Giacobazzi a Traditio: ‘Insorgenza: orizzonte metapolitico’

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La giornata presso TRADITIO (in collaborazione con Radio Spada, Christus Rex e Comitato per la celebrazione delle Pasque Veronesi) è stata un successo di partecipazione e attenzione.
I dirigenti del Circolo sperano di poter distribuire un montaggio audio-video dell’intera giornata. Come anticipazione pubblichiamo l’intervento di Andrea Giacobazzi: “L’insorgenza come orizzonte metapolitico: Tradizione e attualità”.
 


sabato 19 marzo 2016

RISORGIMENTO: LE RADICI DELLA VERGOGNA

 
Il Risorgimento: uno stupro. Un atto violento, arbitrario, malcondotto, che ha generato i mostri che oggi attanagliano il nostro paese. Un atto vergognoso che ha generato vergogna.
Il grido di dolore di un’Italia fatta nascere con la forza. Di un’Italia costruita sull’oblio delle identità e delle tradizioni, contro la sua natura e la sua volontà. Il grido di dolore di una grande nazione “idea universale capace di riunire il mondo”, che si è fatta piccolo stato. Il grido di dolore di un’Italia che vuole risorgere.

L’Italia è una nazione? O è vera la celebre espressione irrisoria del Metternich che la riduceva piuttosto a mera “espressione geografica”?
Il senso del nostro paese è indubbiamente cambiato dopo che, poco più di 150 anni fa, lo si è voluto ad ogni costo far diventare uno stato unitario. È cambiato, ma non come forse ci si aspettava. L’espressione del Metternich a ben guardare è più adatta all’Italia di oggi che non a quella di ieri.
L’Italia dei piccoli stati e delle sue molte capitali primeggiava per cultura, arte, mecenatismo. Era formata da tanti centri vitali, indipendenti, custodi di tradizioni antiche e diversissime tra loro. E poteva essere definita una nazione, quantomeno in virtù di una dimensione culturale e religiosa che le veniva universalmente riconosciuta.
Gli italiani non hanno mai avvertito un orgoglio nazionale inteso in senso politico. Velleità espansionistiche, brama di potere non erano aspirazioni diffuse, perché «l’unica cosa che li interessava era quello che avrebbe potuto dar loro un certo valore agli occhi degli altri, quello che avrebbe conferito loro un significato universale» spiegava il filosofo Vladimir Solovev nella sua opera La giustificazione del bene. E Dostoevskij, riconoscendo all’Italia un ruolo di grande nazione culturale, denunciava come, dopo l’opera unificatrice di Cavour, un «piccolo regno di second’ordine» avesse preso il posto di una grande «idea universale capace di riunire il mondo».
L’Italia unita in effetti ha perso tutto il suo prestigio, senza che peraltro si sia creata una comune identità. L’unificazione politica ha poi generato una serie di divisioni e fratture prima sconosciute. Si è contrapposto il nord al sud, e così si è aperta la mai risolta questione meridionale; con l’attacco alla Chiesa si è diviso il popolo italiano, fino ad allora ancora fortemente e unitamente cattolico; e infine si è perso il rispetto per la cosa pubblica e l’aspirazione a una sua gestione etica. Durante gli anni della forzata unificazione, truffe, corruzioni, inganni, ruberie, estorsioni, delitti parvero anticipare il peggio della futura politica italiana, distaccando per sempre il popolo da un retto sentire della cosa pubblica, da un comune senso di appartenenza, dalla fiducia nello Stato e nelle Istituzioni.
Parlare di Risorgimento non significa dunque parlare semplicemente di un capitolo di storia. Il Risorgimento è attualità, perché le conseguenze di quegli avvenimenti, di quell’unità malcondotta e imposta, le viviamo ancora oggi, sono evidenti nella situazione politica e sociale del paese, pongono tuttora interrogativi e problemi identitari.
Per questo è necessaria una sorta di Psicanalisi dell’Italia, una riflessione attenta sugli eventi del passato, “dell’infanzia” del nuovo stato. Una riflessione che permetta di far emergere i traumi nascosti, dimenticati o fatti dimenticare, le violenze attuate e subite, lo “stupro” che ha portato alla nascita di una creatura malriuscita, per metabolizzarli e superarli, riconducendo la nazione a quella che è la sua naturale vocazione, ovvero alla pluralità e all’autogoverno delle sue tante identità.
Quello che fu detto Risorgimento in realtà non fu che l’espansione territoriale e militare di uno degli stati che componevano la penisola a danno degli altri, ottenuta tra l’altro con l’intromissione determinante di potenze straniere, che poi hanno presentato (e presentano tutt’ora) il conto.
Denis Mack Smith nella sua Storia d’Italia dal 1861 al 1958, definisce il Risorgimento italiano «un succedersi di guerre civili». Il processo di espansione del Regno sabaudo fu una guerra di conquista ratificata da inganni e truffe come quella dei plebisciti, mascherata da una veste filantropica che finì col denigrare secoli di storia italica, e accompagnata da una massiccia propaganda anticattolica che nel cattolicissimo popolo italiano non poté che provocare grave disagio. Il popolo assisteva, indifferente o contrario, agli eventi. Fu poi necessario un lungo lavoro culturale per tentare di «fare gli italiani» dopo avere fatto l’Italia con le armi. E così si è cominciato a infangare tutto il passato preunitario, iniziando dalla grande bugia del “grido di dolore”, per arrivare a una vera sistematica propaganda calunniosa degli antichi Stati, dei Sovrani e dell’Austria. «Bisogna perlomeno ottenere il risultato che l’Austria sia detestata da tutti. Un giorno o l’altro questo odio universale porterà i suoi frutti», scriveva Cavour in una lettera a D’Azeglio.
In realtà i popoli italici prima dell’unità non gridavano per il dolore, né gemevano sotto tirannidi. Gli stati preunitari erano relativamente prosperi, le loro monete circolavano ovunque, i dialetti erano le lingue commerciali del Mediterraneo, le antiche capitali erano fucine d’arte, musica e letteratura. Fu invece dopo l’unificazione che l’Italia conobbe il deficit economico, l’impennata delle imposte, l’emigrazione. Nel 1866 il ministro delle Finanze Antonio Scialoja fu costretto a proclamare il corso forzoso della moneta italiana, cioè la sua indegnità a essere convertita in oro. La qualità della vita del popolo negli anni successivi all’unità crollò miseramente, e la gente si ribellò: la vera partecipazione popolare, sotto forma di manifestazioni, proteste e insurrezioni, si ebbe dopo, come opposizione all’invasore.
I Savoia non hanno fatto l’Italia: hanno cancellato quello che di buono c’era, hanno soffocato le mille peculiarità, le autonomie, le ricchezze della penisola. In senso culturale sacrificando tradizioni, usi e costumi, omologando tutto in un mediocre livellamento verso il basso; in senso materiale imponendo la loro legislazione, le loro tasse, i loro debiti: cosa che ha provocato miseria, malcontento, brigantaggio, emigrazione…
La vergogna di essere italiani nasce con lo Stato Italia, dal modo in cui è stato creato, dai falsi eroi che ci sono stati imposti come modelli. L’unità forzata è stata condotta da uomini – poi celebrati come grandi eroi e padri della patria – che per raggiungere lo scopo non hanno esitato a lordare le loro biografie d’ogni sorta di malaffare.
Filippo Curletti, agente segreto di Cavour, già nel 1861, prevedeva questi esiti: «Io non avevo scorto da nessuna parte quell’entusiasmo per l’unità italiana che, imbevuto dalle illusioni piemontesi io mi era atteso di vedere manifestarsi ovunque. Dappertutto il Piemonte era guardato come uno straniero e come un conquistatore», ammetteva, per poi riflettere amareggiato che «l’unità di una nazione non si crea. Bisogna aspettare che nasca alla sua ora. Allora solamente sarà forte e durevole».
Evidentemente non era la sua ora. Molto è andato perso. Poco di buono è stato guadagnato. Non sono stati raggiunti nemmeno quegli obiettivi minimi che erano stati sbandierati come irrinunciabili. L’Indipendenza, ad esempio, è stata ottenuta solo nelle parole roboanti e nei proclami retorici della cricca risorgimentalista; in realtà si è demonizzato uno “straniero” per poi accoglierne servilmente altri, più arroganti e invadenti. E la libertà è solo una finzione, perché, come scrisse Alianello, «la libertà che s’impone con le baionette non è più dessa».
Le bugie e le false promesse hanno lasciato un vuoto. Vuoto che ha fatto appunto dell’Italia più che una nazione, una mera espressione geografica.
 
Elena Bianchini Braglia

giovedì 17 marzo 2016

Il legittimismo e le lingue regionali: difendiamole!

Usare la propria lingua madre è un diritto! L'insegnamento e il libero uso delle  lingue locali (regionali) della Penisola Italiana è un diritto tanto quanto lo è l'insegnamento della lingua italiana! Ogni popolo della Penisola deve essere consapevole delle sue vere radici e, con esse, della sua lingua madre! Le lingue locali sono una componente coesiva essenziale (con la Religione Cattolica) che, come da Tradizione, lega le comunità!

Difendiamole e utilizziamole con orgoglio!





17 marzo 2016: l'occupazione dei Popoli d'Italia continua.


martedì 15 marzo 2016

"Gli alpini facevano parte di un esercito invasore. Nel 2018 niente da festeggiare"

La consigliera provinciale Manuela Bottamedi attacca le penne nere: "Ci hanno occupati contro la nostra volontà"

La consigliera provinciale Manuela...TRENTO. La consigliera provinciale del Patt attacca duramente gli alpini il giorno dopo l'assemblea delle penne nere trentine e dopo le rassicurazioni del sindaco Alessandro Andreatta e dell'assessore provinciale Tiziano Mellarini sul fatto che nel 2018 l'adunata nazionale si terrà proprio a Trento.
Alla Bottamedi i toni non devono essere piaciuti e per questo ha scritto su Facebook un post durissimo dal titolo chiaro e a caratteri cubitali: "RISPETTO PER LA STORIA". La consigliera poi ha aggiunto alcune considerazioni molto dure in cui definisce gli alpini membri di un esercito invasore: "Rispetto gli alpini ma rispetto anche la Storia: mi risulta che nel 1918 sia terminata una guerra
sanguinosa in cui gli alpini erano parte di un esercito che ci ha occupati contro la nostra volontà. Nel 2018 cosa c'è da festeggiare, commemorare, celebrare?? 650.000 morti inutili?? 650.000 ragazzi mandati al macello dai Savoia per occupare dei territori che non volevano essere italiani".


Fonte: http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/trento/cronaca/2016/03/14/news/gli-alpiini-facevano-parte-di-un-esercito-invasore-nel-2018-niente-da-festeggiare-1.13125760

Fede, scienza e falsi miti della cosmologia contemporanea (seconda parte)

Fonte: http://www.radiospada.org/

Da: “Fede, scienza e falsi miti della cosmologia contemporanea – “Cristianità”, anno XXI, n. 224, dicembre 1993”, grassettature nostre.
Contemporaneamente rimadiamo – su un tema che affianca ineludibilmente questi argomenti – al libro DIO accessibile a tutti. Prova della sua esistenza che racchiude tutte le altre, da quella del moto locale fino a quella dei frutti della santità. IL PIÙ NON VIENE DAL MENO, di R. Garrigou-Lagrange [RS]

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[SECONDA PARTE] La prima parte qui: Fede, scienza e falsi miti della cosmologia contemporanea (prima parte)
di Luciano Benassi
  1. Gli idoli della “nuova fisica”: il nulla, il caso, il “caos” 
Nei due capitoli successivi lo studioso benedettino introduce il lettore alle questioni implicate dalla meccanica quantistica, la branca della fisica che ha come oggetto la dinamica dei sistemi atomici e subatomici e che, per questo, comporta una riflessione sulla struttura intima del mondo materiale, sulla nozione di causalità e, in ultima istanza, sulla relazione fra l’apparente determinismo che governa l’universo e la libertà della mente umana. La critica che l’autore svolge nel quinto capitolo, Tartarughe e tunnels (42), riguarda, in particolare, l’interpretazione antirealista del principio di indeterminazione, il caposaldo concettuale di tutta la meccanica quantistica. Formulato nel 1927 dal fisico tedesco Werner Heisenberg, il principio di indeterminazione stabilisce l’impossibilità, a livello quantistico, di misurare con qualsivoglia precisione coppie di grandezze fisiche complementari come la posizione e la velocità oppure l’energia e il tempo. È da notare che non si tratta dell’imprecisione o indeterminazione, inevitabile, dovuta allo strumento di misura: il principio intende sancire un’indeterminazione intrinseca al mondo subatomico, una specie di “soglia”, che divide il mondo osservabile da un mondo dove sono possibili anche comportamenti non fisici.
La critica che dom Stanley L. Jaki muove alla meccanica quantistica non mette in discussione gli innegabili successi operativi della teoria, quanto piuttosto le interpretazioni che uomini di scienza e di filosofia hanno dato del quadro concettuale da essa implicato. L’interpretazione ancor oggi dominante risale alle riflessioni prodotte, sul finire degli anni 1920, dalla Scuola di Copenaghen, il circolo scientifico raccoltosi intorno al fisico danese Niels Bohr, che per primo formulò un modello dell’atomo – per molti versi definitivo – fondato proprio sui princìpi quantistici. Secondo la Scuola di Copenaghen il fattore quantico rende priva di senso ogni domanda sulla realtà del mondo atomico e subatomico, mentre il principio di indeterminazione sancirebbe, almeno a quel livello, l’inapplicabilità di ogni rapporto causale. Il misconoscimento del “[…] fatto importantissimo che la teoria fisica non riguarda l’”essere” di per sé, ovvero l’ontologia, ma solo gli aspetti quantitativi delle cose che esistono già (43) è – secondo dom Stanley L. Jaki – all’origine della radicalità antimetafisica dell’interpretazione della Scuola di Copenaghen e delle sue aberranti conseguenze, anche in campo cosmologico. Infatti, una volta ammesso che “[…] la causalità di un processo fisico dipende dalla sua esatta misurabilità” (44), ovvero che “[…] l’incapacità dei fisici di misurare la natura con esattezza […] [dimostra] che la natura […] [è] incapace di agire con esattezza” (45), è stato possibile nascondere dentro il cappello a cilindro dell’indeterminazione tutto quanto la fisica non è in grado di spiegare. A questo proposito dom Stanley L. Jaki attira l’attenzione sull’importanza che la nozione di nulla ha assunto nella teoria quantistica: dal nulla quantistico possono infatti apparire materia, energia e perfino lo stesso universo, anzi infiniti universi. L’esito di un simile modo di pensare è, naturalmente, la fantascienza, come suggerisce lo studioso benedettino commentando una sentenza divenuta celebre negli ambienti della cosmologia scientifica, e cioè che “l’universo in definitiva potrebbe essere un pasto gratis (46): quasi a dire che l’apparizione dell’universo non è poi un fatto così singolare come si potrebbe credere. L’affermazione è del noto cosmologo statunitense Alan H. Guth, autore della teoria inflazionaria dell’universo, il quale, molto coerentemente, sostiene pure che, per quel che ne sappiamo, “il nostro universo potrebbe essere stato creato nello scantinato di uno scienziato di un altro universo” (47). Queste farneticazioni, soprattutto quando provengono da scienziati di grido, sono avvertite non come tali, ma come un’espressione dell’”umiltà” con cui la scienza, nel corso degli ultimi secoli, avrebbe rivelato agli uomini la marginalità della terra nell’universo. Secondo questa prospettiva, che trasforma inopinatamente la reale marginalità cosmica della terra in una marginalità assoluta, neppure l’universo può godere di uno statuto particolare e pertanto deve essere considerato un incidente del “caso“. Si tratta, con ogni evidenza – osserva dom Stanley L. Jaki -, di una “[…]farsesca dimostrazione di umiltà” (48), che nasconde il “[…] disprezzo per la capacità dell’uomo di dedurre dalla natura il Dio della natura” (49).
Nel sesto capitolo, Dadi truccati (50), l’autore sembra invitare il lettore a una sana cautela anche verso il dibattito aperto dall’irruzione dei concetti di caso e di caos nella fisica contemporanea. Si tratta di un dibattito che i mass media orientano costantemente in senso antirealista, attribuendo al caso e al caos possibilità ordinatrici e sorvolando sul fatto che “un caos non può mai essere un tutto, ovvero una coordinazione delle parti, senza con questo cessare di essere un caos degno di questo nome” (51). L’opera Order out of Chaos. Man’s New Dialogue with Nature, “Ordine dal caos. Nuovo dialogo dell’uomo con la natura” (52), di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, è – secondo dom Stanley L. Jaki – un esempio rivelatore delle contraddizioni e delle difficoltà in cui si dibattono i sostenitori del caso: infatti, l’indeterminazione radicale [che] avvolge tutto in quel libro” (53) non solo non offre una risposta su cosa sia il caso, anche solo come formalismo matematico, ma finisce per coinvolgere anche la nozione stessa di Dio. Quindi non stupisce la conclusione del monaco benedettino, secondo cui “[…] non è il Creatore della Bibbia ma quello del Talmud che Prigogine e Stengers trovano congeniale al loro pensiero. Quel “creatore” non dice che tutto è andato molto bene, ma semplicemente: “Speriamo che funzioni”. E ciò che è peggio, lo dice solo dopo che ha fatto due dozzine di tentativi e di sbagli per creare un universo” (54).
  1. Dalla terra al cosmo
Con il settimo capitolo, La fortuna della terra (55), si apre idealmente la seconda parte di Dio e i cosmologi. Dopo la critica circostanziata svolta nei capitoli precedenti, dom Stanley L. Jaki guida il lettore alla ricerca degli elementi sui quali è possibile fondare una cosmologia scientifica, che sia autentica scienza del cosmo e non occasione di esercitazioni filosofiche di basso profilo. Per questa impresa egli parte dalla terra e dalle sue immediate vicinanze cosmiche: solamente da qui, infatti, gli uomini possono occuparsi di cosmologia e, a partire da qui, cioè dalla terra, dalla luna e dal sistema solare, possono riscoprire quelle caratteristiche di specificità il cui riconoscimento è la condizione necessaria per lo sviluppo della scienza. La “fortuna“, che costituisce il motivo conduttore del capitolo, è appunto la serie dei segni, naturali e storici, imprevedibili e inaspettati, attraverso i quali la scienza è giunta a vedere la luce nel Medioevo cristiano, dopo innumerevoli brancolamenti nel buio.
Secondo lo studioso benedettino, il primo caso di fortuna è quello di Eratostene di Cirene, che misurò con notevole precisione la circonferenza della terra grazie a una serie impressionante di circostanze geografico-astronomiche estremamente particolari: infatti, “[…] non fu possibile dare inizio proficuamente alla comprensione scientifica dell’universo finché la terra non fu letteralmente misurata più di duemila anni fa” (56). Tuttavia, prosegue dom Stanley L. Jaki, le felici circostanze che permisero a Eratostene di elaborare il suo metodo, non sarebbero state sufficienti a far sì che la cosmologia si avviasse a diventare una scienza della natura “[…] se la terra non fosse stata accompagnata dalla luna, che merita di essere definita come la più grande fortuna della terra” (57).
Fortunata è anzitutto l’identità fra le dimensioni apparenti del sole e della luna, che consentì ad Aristarco di Samo, nel 150 a.C., di ricavare le dimensioni della luna, del sole e le distanze terra-luna e terra-sole in unità del raggio terrestre (58). Ma il punto in cui il sistema terra-luna rivela tutta la sua misteriosa specificità, con conseguenze inaspettate anche per la comprensione del sistema solare, riguarda l’origine stessa del nostro satellite. Fino alla metà degli anni 1970 le teorie più accreditate sulla formazione della luna erano varianti di quella proposta da Pierre Simon de Laplace, verso la fine del Settecento, a proposito della formazione del sistema solare, nota come ipotesi della nebulosa e i cui “[…] aspetti più discutibili […] sono rimasti parte integrante della prospettiva scientifica” (59). Debole dal punto di vista scientifico, essa resistette al tempo solo a causa del suo retroterra ideologico, di cui è testimonianza la celebre risposta che lo scienziato francese dette a Napoleone Bonaparte, incuriosito dal fatto che Dio non era nominato in una teoria sull’origine del mondo: “Sire, non ho bisogno di questa ipotesi“. Ma, “di fatto se c’è un aspetto del sistema solare che non si spiega tramite la teoria di Laplace, o tramite i suoi rimaneggiamenti successivi, è il sistema terra-luna” (60), che presenta vistose anomalie rispetto agli altri sistemi satellitari, soprattutto in termini di dimensioni e di rapporti di massa. Ora, secondo lo studioso benedettino, proprio questa diversità infligge un colpo mortale non solo alle teorie derivate dall’ipotesi laplaciana della nebulosa, ma anche al suo principale retaggio, ovvero “[…] alla spiegazione del nostro sistema solare come un fatto tipico che si presenterebbe in ogni cantuccio dell’universo. Naturalmente – osserva l’autore – potrebbe essere proprio così, ma tutte le prove offerte dalla teoria e dall’osservazione negli ultimi cent’anni indicano il contrario” (61). Tuttavia, se anche “[…] in questa situazione sconcertante fu chiaramente delimitata la direzione da seguire, ciò è collegato con l’origine della luna” (62), spiegata però mediante una teoria non riconducibile a nessuna ascendenza laplaciana, la teoria del megaimpatto, secondo cui la luna sarebbe stata originata da una gigantesca collisione fra la terra e un corpo celeste con una massa di circa un decimo di quella terrestre (63). Ciò su cui l’autore richiama l’attenzione sono le numerose condizioni che devono essere soddisfatte simultaneamente affinché l’intero processo abbia luogo: se, da un lato, la teoria della collisione gigantesca “funziona” come spiegazione della formazione lunare, dall’altro essa suggerisce pure che un simile fenomeno è estremamente improbabile e che, a maggior ragione, è estremamente improbabile anche la formazione di un intero sistema planetario. Se ne deduce- afferma lo studioso benedettino – che è “essenzialmente aprioristica” la “[…] convinzione […] che i sistemi planetari debbano essere un aspetto onnipresente in tutto l’universo (64).
Molte altre sono le coincidenze fortunate, elencate dall’autore, che fanno della terra un punto di osservazione privilegiato: tutto ciò – secondo dom Stanley L. Jaki – non è più soltanto una conferma dell’unicità del “fenomeno terra” dal punto di vista astronomico, ma lo è anche da quello biologico: e, a fare le spese di questa unicità, è il mito dell’evoluzione darwiniana, ovvero l’idea di un processo generalizzato e costante che pervaderebbe tutto l’universo e “[…] che ha necessariamente come risultato degli esseri intelligenti” (65). A questo proposito, egli osserva che la prospettiva scientifica moderna è a tal punto asservita al dogma culturale dell’evoluzione da assecondarne anche gli sviluppi più fantasiosi. Solo così, infatti, si possono spiegare i novanta milioni di dollari destinati dal Congresso degli Stati Uniti d’America, sul finire degli anni 1980, per finanziare un ambizioso progetto di “ascolto” di emissioni radio intelligenti provenienti dallo spazio (66). Le critiche, peraltro assai tiepide, che vengono mosse contro tali progetti e, in generale, contro l’idea del contatto con intelligenze extra-terrestri, secondo l’autore raramente colgono il cuore della questione, che è costituito, invece, dal significato stesso del comunicare. Infatti, “all’interno di una prospettiva genuinamente darwinista non ci sono i fondamenti per presumere che degli extra-terrestri […] possano comunicare, se non con i loro consanguinei. Di fatto, all’interno di questa prospettiva non ci sono i fondamenti per presupporre che svilupperebbero strumenti scientifici che, per come li conosciamo noi, sono intrinsecamente collegati con il nostro modo di concettualizzare e verbalizzare le nostre percezioni del mondo esterno” (67). D’altra parte – conclude l’autore – non vi sono neppure i presupposti per immaginare che lo stesso sviluppo scientifico sia un esito inevitabile dell’evoluzione tanto della specie umana quanto delle presunte civiltà extra-terrestri, come invece postula un altro mito di matrice darwiniana. Al contrario, l’unico sviluppo scientifico osservabile, cioè quello avvenuto presso la specie umana, è a tal punto costellato di coincidenze, di casualità e di “fortuna“, che parlare di una sua inevitabilità sarebbe quanto mai temerario.
Ma ciò che rende assolutamente inaccettabile questa tesi evoluzionista è, secondo l’autore, la constatazione che la scienza, anche prescindendo dalle “fortune” di cui si è detto, non sarebbe stata possibile senza la conversione di un’intera cultura alla religione cristiana, cioè alla fede in un Dio personale, creatore di tutte le cose “dal nulla[…] [e] nel corso del tempo” (68), come avvenuto nei secoli della Cristianità medioevale. Infatti, il cristianesimo, introducendo la distinzione fra “il soprannaturale ed il naturale” (69) in luogo della distinzione fra “le regioni celesti e quelle terrestri” (70), propria di tutti i paganesimi, “[…] permise […] di considerare le regioni celesti allo stesso livello del resto, e quindi governate dalle stesse leggi” (71). È questa fede “la più grande fortuna della scienza” (72), ed essendo fondata in “[…] Cristo, come unico Figlio generato in cui il Padre creò tutto” (73), cioè “[…] su un evento che certamente si qualifica come l’esatto contrario dell’inevitabilità” (74), essa non solo si oppone a ogni ipotesi evoluzionista, ma rende anche conto dello “[…] sviluppo del tutto inaspettato, per cui un sottoprodotto che si potrebbe presumere accidentale di cieche forze materiali ha una mente che gli permette di avere la padronanza intellettuale del cosmo” (75).
   7. Dal cosmo a Dio
Nell’ultimo capitolo del volume, Cosmo e culto (76), dom Stanley L. Jaki porta a conclusione la riflessione sull’intimo legame esistente fra la cosmologia scientifica e la fede nel Creatore, messo in evidenza nel capitolo precedente. “Che il riconoscimento di una totalità rigorosa e coerente di tutte le cose, ovvero dell’universo, spinga logicamente verso un culto” nei confronti del Creatore è “una storia con molte pagine rivelatrici” (77). Infatti, se “[…] uno dei due culti che l’universo può ispirare” (78) è il panteismo, in cui è l’universo stesso ad assumere connotazioni divine; l’altro, “[…] che adora il Creatore dell’universo, forma la base di tutte le religioni monoteistiche, ma con differenze considerevoli: tutte professano di essere le destinatarie di una rivelazione particolare riguardo al coinvolgimento diretto di Dio nella storia dell’uomo; tutte hanno la loro storia particolare della salvezza, da cui derivano la loro forza principale e la loro occasionale e, in alcuni casi, sistematica illusione; sono invece notevolmente differenti nella specificazione della misura in cui una visione dell’universo puramente razionale può essere una fonte per il riconoscimento dell’esistenza del Creatore e quindi una parte integrante di un culto monoteistico” (79). L’osservazione appare assai evidente se si considera l’accoglienza che l’argomento cosmologico ha ricevuto nelle diverse culture religiose monoteistiche. Secondo l’autore, “il solo luogo all’interno della cristianità in cui il culto del Creatore basato sull’argomento cosmologico è stato sistematicamente evidenziato è la Chiesa Cattolica Romana (80). Naturalmente “questo non vuol suggerire che molti teologi e filosofi della Chiesa Cattolica Romana non siano stati influenzati dalle onde sempre ricorrenti di “intuizionismo” o di qualcosa di anche peggiore” (81), ma si può affermare che la solenne dichiarazione del Concilio Vaticano I “[…] sulla certezza grazie alla quale la ragione può riconoscere l’esistenza del Creatore dall’evidenza del cosmo (82) continua a essere un insegnamento ufficiale del Magistero.
Tuttavia l’argomento cosmologico, secondo lo studioso benedettino, non costituisce solo la via più affidabile per la riconquista della nozione di Dio creatore, ma rappresenta anche un sano “allenamento mentale” (83), un’occasione per ricostituire la fiducia nell’intelletto e il bisogno di certezza, che la moderna cultura dell’assurdo si compiace di distruggere: infatti, il bagno di realismo e di concretezza cui obbliga la semplice constatazione della specificità delle cose consente all’uomo (84) di sperimentare “[…] qualcosa di molto diverso da quel salto nel buio che tentano dolorosamente coloro che non hanno mai veramente sentito l’universo, e a volte nemmeno le semplici cose comuni, sotto i loro piedi. Il movimento verso Dio, per essere sicuro, non deve essere una separazione dall’universo. Il movimento consiste piuttosto nell’avvertire la pulsazione della contingenza cosmica, il fatto che l’universo indica implacabilmente qualcosa al di là di se stesso” (85). Tale, del resto – ricorda dom Stanley L. Jaki -, è l’esperienza di conversione che sant’Agostino riporta nel decimo libro delle Confessioni: “[…]ho chiesto del mio Dio a tutta la massa dell’universo, e mi ha risposto: “Io non sono Dio. Dio è colui che mi ha fatto” (86).
***
(42) Cfr. ibid., pp. 113-140.
(43) Ibid., p. 120.
(44) Ibid., p. 121.
(45) Ibidem.
(46) Ibid., p. 137.
(47) Ibidem.
(48) Ibid., p. 140.
(49) Ibidem.
(50) Cfr. ibid., pp. 141-167.
(51) Ibid., p. 163.
(52) Cfr. Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, Order out of Chaos. Man’s New Dialogue with Nature, New Science Library, Boulder 1984; cfr. anche Iidem, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, nuova ed., Einaudi, Torino 1993.
(53) Dom S. L. Jaki O.S.B., Dio e i cosmologi, cit., p. 165.
(54) Ibidem.
(55) Cfr. ibid., pp. 169-196.
(56) Ibid., p. 170.
(57) Ibid., p. 174.
(58) Cfr. ibid., p. 175.
(59) Ibid., p. 176.
(60) Ibidem.
(61) Ibid., p. 178.
(62) Ibid., p. 179.
(63) Cfr. ibid., pp. 179-180.
(64) Ibid., p. 181.
(65) Ibid., p. 184.
(66) Cfr. ibidem.
(67) Ibid., p. 186.
(68) Ibid., p. 194.
(69) Ibidem.
(68) Ibidem.
(71) Ibidem
(72) Ibidem.
(73) Ibid., p. 195.
(74) Ibid., p. 196.
(75) Ibidem.
(76) Cfr. ibid., pp. 197-223.
(77) Ibid., p. 197.
(78) Ibid., p. 201.
(79) Ibidem.
(80) Ibid., p. 202.
(81) Ibidem.
(82) Ibidem.
(83) Ibid., p. 207.
(84) Cfr. ibid., p. 208.
(85) Ibidem.
(86) Ibidem.

Fede, scienza e falsi miti della cosmologia contemporanea (prima parte)

 
Da: “Fede, scienza e falsi miti della cosmologia contemporanea – “Cristianità”, anno XXI, n. 224, dicembre 1993”, grassettature nostre.
Dopo l’articolo di ieri Fede e ragione fra scienza e scientismo. Intervista ad uno scienziato benedettino proseguimano con questo secondo testo, ugualmente interessante.
Contemporaneamente rimadiamo – su un tema che affianca ineludibilmente questi argomenti – al libro DIO accessibile a tutti. Prova della sua esistenza che racchiude tutte le altre, da quella del moto locale fino a quella dei frutti della santità. IL PIÙ NON VIENE DAL MENO, di R. Garrigou-Lagrange [RS]
 
scientsimidol
Un approccio teologico alla storia della scienza che rovescia luoghi comuni e “leggende”, come quella secondo cui il Medioevo cristiano fu un’epoca di oscurantismo e di superstizione. Nell’opera di un autorevole storico della scienza.
[PRIMA PARTE]
di Luciano Benassi
Gli studi sulla “nuova religiosità” hanno contribuito in modo rilevante a svelare il carattere profondamente ambiguo della modernità. In particolare, hanno mostrato come modernità scientifico-positivista e credenze mitiche non siano affatto, come comunemente si crede, due mondi fra loro irriducibili, ma piuttosto due facce della stessa medaglia, fra le quali si dipana una fitta rete di rapporti psicologici, storici e sociologici (1). È interessante osservare come questi studi, nati dall’esigenza di comprendere le tendenze religiose della nostra epoca, trovino un’ulteriore conferma in quelli più seriamente attenti a cogliere, per parte loro, le tendenze del pensiero scientifico contemporaneo. È quanto appare, felicemente, nell’opera di uno dei maggiori storici della scienza viventi, il monaco benedettino Stanley L. Jaki, e, in particolare, nello studio Dio e i cosmologi (2), in cui l’analisi delle scoperte più recenti nel campo della cosmologia è occasione per una riflessione sul rapporto fra il significato dell’impresa scientifica e la nozione di Dio nel contesto culturale in cui essa si svolge.
I. L’autore
Stanley L. Jaki nasce a Györ, nell’Ungheria nord-occidentale, il 17 agosto 1924. Terminate le scuole superiori, a diciotto anni entra nell’ordine benedettino e il 13 maggio 1944 fa la professione religiosa. Dopo aver completato gli studi universitari in filosofia, teologia e matematica, nel 1947 è a Roma per conseguire la tesi di laurea in teologia presso il Pontificio Istituto Sant’Anselmo; e qui, nel 1950, riceve il dottorato. Intanto il 29 giugno 1948 era stato ordinato sacerdote. Nel 1951 è negli Stati Uniti d’America – di cui prenderà la nazionalità – per insegnare teologia sistematica e contemporaneamente seguire corsi di storia americana, letteratura, matematica e scienze allo scopo di ottenere il riconoscimento degli studi universitari compiuti in Ungheria. Negli Stati Uniti d’America consegue prima la laurea in Scienze e poi, nel 1957, il dottorato in Fisica, con una tesi condotta sotto la direzione di Victor F. Hess, lo scopritore dei raggi cosmici, premio Nobel per la fisica nel 1936.
Da quel momento i suoi interessi si spostano decisamente verso la storia e la filosofia della scienza, che diventeranno il campo principale della sua multiforme attività intellettuale e della sua abbondante produzione scientifica. Gli anni dal 1958 al 1960 lo vedono ricercatore di storia e filosofia della fisica presso le università di Stanford e di Berkeley, mentre nel biennio successivo è Visiting Fellow all’università di Princeton per un programma di ricerca nella stessa disciplina. Nel 1965 diviene docente alla Seton Hall University, nel New Jersey, di cui è attualmente professore emerito. Negli anni 1975 e 1976 è chiamato come professore all’università di Edimburgo nell’ambito delle prestigiose Gifford Lectures, un ciclo di conferenze che dal 1887, per volontà di Lord Adam Gifford, si svolge nelle quattro università scozzesi con lo scopo di promuovere lo studio della teologia naturale. Nel 1977 svolge lo stesso incarico presso il Balliol College di Oxford, nell’ambito delle Fremantle Lectures.
Associato a numerosi sodalizi scientifici e culturali è, fra l’altro, membro onorario della Pontificia Accademia delle Scienze e, dal 1986, membro corrispondente dell’Académie Nationale des Sciences, Belles-Lettres et Arts di Bordeaux. Nel 1987 è stato insignito del premio Templeton.
Da oltre trent’anni l’opera dello storico della scienza dom Stanley L. Jaki O.S.B. si caratterizza per due elementi originali e decisivi: da un lato il senso profondo dell’unità della conoscenza e, dall’altro, un altrettanto profondo sentimento dell’oggettività del reale. Si tratta di due atteggiamenti che hanno portato lo studioso benedettino a pensare il cammino della scienza e quello verso Dio come un unico percorso intellettuale. In aperta polemica con la cultura dominante, che considera scienza e fede come due termini irriducibili e contrapposti, tutta la sua opera è volta ad affermare la connessione esistente fra conoscenza scientifica e conoscenza di Dio, una connessione a tal punto intima e stretta da giustificare la conclusione secondo cui la scienza è nata e si è sviluppata, dopo secoli di tentativi regolarmente abortiti – si pensi alle antiche civiltà cinese, indiana e greca -, solo all’interno di una cultura permeata dalla convinzione che la mente umana sia capace di cogliere, nelle cose e nelle persone, un segno del loro creatore. Si tratta di un approccio teologico alla storia della scienza che rovescia molti luoghi comuni e molte leggende, come quella che considera il Medioevo cristiano un’epoca di oscurantismo e di superstizione. Nell’opera di dom Stanley L. Jaki, infatti, i secoli della Cristianità medioevale sono quelli in cui l’inculturazione della fede in un Dio personale, trascendente, razionale e creatore di tutte le cose, ha posto le condizioni per lo sviluppo dell’indagine scientifica della natura.
Questo approccio teologico alla storia della scienza è usato da dom Stanley L. Jaki per esaminare lo stato della scienza anche in tempi più vicini a noi; e particolarmente alla fisica del nostro secolo egli rivolge le critiche più stringenti, denunciandone i presupposti idealistici e la sostanziale rinuncia a un genuino sforzo conoscitivo. In questo ambito la sua attività di polemista e di conferenziere costituisce una puntuale e documentata opera di risposta a quell’abbondante pubblicistica scientifico-divulgativa che, dai mass media, si riversa sul grande pubblico accreditando l’idea di una “scienza totale”, in grado di spiegare non solo il come dei fenomeni, ma anche il perché dell’esistenza di tutto, della materia e dello spirito.
Fra le opere più significative di dom Stanley L. Jaki, autore di oltre trenta volumi e di più di settanta articoli, si possono ricordare The Relevance of Physics, “La portata della fisica” (3), Brain, Mind and Computers, “Cervello, mente e calcolatori” (4), che gli è valso il premio Le Comte du Noüy nel 1970, Science and Creation: from Eternal Cycles to an Oscillating Universe, “Scienza e creazione: dai cicli eterni a un universo oscillante” (5), The Road of Science and the Ways to God, “La strada della scienza e le vie verso Dio” (6), che raccoglie il ciclo delle Gifford Lectures tenute dall’autore, Cosmos and Creator, “Cosmo e creatore” (7), Angels, Apes and Men, “Angeli, scimmie e uomini” (8), Uneasy Genius: the Life and Work of Pierre Duhem, “Un genio scomodo: la vita e l’opera di Pierre Duhem” (9), Chesterton: a Seer of Science, “Chesterton: un profeta della scienza” (10),Chance or Reality and Other Essays, “Caso o realtà e altri saggi” (11), e The Savior of Science, “Il Salvatore della scienza” (12).
II. “Dio e i cosmologi”
Dio e i cosmologi è una delle poche opere di dom Stanley L. Jaki pubblicata in lingua italiana e raccoglie, in forma ampliata, il ciclo di otto conferenze da lui svolte al Corpus Christi College di Oxford sul finire degli anni Ottanta. Il volume costituisce un felice tentativo di restituire dignità al dibattito cosmologico, offrendo al lettore la possibilità di accostare in modo serio una tematica la cui oggettiva difficoltà, sia scientifica che filosofica, è resa più acuta dall’apparire di volgarizzazioni e di banalizzazioni, soprattutto della cosmologia scientifica. Infatti, come lo stesso autore sostiene nell’Introduzione (13), il grado di certezza oggi raggiunto da questa disciplina può essere di grande aiuto per impostare correttamente la riflessione sullo statuto metafisico dell’universo e con ciò contribuire alla riconquista della nozione di Dio creatore, che è alla base di ogni approccio religioso al reale.
  1. Veri e presunti nemici della scienza
Nel primo capitolo, L’universo riconquistato (14), dom Stanley L. Jaki descrive il travaglio culturale che portò, nel volgere dei trecento anni dalla fine del Cinquecento all’inizio del secolo XX, all’identificazione dell’universo come oggetto d’indagine scientifica. Che si sia trattato di un travaglio e non di una nascita improvvisa è prova il fatto che solo dal 1917, con la pubblicazione da parte di Albert Einstein di un saggio sulle conseguenze cosmologiche della sua teoria della relatività generale, si può parlare dell’universo come di un oggetto indagabile scientificamente. Al contrario, nei tre secoli che vanno dalle prime osservazioni celesti con il telescopio fino ai primi anni del Novecento, la nozione scientifica di universo ha più volte rischiato di abortire e certo non per colpa dell’oscurantismo clericale. Secondo lo studioso benedettino, a costituire una minaccia per la nascita scientifica dell’universo furono l’idea della sua infinità e, conseguentemente, della sua eternità, ciò che lo avrebbe sottratto a ogni possibile “misura” scientifica in quanto privo di limite e di durata, le due qualità indispensabili perché la scienza possa operare secondo il proprio statuto gnoseologico.
Il “partito” dell’infinità cosmica, poco numeroso nel corso del secolo XVIII, era tuttavia fortemente caratterizzato: “Ben pochi intorno al 1700, o anche più tardi, proposero un universo infinito, e solo uno scienziato o cosmologo tra di loro: Edmund Halley, noto per il suo ateismo e per la sua involuta difesa di un universo infinito e omogeneo. Coloro che appoggiarono l’idea di un universo infinito, filosofi per la maggior parte, quasi invariabilmente vi videro una comoda scusa per fare a meno di un Dio veramente trascendente” (15). E si tratta di Giordano Bruno e Jacob Boehme con il loro panteismo cosmico, di Baruch Spinoza, degli illuministi tedeschi, di Immanuel Kant e degli idealisti. In particolare fu il filosofo di Koenigsberg a intuire meglio di altri “[…] il ruolo fondamentale svolto dall’ammissione dell’universo nella valutazione della fede nel Creatore” (16) e a suggerire “[…] la genesi di un universo infinito come unico universo che sarebbe potuto scaturire dalle mani di un Creatore con poteri infiniti” (17). Naturalmente questa ansia di infinito, che in Immanuel Kant si spinse fino a ipotizzare un numero infinito di universi, non era dettata da zelo religioso, ma dal postulato idealistico della inconoscibilità del reale. Secondo dom Stanley L. Jaki, in questo consiste propriamente la minaccia portata dall’infinità cosmica: la sostituzione del mondo reale con gli enti prodotti dalla ragione, una ragione libera da ogni sottomissione a un Creatore che, al contrario, può essere conosciuto solo se vi è un universo reale. Naturalmente ciò non impedì che l’universo tornasse “[…] ad essere un concetto valido” (18), ma il disagio idealistico nei confronti di un cosmo reale fece sì che gli uomini di scienza e di filosofia dei primi decenni del secolo XX non apprezzassero adeguatamente il ritrovamento. Del resto ancora oggi – secondo dom Stanley L. Jaki – scienziati e filosofi, ma il discorso riguarda anche “[…] preti, ecclesiastici e cristiani in generale, devono […] rendersi conto che il maggior sviluppo nella cosmologia scientifica sta nella testimonianza che l’universo è stato riconquistato (19).
  1. La contingenza dell’universo
Nel secondo capitolo, Nebulosità dissipata (20), l’autore affronta la questione della specificità dell’universo, così come essa è venuta rivelandosi grazie all’apporto della cosmologia scientifica. Il fatto che l’universo fisico sia caratterizzato da grandezze in qualche modo misurabili, quali la massa totale e il raggio massimo, pone immediatamente la domanda sul perché questi valori e non altri, equivalente alla domanda sul perché questo universo e non un altro. La specificità del nostro universo rimanda, in altri termini, alla sua contingenza perché, essendo sempre possibile immaginarne uno diverso da quello che conosciamo, non vi sono ragioni apparenti perché esista, appunto, questo e non un altro.
Ma la cosmologia scientifica, secondo lo studioso benedettino, non ha solo rivelato il carattere specifico dell’attuale scenario cosmico: le ricerche compiute nel secolo XX hanno esteso tale specificità fino ai suoi primissimi istanti di vita, delineando un quadro coerente dal profondo significato metafisico. Infatti, “le numerose prove interdipendenti raccolte fino ad ora smentiscono ampiamente gli schemi pseudofilosofici che fanno apparire l’origine del cosmo come si trattasse di una semplice cosa” (21), tale da costituire “[…] una scusa valida per ignorare altri interrogativi su di essa” (22). Immaginare che l’universo, nelle sue prime fasi, fosse semplice è certamente legittimo; l’errore consiste, piuttosto, secondo dom Stanley L. Jaki, nel suggerire, attraverso tale semplicità, la “visione indolente” secondo cui “[…] ciò che “sembra” totalmente semplice può esistere senza essere anzitutto creato” (23). Quello della semplicità è anche uno dei grandi obiettivi della fisica moderna, protesa a generalizzazioni sempre più ampie e a unificazioni sempre più stringenti. A questo proposito lo studioso benedettino avverte che “[…] il mondo fisico può alla fine essere ridotto, per quanto riguarda il computo delle sue proprietà da parte dei fisici, ad una singola forma con un paio di costanti. Ma persino a quella semplicità non mancherebbero forti specificità che produrrebbero quindi, salvo che in menti deliberatamente inerti, il problema del perché queste specificità siano di questa e non di qualche altra grandezza” (24). In definitiva, per quanto semplice possa essere descritto, “un universo, dimostrato dalla scienza come reale e specificamente tale, indicherà senza fallo un’origine al di là delle sue fasi specifiche, un fattore metafisicamente oltre l’universo (25). D’altra parte, conclude l’autore, “[…] lo scopo primario della specificità delle cose non è quello di rendere possibili meri giochi quantitativi, ma di aiutare a riconoscere la vera realtà delle cose e la Realtà che le rende reali (26).
  1. Il mito dell’eternità dell’universo
Il misconoscimento dei dati oggettivi forniti dalla cosmologia scientifica e il rifiuto di considerarli in una corretta prospettiva metafisica non producono soltanto gli errori relativi all’infinità dell’universo e alla “nebulosità” delle sue origini: nel terzo capitolo, Lo spettro del tempo (27), l’autore descrive anche l’errore eternalista, ovvero la tesi secondo cui l’universo può essere infinito come durata. La transitorietà del cosmo si affacciò sulla scena scientifica verso la fine degli anni 1920, quando, dalle equazioni di campo gravitazionale, si cominciarono a ricavare soluzioni non statiche, ovvero dipendenti dal tempo, e le osservazioni astronomiche rivelarono “[…] che l’universo era di fatto soggetto ad uno specifico moto globale, e ad un’espansione, che è sempre un segno di transitorietà” (28): basti pensare alla crescita del corpo umano, specialmente nel caso in cui tale crescita sia esagerata. Da allora – osserva dom Stanley L. Jaki – l’universo è stato ossessionato dallo spettro dello scorrere del tempo verificabile scientificamente, e gli sforzi che ebbero la pubblicità più ampia nella cosmologia scientifica moderna furono quelli che miravano a dissolvere quello spettro (29). Questo fatto fu particolarmente evidente nei paesi a regime comunista, e specialmente in Unione Sovietica, dove “i cosmologi scientifici […] non potevano far altro che adottare la linea del partito. Secondo quell’ideologia l’eternità della materia era un dogma “scientifico” [fin] dalla pubblicazione della prima autorevole interpretazione comunista della scienza, l’Anti-Düring di Engels” (30), e come tale condizionò la ricerca cosmologica – e i ricercatori – fino alla fine degli anni 1970. In Occidente, al contrario, la sollecitudine con cui molti cosmologi appoggiarono la causa dell’eternità della materia non poteva essere il riflesso di una paura di ritorsioni politiche. Secondo dom Stanley L. Jaki, questa disponibilità “[…] riflette la logica secondo la quale un occidente che progressivamente si allontana dal cristianesimo opta naturalmente per il materialismo (31), la cui adozione implica altrettanto “[…] naturalmente il desiderio di avere notizie “scientifiche” che annuncino che l’universo […] non avrà mai un giorno del giudizio” (32). La teoria dello stato stazionario, proposta nel 1947 da Thomas Gold e da Hermann Bondi e successivamente propagandata dalla radio britannica nel corso di quattro celebri trasmissioni, tendenziosamente orientate in suo favore, rispondeva a questo desiderio. Il cuore della teoria è la creazione continua di materia: atomi di idrogeno comparirebbero continuamente dal nulla in quantità tale da bilanciare la diminuzione di densità dovuta all’espansione dell’universo. In questo modo il paesaggio cosmico, pur allargando il proprio orizzonte a causa dell’espansione, rimane identico a sé stesso e, quindi, immune al trascorrere del tempo. La teoria ebbe una notevole diffusione negli anni 1950, soprattutto grazie a una massiccia propaganda attraverso opere divulgative, per poi tramontare all’inizio degli anni 1960, di fronte all’incalzare dell’evidenza sperimentale – nessuno osservò mai un protone apparire dal nulla -, ma non, come ci si sarebbe atteso, sotto il peso della sua povertà metafisica. Tanto è vero che l’eternalismo, lungi dall’essere abbandonato, continua ancor oggi a rappresentare la speranza soggiacente di molte ricerche e il tema dominante delle teorie cosmologiche che comportano un universo chiuso.
La chiusura dell’universo implica che alla fase espansiva, originata da un’immane esplosione – il Big Bang, che molto verosimilmente ha dato origine all’universo -, debba seguire una fase di contrazione o collasso gravitazionale – il Big Crunch -, che si concluderebbe con la sua annichilazione. Alcune teorie si spingono a ipotizzare che tali cicli di espansione-contrazione si susseguano indefinitamente e che noi stiamo vivendo nella fase espansiva di una di queste infinite oscillazioni. Secondo dom Stanley L. Jaki è facile scorgere nella teoria dell’universo oscillante una forma di eternalismo, dove l’eternità è assicurata dal numero infinito di cicli anziché riguardare la durata di un unico ciclo: una sorta di riedizione, in chiave scientifica, del mito dell’eterno ritorno. Ma proprio dal punto di vista strettamente scientifico egli rileva che non vi sono mai stati elementi sperimentali tali da suggerire l’idea del collasso gravitazionale o tali da far propendere per essa.
  1. Il mito della teoria definitiva 
Nel quarto capitolo, L’ombra di Gödel (33), l’autore approfondisce il tema della contingenza dell’universo, riapparso di prepotenza nel dibattito cosmologico attraverso le cosiddette “teorie del tutto” o “teorie definitive (34): queste, nella loro versione estrema, tentano di ridurre a un’unica formula l’intera fenomenologia fisica, essendo fondate sul duplice postulato che l’universo non può non esistere e non può non essere quello che è. In altri termini, secondo tali teorie, l’universo avrebbe in sé le ragioni della propria esistenza e questa autoconsistenza dovrebbe emergere dallo stesso apparato fisico-matematico con cui viene descritto il mondo fisico. Ma – sostiene dom Stanley L. Jaki – anche “[…] quando un fisico considera scontata l’esistenza di un universo molto reale, il quale esiste anche quando egli non ci pensa, lascia aperte questioni sulla sua contingenza, ossia sulla sua dipendenza ontologica da una Realtà che è al di là o dietro ad essa (35).
La ricerca di una teoria definitiva è il tema conduttore di un’opera, Dal Big Bang ai buchi neri (36), divenuta ben presto un successo mondiale sia per la fama del suo autore, il fisico-matematico inglese Stephen W. Hawking, titolare della cattedra lucasiana di matematica a Cambridge, sia per l’imponente battage pubblicitario che ne ha accompagnato l’uscita, accreditandola come l’ultima parola in materia di questioni fondamentali come lo spazio, il tempo, la creazione e Dio. La critica che lo studioso benedettino muove a quest’opera, esemplare di una pubblicistica scientifico-divulgativa molto diffusa, è costruita intorno alla confusione che il suo autore compie fra il piano della fisica e quello della filosofia nel corso dell’indagine cosmologica: si tratta di una confusione che rovescia l’ordine della conoscenza e lo stesso statuto ontologico degli enti e dei sistemi oggetto dell’indagine. Ignorando che “[…] l’universo esiste anche quando i cosmologi non scrivono equazioni esoteriche su di esso” (37), avviene che le equazioni, anziché presupporre l’esistenza dell’universo, finiscono per diventarne garanti. Di qui, afferma dom Stanley L. Jaki, le domande, invariabilmente lasciate senza risposta, di cui è disseminato il libro di Stephen Hawking: perché l’universo esiste? La teoria definitiva può non esistere? Oppure ha bisogno di un Creatore? E chi ha creato il Creatore? Domande che testimoniano come anche la mente più brillante possa smarrirsi se rifiuta di compiere quel passo fondamentale verso la metafisica cui dovrebbe spingerla la ricerca della comprensione completa dell’universo. Tale ricerca costituisce infatti una “[…] domanda metafisica sull’esistenza di un Creatore che, scegliendo un mondo specifico, decide perché il mondo diventi quello che è, quale sia il motivo per cui esiste” (38).
Una teoria, come quella “definitiva“, che avanzi la pretesa di essere completa, cioè di spiegare tutto, e, quindi, anche sé stessa, non può, secondo dom Stanley L. Jaki, non confrontarsi con i teoremi di Gödel, evocati nel titolo del capitolo. Kurt Gödel, studioso austriaco di logica naturalizzato statunitense, pubblicò nel 1931 un articolo sulla completezza dei sistemi non banali di proposizioni aritmetiche: secondo quello studio, divenuto celebre, nessun sistema di tale natura può contenere la prova della sua coerenza. Solo successivamente, però, si cominciò ad apprezzare l’enorme portata della “prova di Gödel” e a capire che il suo campo di applicazione andava ben oltre l’aritmetica, potendosi estendere a ogni insieme non banale di proposizioni, quindi anche alle “teorie del Tutto“, relative alla comprensione dell’universo. Ma tale estensione condanna irrevocabilmente ogni teoria definitiva: infatti, come può una teoria che si definisce necessariamente vera non contenere in sé la prova della propria coerenza, come appunto vietato dai teoremi di Gödel? Si tratta, afferma lo studioso benedettino, di una “contraddizione in termini” (39) da cui deriva “[…] la principale conseguenza dei teoremi di Gödel sulla cosmologia, ossia che la contingenza del cosmo non può essere contraddetta (40). Tuttavia egli mette in guardia anche da una eccessiva confidenza nel loro utilizzo, che porterebbe ad attribuire a essi quel carattere ontologico, che essi giustamente sottraggono ai sistemi di proposizioni. Infatti, la coerenza di un sistema di proposizioni nulla aggiunge o toglie all’esistenza dell’oggetto cui si riferisce, in quanto, “[…] a meno che non si consideri la propria certezza della realtà immediatamente percepita come il primo fondamento affidabile, non c’è una base per ritenere con sicurezza una qualsiasi realtà, tanto meno la realtà dell’universo(41).
***
(1) Per un primo accostamento al tema, cfr. Massimo Introvigne, La questione della nuova religiosità. In appendice la relazione generale al Concistoro Straordinario del 1991 di S. Em. il card. Francis Arinze, Cristianità, Piacenza 1993, con bibliografia.
(2) Cfr. dom Stanley L. Jaki O.S.B., God and the Cosmologists, Scottish Academic Press, Edimburgo 1989; trad. it. Dio e i cosmologi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991.
(3) Cfr. Idem, The Relevance of Physics, University of Chicago Press, Chicago 1966.
(4) Cfr. Idem, Brain, Mind and Computers, Herder and Herder, New York 1969
(5) Cfr. Idem, Science and Creation: from Eternal Cycles to an Oscillating Universe, Scottish Academic Press, Edimburgo 1974.
(6) Cfr. Idem, The Road of Science and the Ways to God, University of Chicago Press, Chicago 1978; trad. it. La strada della scienza e le vie verso Dio, Jaca Book, Milano 1988.
(7) Cfr. Idem, Cosmos and Creator, Scottish Academic Press, Edimburgo 1979.
(8) Cfr. Idem, Angels, Apes and Men, Sherwood Sugden, La Salle 1982.
(9) Cfr. Idem, Uneasy Genius: the Life and Work of Pierre Duhem, Martinus Nijhoff, Dordrecht 1984.
(10) Cfr. Idem, Chesterton: a Seer of Science, University of Illinois Press, Urbana 1986.
(11) Cfr. Idem, Chance or Reality and Other Essays, University Press of America and Intercollegiate Studies Institute, Lanham 1986.
(12) Cfr. Idem, The Savior of Science, Regnery Gateway, Washington D.C. 1988; trad. it. Il Salvatore della scienza, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.
(13) Cfr. dom S. L. Jaki O.S.B., Dio e i cosmologi, cit., pp. 7-8.
(14) Cfr. ibid., pp. 9-32.
(15) Ibid., p. 15.
(16) Ibid., p. 16.
(17) Ibid., p. 19.
(18) Ibid., p. 22.
(19) Ibid., p. 32.
(20) Cfr. ibid., pp. 33-59.
(21) Ibid., pp. 42-43.
(22) Ibid., p. 43.
(23) Ibid., p. 44.
(24) Ibidem.
(25) Ibid., p. 55.
(26) Ibidem.
(27) Cfr. ibid., pp. 61-85.
(28) Ibid., p. 64.
(29) Ibidem.
(30) Ibidem.
(31) Ibid., p. 65.
(32) Ibid., pp. 65-66.
(33) Cfr. ibid., pp. 87-111.
(34) Cfr. John D. Barrow, Theories of Everithing. The Quest for Ultimate Explanation, Oxford University Press, Oxford 1991; trad. it., Teorie del tutto. La ricerca della spiegazione ultima, Adelphi, Milano 1992.
(35) Dom S. L. Jaki O.S.B., Dio e i cosmologi, cit., p. 88.
(36) Cfr. Stephen W. Hawking, A Brief History of Time, from the Big Bang to Black Holes, Bantam Books, Toronto 1988; trad. it. Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano 1988.
(37) Dom S. L. Jaki O.S.B., Dio e i cosmologi, cit., p. 97.
(38) Ibidem.
(39) Ibid., p. 108.
(40) Ibidem.
(41) Ibid., p. 110.