mercoledì 30 dicembre 2015

Star Wars? Dalla parte dell'Impero!

Fonte: Cuib d' Avanguardia - Università Cattolica 


Per una volta vorremmo adattare il nostro linguaggio e la nostra veduta del mondo, la nostra weltanschauung a una questione di ordine più basso rispetto alle tematiche in genere da noi trattate: la nota e spettacolare saga di Guerre Stellari in questi giorni tornata sulla ribalta col suo settimo episodio.
Tra il serio e il faceto diremo brevemente perché il Cuib è schierato ancora una volta coi cattivi.
Per farlo non si potrà prescindere dalla considerazione ben nota che i cineasti di Hollywood traggano ben poco dal caso, o dalla mera fantasia, nella produzione di queste grandi opere, attingendo invece copiosamente dal mondo dei miti e delle letterature esoteriche, in Matrix ad esempio la distinzione tra un mondo virtuale e uno reale è ben nota e di origine gnostica ritrovabile in Basilide e in altri autori dei primi secoli della cristianità.
Lucas, il produttore di Guerre Stellari, non ha d’atro canto mai smentito di aver caricato la sua saga di contenuti morali e simbolici né ha mai smentito la sua affiliazione alla massoneria (fatto che negli USA come noto è di gran lunga socialmente più accettabile di quanto non accada qui, dove i “fratelli” hanno ancora qualche pudore a rivelarsi come tali).
Non potendo fare qui una disanima completa delle etimologie dei nomi dei personaggi o degli altri simboli presenti nella saga ci possiamo limitare a metterne in luce alcuni fatti salienti.
Innanzitutto qual è il nemico dell’Impero ? Cos’è che il Cancelliere Palpatine (e si noti che il nome Palpatine deriva dal nome del colle Palatino, il colle di Romolo e di Augusto fondatori della grandezza romana) distrugge nel terzo episodio della saga ?
Il loro nemico non è nient’altro che la Repubblica una iperdemocrazia parlamentarista di livello galattico.
Già tale Repubblica ha caratteri poco lusinghieri ai nostri occhi essendo chiaramente votata ad una sorta di irenismo-pacifismo costitutivo (si vedano le resistenze che si affrontano per dotarla di un esercito, fatto comunque condannato dalla morale della favola in quanto funzionale ai disegni del Cancelliere-Imperatore), antimilitarismo e antimarzialismo dunque seguiti a ruota da uno smisurato egualitarismo con annesso internazionalismo e intermondialismo come si vede bene nel suo sistema senatoriale volto a rappresentare senza distinzione o discriminazione alcuna, tutti alla stessa maniera, i più disparati popoli della galassia.
Da notarsi però come tale sistema, pur democratico, non veda mai i popoli intervenire sulla scena politica, essa è tessuta sempre da personaggi più altolocati in particolare dall’ordine-casta dei Cavalieri Jedi, tutori e protettori della Repubblica che si radunano, guarda caso, nel “Tempio”, o anche loggia se si volesse tradurre il linguaggio massonico.
Il tratto massonico dei Jedi è confermato poi da tutti le loro caratteristiche, l’essere un ordine chiuso, scandito per gradi, strettamente iniziatico, capace di interagire, in maniera quasi magica, con la “Forza” sorta di principio vitale ilemorfico o divino innervante tutto l’universo, raggiungibile tramite appunto l’ascesi, non una ricerca esteriore quanto una meditazione, un raccoglimento, una meditazione interiore, appunto seguendo la via esoterica dell’iniziato.
Il credo dei Jedi e la rilevanza di questo concetto di “Forza”, di chiara matrice pagano-panteistica escludendo infatti che essa sussista come essenza divina personale e trascendente, ossia teisticamente concepita, sembra quindi confermare l’infettazione massonica di tale Repubblica demo-plutocratica.
Ancora: a favore della massonicità, e perciò in definitiva della anticristianità, del credo dei Jedi rimane anche il loro atteggiamento nei confronti della morte più volte ribadito nei confronti dell’irruento Anakin Skywalker, la morte, gli ribadiscono, è un fatto naturale e ineluttabile, la vera saggezza è accettarla e lasciare che lo spirito dei morti rientri in comunione con l’universo della Forza in maniera naturale, escludendo invece la promessa di resurrezione e di sopravvivenza sovrannaturale rispetto di essa.
Chi invece promette ad Anakin, il giovane nato e caricato di profezie da un parto verginale, tale resurrezione se non il Cancelliere Palpatine ?
E chi vi ricordano questi caratteri: profezie di salvezza, nascita da una vergine, promessa di resurrezione ?
Si intravede qui il concetto massonico che vorrebbe riconoscere a Nostro Signore una sua grandezza umana, di sommo profeta e grandissimo sapente forse, grandezza però tradita dalla sua inclinazione teistica e infine, insanamente, secondo la distorta ottica massonica, resurrezionistica che, volendo rompere i legami della Natura, rompe i legami della ragione in uno slancio fideistico che arriva, conducendo ad un delirio di onnipotenza, all’abbraccio della tentazione romana (ricordarsi Palpatine=Palatino) di dominio terreno (vedasi qui la critica moderna al concetto di “Chiesa Costantiniana” in opposizione presunta con la “Chiesa delle origini”).
Con queste riflessioni è allora facile capire perché si debba stare con l’Impero e coi suoi degni epigoni del Primo Ordine dell’episodio sette.
L’Impero è l’ordine contro il caos, è un potere anagogico, capace di condurre le diverse moltitudini della galassia non perché ricevente dal basso la propria autorità ma perché invece fa rivivere un principio alto, assoluto capace di trascendere gli interessi particolari mettendo allo stesso tempo alla porta la via esoterica dell’iniziazione rivelandosi invece come sincera ed esplicita essoteria
E’ imperium sine fine come fu l’impero romano, avendo ricevuto tale carattere direttamente da Giove, garante dell’aeternitas romana, della sua illimitatezza spaziale e temporale, illimitatezza del potere, dell’autorità, del prestigio, garantita dalla trascendenza della sua origine e dei suoi fini, non certo dall’opinione dei popoli assoggettati ad esso.
Impero di fede, se è vero infatti che questo Impero non abbisogna più dell’ipocrita reggenza dei Jedi, che dal segreto del loro Tempio amministrarono la Repubblica “democratica”, dove eppure i popoli scettrati non sono che comparse e marionette, di fede poiché fondato sull’atto di fede di Anakin, quella fede che per il miscredente di loggia porta al sonno della ragione e a generare mostri, autoritarismo e volontà di vita e di potenza in questo caso, fede che invece porta per noi ad un sogno reale e divino.
La supremazia imperiale si manifesta poi innegabilmente nel suo trionfo estetico, manifestazione ultima, conforme ai principi classici del kalos kai agathos, della corrispondenza dell’ordine esterno con l’ordine interno. l’Impero è infatti ordine, serena conformità alla giusta disciplina, musicalità dalla tonalità trionfale, uniformità al carattere di milizia votata alla lotta, recupero del carattere anagogico e sacrale del potere, messa al bando dell’orizzontalismo relativista e livellatore della Repubblica, compattezza legionaria, ristabilimento della signoria del mondo del dovere su quello del diritto.
La fine della Repubblica, delle sue corruttele come delle sue ipocrisie, del suo molle e ondivago credo, non ci vedrà certo luttuosi.
Noi del Cuib, prospettando una società più salda e più sicura, secondo le parole del Cancelliere, applaudiamo consapevolmente all’edificazione dell’Impero.
Noi del Cuib stiamo ancora una volta, e come sempre, dalla parte dei cattivi.

lunedì 28 dicembre 2015

La storia "taroccata" dagli "italiani" con i leoni marciani


Il leone marciano posto dagli
"italiani" sul castello di Gorizia
 per "taroccare" la storia. 
Ma la storia non finì col 1918. Immediatamente dopo il 3 novembre di quell'anno, ci fu un improvviso movimento di leoni marciani da apporre nelle cosìdette "terre irredente". Uno fu trovato in zona, quello di Gorizia che la Serenissima non era riuscita ad issare durante i 5 mesi di occupazione... fu montato sull'ingresso del cancello nella primavera del 1919 dal generale Cattaneo.
L'italianizzazione della storia della Serenissima era già patrimonio nazionalista da diverso tempo, il suo cantore più famoso era stato D'Annunzio. Come gli italiani si dichiaravano eredi dell'impero romano, così dichiaravano che la Serenissima era "roba italiana", senza mai spiegare perchè i veneziani conquistarono un bel po' di terre della Penisola e sull'altra sponda dell'Adriatico, ma non si sognarono mai di appiccicarsi il nome Italia o di sentirsi "italiani".
L'esodo dei leoni marciani proseguì... alcuni molto antichi venivano spostati da Venezia per taroccare la storia, come ad esempio quello che fu apposto ad Illirska Bistrica, dove nessun veneziano aveva mai messo piede. Altri venivano costruiti ex novo, come quello che fu apposto a Fiume sul nuovo "molo San Marco"... senza dire che Fiume fu saccheggiata un paio di volte dalla Serenissima ma che pur di non finire sotto di essa, la città si diede all'Ungheria e poi al Regno di Croazia e Slavonia.
Contemporaneamente, veniva creata la "mistica veneto-italiana". Ad esempio con i leoni marciani usati per il "battaglione San Marco" e per i "lagunari". La canzone che tutti i cittadini del Litorale erano costretti a cantare durante la leva di marina, dice: "Venezia amor d'ogni italian fra i marmi e l'or... noi vedevam, ogni mattin, splendere d'or, tutta Trieste al nuovo sole, vedevam l'ala tricolor sul golfo intersenza timor, sciogliere il volo (quando mai?)"
Ancora prima di d'Annunzio, ci aveva pensato quel dannato Isaia Ascoli (sempre maledetto sia il suo nome) che aveva coniato le "regioni" Venezia Tridentina, Venezia Giulia e Venezia Euganea. La Venezia Euganea comprendeva anche le province del Friuli.
Ai tempi di Mussolini, si diceva "Le 3 Venezie", la parola "Triveneto" non sappiamo quando comparve, temiamo sia una invenzione dell'Italia repubblicana.
A proposito... se cercate su wikipedia italiana, leggerete che ne facevano parte anche "parti della Venezia Giulia oggi appartenenti a Slovenia e Croazia". Ad esempio Kobarid, Postojna, Idrija... e Pisino che fu dominato dalla Serenissima per poco più di un secolo, ovviamente Fiume ed alcune isole, Gorizia e Trieste che non lo furono mai... l'ultima, solo durante le tre brevi occupazioni medievali.
La cosa più triste, è che ai nazionalisti veneti più sfegatati, una parte della mitologia italo-veneta sta più che bene. Su una delle loro pagine scrivono che "il leone del castello di Gorizia non è un falso storico..." in altre parole, bastava il trasporto e l'intenzione di affiggerlo. Rivendicano l'Istria e la Dalmazia in quanto "venete"... esattamente come i più sfegatati nazionalisti italiani. Non solo non sono indipendenti, ma già rivendicano terre di altre Regioni e di altri Stati. Ed incitano all'odio etnico avendo sposato in toto la versione fascista delle foibe, sostituendo la parola "italiani" attribuita agli abitanti di quelle terre, con la parola "veneti". Cosa vogliono in realtà?


Fonte: Vota Franz Josef

Gli "italiani" e le "basi navali" che non c'erano (1915-1917)


Notate (nell'immagine) cosa si inventavano quei falsòni, per giustificare le batoste che presero dal 1915 al 1917. Trieste, Fiume, Lussin e Spalato, erano "basi navali" solo nella loro fantasia. Le basi erano due: Pola e Cattaro.
A Sebenico c'era una flottiglia di siluranti e qualche vecchia nave appoggio. Loro avevano una flotta molto superiore a quella imperiale , oltre alle squadre franco-britanniche che li aiutavano. A Venezia c'era una squadriglia di sommergibili britannici, a Brindisi stazionavano alcuni incrociatori britannici ed alcuni caccia, per molti mesi, fu presente una squadra di zerstorer francesi. Da Corfù salivano le navi di un'intera squadra francese di alto mare, a Taranto c'erano le corazzate britanniche.
Loro iniziarono la guerra con oltre cento sommergibili compresi i britannici ed i francesi che rompevano le scatole in Adriatico; gli imperiali iniziavano la guerra nel 1914 con 4 sommergibili naviganti e non ne ebbero mai una decina da tenere in mare contemporaneamente.
La "Marina Italiana"; è probabilmente l'unica al mondo che ha perso tutte le battaglie navali della propria storia, grandi o piccole che fossero. Ma quanto a chiacchiere, è la migliore dell'universo.

Fonte: Vota Franz Josef

I Mille del Papa: sottane, pastori e anatre selvatiche in difesa di Pio IX

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di Luca Fumagalli  (Fonte: http://www.edizioniradiospada.com/ ) 
 
Accanto ai grandi avvenimenti della storia sorge sempre un corollario di aneddoti più o meno fantasiosi. Tra quelli connessi alle imprese dei volontari di Pio IX, uomini che da tutto il mondo raggiunsero il piccolo Stato pontificio per difendere il Papa dalle mire espansionistiche di Cavour e di Vittorio Emanuele II, ve ne è uno davvero singolare che riguarda la famosa medaglia d’argento “Pro Petri Sede” distribuita ai sopravvissuti della battaglia di Castelfidardo. Una consolidata tradizione orale garantisce che una di queste sia stata rinvenuta fra le spoglie del famoso capo pellerossa Toro Seduto. L’avrebbe strappata a un soldato irlandese passato dall’esercito papale a quello statunitense. Coinvolto nello scontro di Little Bighorn, dove gran parte del reggimento a cavallo del generale Custer fu massacrato, il soldato si comportò con tale coraggio da suscitare l’ammirazione dei vincitori. Toro Seduto si appropriò quindi della medaglia ritenendola un amuleto di forza e temerarietà.
Dato il triste destino del capo indiano, sembra che il feticcio tutto sommato non abbia sortito l’effetto sperato. Ma l’episodio, sebbene marginale, testimonia l’enorme eco internazionale che ebbero le imprese dei crociati antirisorgimentali accorsi a Roma tra il 1860 e il 1870. Nella Città Eterna in dieci anni transitarono volontari di ben ventisette nazioni. In tutto mai superarono le quindicimila unità, ma le scarse disponibilità economiche della casse pontificie non permettevano di mantenere un esercito più grande. I richiedenti furono numerosissimi e alcune fonti parlano addirittura di centomila giovani pronti a partire dal solo Quebec. Le reclute vennero dunque inquadrate in diversi corpi, il più famoso dei quali fu quello degli Zuavi, nato ufficialmente il 1 gennaio 1861 sui resti dei Tiragliatori franco-belgi.
I mazziniani accusavano la Chiesa di opporsi alla modernità, di arroccarsi dietro i bastioni dell’assolutismo per tentare inutilmente di proteggersi dall’inevitabile avanzata repubblicana. Forse non si accorsero – o non vollero accorgersi – che mai come nell’esercito papale la democrazia aveva trovato più vasta applicazione. Infatti, per la prima volta nella storia, il fabbro bavarese combatteva fianco a fianco con il conte francese, lo studente italiano con l’agricoltore irlandese, l’ex seminarista fiammingo con il cacciatore di bisonti statunitense. Nobili e popolino avevano trovato nella Fede e nella comune causa della difesa del potere temporale della Chiesa un collante così efficace da travalicare qualsiasi steccato sociale. Inoltre, diversi ufficiali che avevano edificato la propria carriera sui più famosi campi di battaglia europei dettero prova di grande umiltà arruolandosi a Roma come soldati semplici, e furono numerosi quelli che rinunciarono allo stipendio per devolverlo in favore di opere pie.
L’appassionante vicenda dei volontari di Pio IX, spesso ignorata dalla storiografia risorgimentale mainstream, è raccontata nel recente saggio di Alfio Caruso intitolato Con l’Italia mai! La storia mai raccontata dei Mille del Papa (Longanesi, 2015). Caruso, giornalista e scrittore, si accolla l’oneroso compito di scavare nuovamente nel passato scomodo dell’Italia per riportare alla luce una delle pagine più contraddittorie della storia nazionale. I Mille a cui si riferisce il sottotitolo, in particolare, furono coloro che come Kanzler, De Courten, Allet, Azzanesi e Ungarelli maturarono una lunga carriera nell’esercito pontificio: giovani tenenti nel 1848 durante la difesa di Vicenza a fianco dei soldati di Carlo Alberto, divennero i generali che nel 1870 tentarono l’ultima e disperata resistenza a Roma. Caruso parte dalla loro esperienza individuale per imbastire una narrazione di taglio giornalistico, frizzante e accattivante, che non risparmia elogi e critiche a entrambe le parti in lotta. L’ago della bilancia in ultima istanza sembra però pendere più dalla parte dei militi del Papa per cui l’autore prova una naturale ammirazione. La prospettiva complessiva tende comunque all’oggettività e l’apparato bibliografico – piuttosto limitato, ma adatto per un lavoro a scopo divulgativo – rivela l’utilizzo di fonti composite che vanno delle testimonianze dei reduci agli studi di Montanelli e di Denis Mack Smith.
Il volume abbraccia un arco temporale piuttosto lungo, dall’elezione di Pio IX nel 1846 alla caduta di Roma nel 1870. Dal tema centrale si dipanano poi diverse piste che approfondiscono vicende collaterali come il complesso quadro politico internazionale dell’epoca, la fine del Regno delle Due Sicilie, l’esilio romano di Francesco II, il Concilio Vaticano, il brigantaggio e, in generale, i tanti nodi irrisolti dell’unità. A questo proposito il giudizio dell’autore è tranciante: «L’Italia è da subito un grande mercato nel quale ciascuno prova a concludere l’affare migliore. A cominciare dai Savoia nessuno ha l’autorità morale per ergersi a custode della nazione; stanno sul trono per una serie di eventi spesso indipendenti dai loro desideri, dalla loro volontà. A differenza di quanto ancor oggi si ripete, non sono stati loro a fare l’Italia, è l’Italia che se li è trovati sul groppone essendo stata l’unica dinastia a guardare oltre i propri confini».
Lo spirito revisionistico del libro è ben esemplificato dalla descrizione dell’incontro tra il giovane tenente Riccardo Mortara, da poco entrato a Roma con gli italiani, e il fratello minore Edgardo, sottratto dodici anni prima a Bologna ai genitori per espresso volere delle gerarchie ecclesiastiche. Il “caso Mortara”, che all’epoca suscitò un moto d’indignazione in tutta Europa, ebbe luogo il 23 giugno del 1858, quando la polizia venne a sapere che la cameriera dei Mortara, agiati ebrei romagnoli, aveva battezzato a due anni il bambino, gravemente malato. Il battesimo, secondo la legge allora in vigore, escludeva che Edgardo fosse allevato da genitori non cattolici: il giovane fu quindi condotto nella capitale. Ciò che però si tace è che l’incontro tra i due fratelli nel 1870 fu tutt’altro che piacevole. Edgardo, da tre anni accolto nell’ordine dei Canonici regolari del Laterano, non accettò di tornare in famiglia: l’unica che ormai riconosceva era quella clericale.
Ma il grande merito del testo di Caruso è quello di soffermarsi sui protagonisti, grandi e piccoli, che animarono l’azione antirisorgimentale di Pio IX, il più grande nemico dell’Italia massonica, lo stesso che fu scambiato nei primi anni di pontificato per un convinto liberale. Sotto di lui, mossi innanzitutto dall’affetto per il Papa e dalla convinzione che la perdita del potere temporale avrebbe scosso la Chiesa dalle fondamenta, tanti impugnarono le armi per difendere le prerogative del trono e dell’altare.
È questo il caso, per esempio, delle “anatre pazze”, soprannome affibbiato dai romani ai tumultuosi irlandesi, intrattabili dopo aver alzato il gomito in qualche osteria – cosa che, detto per inciso, accadeva spesso – ma soldati estremamente affidabili in battaglia. Cresciuti a patate e Vangelo, molti di essi compirono azioni eroiche guadagnandosi le lodi dei superiori e numerosi riconoscimenti. Meritano di essere citati anche i “zampitti”, pastori e contadini ciociari che ebbero un ruolo determinante soprattutto nello sgominare le bande di briganti penetrate nel Lazio meridionale. Sudditi fedeli, arruolati soprattutto per la conoscenza del territorio, si rivelarono presto instancabili cacciatori di fuorilegge.
A sostenere le peripezie di un esercito costantemente in inferiorità numerica e inevitabilmente votato alla sconfitta accorsero anche diverse donne che, accanto a frati e suore, svolgevano mansioni infermieristiche. La Rosalia Montmasson dei pontifici fu l’inglese Katherine Stone. Sanfedista tutta d’un pezzo, era solita aggirarsi tra i feriti completamente vestita di nero, in testa indossava un baschetto inforcato da una piuma alla cacciatora con il velo ripiegato intorno e trattenuto da un fermaglio rappresentante la medaglia di San Pietro. Di stanza presso le Suore della Carità, si comportò egregiamente portando ai sofferenti non solo i medicinali, ma anche il conforto di un sorriso e di una preghiera.
Accanto ai volontari mossi da nobili ideali non mancarono diversi che giunsero nello Stato della Chiesa solo per sfuggire alla giustizia dei rispettivi paesi o attirati dalla prospettiva di uno stipendio sicuro. Famoso fu il caso di John Surrat, ex soldato confederato accusato di aver preso parte alla cospirazione per uccidere Lincoln. Arruolatosi negli Zuavi sotto falso nome, fu riconosciuto e costretto a scappare. Catturato ad Alessandria d’Egitto e ricondotto negli Stati Uniti, per sua fortuna venne scagionato per insufficienza di prove.
Principi, banditi e uomini di Fede, la storia dei Mille del Papa si concluse a Roma il 20 settembre 1870. Dopo che le speranze di vittoria erano presto naufragate davanti alla preponderanza delle armate guidate da Cadorna, lo stato maggiore papalino, su consiglio di Pio IX, puntò a una resistenza poco più che simbolica. Qualche cannonata, alcune decine di morti e la città si arrese: la rivoluzione italiana alla fine aveva trionfato. I reparti pontifici, il cui bivacco si trovava in piazza San Pietro, alla sera cantarono per l’ultima volta “L’inno a Pio IX” composto da Charles Gounod; il giorno dopo avrebbero dovuto abbandonare la Città Eterna, condannati fino alla morte a vivere la misera condizione di stranieri in patria. L’unica consolazione che dava alla piazza ancora la forza di abbozzare un sorriso tra le lacrime era quella che, almeno in cielo, Qualcuno si sarebbe ricordato di loro.
 
Il libro: A. CARUSO, Con l’Italia mai! La storia mai raccontata dei Mille del Papa, Milano, Longanesi, 2015, pp. 313, prezzo 18,60 Euro.

giovedì 24 dicembre 2015

[TOLKIENIANA] Gandalf, voce di uno che grida nel deserto

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di Isacco Tacconi (Fonte: http://www.radiospada.org/)

Forse il personaggio di cui ci apprestiamo a fornire una descrizione, diciamo così, “metafisica” cioè che si spinga un poco oltre le mere apparenze, è il più amato fra le creature di Tolkien. Di certo è il più rappresentato, forse a causa dell’aspetto ieratico, simbolico, a volte oscuro e impenetrabile che il vecchio Barbagrigia evoca nella mente del lettore. Gandalf è certamente una figura difficile da inquadrare, e carpirne l’anima non è cosa facile giacché è un personaggio fluido, etereo, sfuggente. Come nel libro infatti appare e scompare in maniera repentina, allo stesso modo è quasi impossibile riuscire ad intrattenersi, letterariamente parlando, con lui più di qualche minuto, perché è egli stesso a non consentircelo.
Ma chi è Gandalf? Ascoltiamo cosa dice in proposito nonno Tolkien: “Alla fine della seconda settimana di settembre, un carro proveniente dal Ponte sul Brandivino traversò Lungacque in pieno giorno. Era guidato da un vecchio con un aguzzo cappello blu, un largo mantello grigio ed una sciarpa color argento. Aveva una folta barba e sopracciglia cespugliose che spuntavano oltre le falde del cappello […]. Il vecchio era Gandalf in persona, lo Stregone la cui fama nella Contea era dovuta in primo luogo alla sua abilità nel maneggiare fuochi, fumi e luci. Il suo vero lavoro era di gran lunga più difficile e pericoloso, ma la gente della Contea non lo sospettava nemmeno”[1].
La descrizione, come si vede, è sfuggente e lo stesso Tolkien è avaro di dettagli, anzi ce lo presenta attraverso gli occhi degli hobbit che lo considerano poco più di un “prestigiatore”. Ma la vera natura di Gandalf si svela attraverso le sue parole e le sue azioni, in osservanza dell’adagio aristotelico-tomista «agere sequitur esse» (“l’agire è una conseguenza dell’essere, cioè della natura delle cose, che le fa essere ciò che sono”). Ma proprio questo è il punto: qual è la natura di Gandalf? Egli è uno stregone, certamente, ma è molto di più di un semplice magus. La sua identità sembra sfuggisse allo stesso Tolkien, tant’è che sarebbe meglio porre la questione in questi termini: “Che cosa è Gandalf?”. La sua prima comparsa assoluta così ce lo presenta: “ecco arrivare Gandalf. Gandalf! Se di lui aveste sentito solo un quarto di quello che ho sentito io, e anch’io ho sentito ben poco di tutto quello che c’è da sentire, vi aspettereste subito una qualche storia fuor dal comune[2]. Tolkien, da scrittore e narratore sapiente non ci fornisce una descrizione dettagliata di ciò che Gandalf è in se stesso, contrariamente all’odierna civiltà dell’immagine che invece annichilisce la fantasia, facoltà così importante per la vita dell’uomo perché possiede la capacità di riportarlo allo stato di interiore e ingenua fanciullezza richiesta per entrare nel Regno dei Cieli.
No, Tolkien non è invadente e pedante, nondimeno appare impegnativo e attraente perché solletica e sollecita la fantasia del lettore. Lo afferma lui stesso in una lettera: “Penso che sia meglio non affermare esplicitamente ogni cosa…la verità deve essere scoperta o indovinata dalle prove fornite[3]. Pedagogia, questa, eminentemente divina.
In questo senso, la realizzazione cinematografica del Signore degli Anelli ha senza dubbio molti meriti ma altrettante colpe, come quella di aver ridotto e a volte contaminato l’essenza di alcuni personaggi. Fra quelli che hanno subito una maggiore perdita di spessore vi è certamente Gandalf. Il libro, infatti, ce lo presenta come un personaggio, prima facie, poco simpatico tutt’altro che bonaccione. Lo stregone grigio è, anzi, piuttosto burbero e ispido come la sua barba, pungente nei suoi ammonimenti come il suo cappello a punta.
Eppure, allo stesso tempo, Gandalf è una figura estremamente confortante, è il sostegno e la guida della Compagnia ma anche dei sovrani degli elfi e degli uomini. Egli giunge al momento opportuno, “al mutar della marea” nelle vicende della Terra di Mezzo. L’ammirazione che quasi sfocia in una venerazione per la figura di Gandalf, fu palpabile già subito dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli negli Stati Uniti quando, verso la fine degli anni cinquanta, si potevano vedere nella metropolitana di New York scritte di questo genere: “Gandalf for President”.
In una delle sue lettere, Tolkien cerca di fornire una spiegazione, a dire il vero piuttosto vaga, sull’origine della “razza” degli Istari cui Gandalf appartiene: “La loro origine – dice – è conosciuta solo da pochissimi (come per esempio Elrond e Galadriel) nella Terza Era. Si dice che siano comparsi per la prima volta intorno all’anno 1000 della Terza Era, quando l’ombra di Sauron cominciò nuovamente a prendere forma. Hanno sempre un aspetto anziano, ma diventano ancora più vecchi esercitando la loro opera, lentamente, e spariscono con la fine degli Anelli. Si pensava che fossero “Emissari” (all’interno di questo racconto emissari dal lontano Occidente al di là dal mare), e il loro vero compito, mantenuto da Gandalf e distorto da Saruman, era quello di rafforzare e portare alla luce i poteri naturali dei nemici di Sauron. L’opposto di Gandalf era Sauron”[4].
Ma direi di fermarmi qui con le citazioni tolkieniane perché io, al contrario di Tolkien, non sono né un vero scrittore né tanto meno un filologo, ma mi piace cercare Dio in ogni cosa e trovare in ciò che leggo, vedo e ascolto la presenza di Colui che ogni cosa ha fatto. Sono consapevole che una tale ammissione comporti, dalla prospettiva di chi legge, una diminuzione di valore di quanto scrivo e una sorta di “autogol letterario”, eppure non pretendo di considerarmi quello che non sono né di proporre ciò che scrivo come frutto di un lavorio meritevole di considerazione. Le mie non sono altro che meditazioni ad alta voce, che non pretendono in alcun modo di rettificare i pensieri e le intenzioni del professore di Oxford ma soltanto di approfondire, come già detto, la ricchezza di senso racchiusa in un’opera d’arte, qual è il Signore degli Anelli, lasciata in buona parte, per ammissione del suo stesso autore, incompiuta e aperta.
Dunque, procediamo. La composizione trinitaria di ogni realtà e di ogni essere finanche il più infimo, come insegnano sant’Agostino e san Bonaventura, è per me via al «Factorem coeli et terrae» il quale, come sigillo, ha impresso la propria immagine ad ogni realtà creata seminando tanti piccoli indizi nel mondo, di modo che ci guidino, discretamente, come le briciole di Hansel e Gretel alla “Casa paterna”. Ad esempio un vento freddo d’autunno fra le colline brulle e silenziose della Toscana; una rossa coccinella che sale lenta, un filo d’erba verde; un vecchio tronco maestoso all’esterno e vuoto al suo interno, divenuto rifugio a qualche famiglia di topolini; una goccia d’acqua caduta su una pozzanghera, residuo di una tempesta e preludio a una nuova bufera in un cielo di vitreo argento simile al mithril; creste di montagne nebbiose che ricordano i viaggi della Compagnia verso il monte del Destino; l’odore di biscotti che si spande dalla cucina in tutta la casa mentre fuori si respira aria di Natale; un saio marrone e consunto di panno grezzo che sgrana una corona del Rosario mentre avanza per la via boscosa come Radagast il Bruno. Ecco, questi gli indizi di verità, bontà e bellezza che il Creatore seminò nel mondo quali segni evidenti di quell’“Amor che move il sole e l’altre stelle”. Tali sono i segni e le visioni che lo sguardo di Gandalf, di Frodo e di John Ronald Reuel Tolkien incontra mentre si avviano verso i porti grigi nell’ultimo viaggio. “La morte – dice Gandalf – è soltanto un’altra via, dovremo prenderla tutti”, ma il modo in cui ci si dispone ad intraprendere un viaggio, ben lo sapeva Tolkien, determina il suo successo o la sua rovina. In questo viaggio, infatti, se non si è ben equipaggiati e rettamente orientati verso la mèta, ci si può perdere e smarrire per l’eternità.
Gandalf, essendo emissario dei Valar (potremmo dire, parafrasando, «del Cielo»), è stato mandato sulla Terra di Mezzo proprio per raddrizzare le vie e appianare i sentieri per preparare la venuta del Re, come risuona nel Tempo santo d’Avvento la novena in preparazione del Natale: “Ecce Rex veniet Dominus terrae, et ipse auferet jugum captivitatis nostrae”. È pur vero che Tolkien lo definisce una sorta di “messaggero angelico” eppure per il suo aspetto, per il suo ruolo e per le sue gesta, Gandalf appare più simile a un profeta dell’Antico Testamento, sembra cioè essere più un «ish Elohìm» ossia un “uomo di Dio”.
Egli viaggia attraverso le contrade della Terra di Mezzo ad esortare, insegnare, correggere e guidare popoli e re, hobbit, uomini ed elfi parlando con l’autorità profetica di colui che solo, appunto, è la “bocca di Dio”. Gandalf dice la verità, insegna il bene, è prudente e, per questo, previdente, dalla sua bocca escono parole sagge e giuste: “Os iusti meditabitur sapientiam, et lingua ejus loquetur judicium” (Ps 36, 30). L’opposizione di Gandalf messaggero di verità, alla “Bocca di Sauron”, personaggio oscuro di cui Tolkien non indica neanche il nome, è forte tanto quanto la verità si oppone alla menzogna.
Gandalf è colui che “andrà davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per volgere i cuori dei padri ai figli e i ribelli alla saggezza dei giusti, per preparare al Signore un popolo ben disposto” (Lc 1,17). Ma la sua vera antitesi è Saruman che in qualche modo rappresenta uno dei falsi profeti. Ma dello stregone bianco, divenuto poi Saruman il multicolore (interessante coincidenza con il “pacifismo multicolore” contemporaneo), ci occuperemo nello specifico in una trattazione a parte.
L’azione principale che vediamo svolgere da Gandalf che in questo senso si, come uno “spirito buono”, aleggia fra le pagine della Terra di Mezzo, è quella di infondere coraggio, di additare la via e scuotere gli animi rattrappiti, tiepidi come quello di Bilbo, spingendolo energicamente verso l’avventura della vita, verso ideali e valori che trascendono il piccolo mondo, un po’ materialista, della Contea. “Imparerai più nei boschi che nei libri, gli alberi e le rocce ti insegneranno le cose che mai nessun maestro ti dirà”. Questa frase, se non sapessimo che appartiene a San Bernardo da Chiaravalle, potremmo tranquillamente pensare che sia di Mithrandir, epiteto elfico che significa «Grigio Pellegrino o Viandante», usato in Gondor per chiamare Gandalf. E non è forse questa una caratteristica tipica dei profeti, il viaggiare e il peregrinare?
In particolare la missione di Gandalf è quella di battistrada al viaggio di Aragorn verso il suo trono, preparando il ritorno del Re. Inoltre, Mithrandir agisce come un pastore che si sforza di radunare il gregge disperso e confuso, correndo sulle ali di Ombromanto («Shadowfax» in inglese) ai quattro angoli della Terra di Mezzo per compattare le ultime resistenze e convogliare le energie dei popoli liberi della Terra di Mezzo in uno sforzo comune contro il Male che rischia di inghiottire ogni cosa. Perciò quello che all’inizio sembrava soltanto un amico degli hobbit, stimatore dell’erba pipa di Pianilungone si rivela essere un condottiero di armate. Egli è anche sentinella e custode in particolare di Frodo, il portatore dell’Anello: “Dallo a Frodo – dice a Bilbo – ed io veglierò su di lui”[5].
Ma c’è un altro elemento per lo più trascurato o ignorato dai commentatori di Tolkien, che è l’aspetto eminentemente sacerdotale di Gandalf. Infatti, se facciamo attenzione, la simbologia e i segni che caratterizzano Saruman e Gandalf sono anzitutto i loro bordoni, simili ai pastorali dei vescovi, il loro aspetto da old wise che ricorda le immagini dei padri della Chiesa, e la loro appartenenza ad un vero e proprio ordine superiore di saggi, costituiti pastori di tutti i popoli della Terra di Mezzo. Saruman infatti è anzitutto il sommo sacerdote del suo ordine e non a caso il colore che contraddistingue il suo grado supremo è il bianco che, in seguito al suo tradimento, passerà a Gandalf insieme allo scettro e al bastone, segni del potere e dell’autorità. L’analogia tra Caifa e San Pietro che lo sostituirà come nuovo Sommo Sacerdote nel regno che viene, che è la Chiesa Cattolica, si sovrappone e aderisce in maniera impressionante alla vicenda di Saruman e Gandalf.
Ma c’è di più. Il nostro buon vecchio Barbagrigia è al contempo, come altri personaggi tolkieniani, una figura eminentemente cristologica. La sua morte e la sua risurrezione ne sono un rimando implicito ma chiaro. “«Un Balrog», mormorò Gandalf. «Adesso capisco». Vacillò, e si sostenne faticosamente col bastone. «Che sorte malefica! Ed io sono già stanco»”. La debolezza e lo sconcerto di Gandalf difronte al suo destino di sacrificio consapevole che è giunta “la sua ora”, sembra rievocare quell’estremo momento in cui Nostro Signore, stanco, debole e prostrato dall’angoscia sentì tutto il peso dei nostri peccati nel Getsemani. Molti santi e mistici dichiarano che proprio quello fu il momento più doloroso e buio di tutta la Passione di Cristo. “«Attraversate il ponte!», gridò Gandalf, radunando le proprie forze. «Fuggite! Questo è un nemico troppo forte per chiunque di voi. Devo difendere io lo stretto passaggio»”. Ecco che comincia a svelarsi la missione personale di Gandalf. Il suo compito piomba all’improvviso su di lui inesorabile come il destino: deve difendere lo “stretto passaggio”, ossia quella via stretta che conduce alla vita, che richiede inevitabilmente una vittima di espiazione. L’ostacolo che si frappone fra la morte, il Demonio e noi è il Sacrificio di Nostro Signore, ovvero la Sua Santa Croce, simbolo di ignominia, obbrobrio e sconfitta eppure di gloria, di amore e di vittoria. E in quell’imperativo “fuggite!” di Gandalf ritroviamo il precetto divino di fuggire il male, non pretendendo di affrontarlo con la nostra fragile umanità, perché esso è un nemico superiore alle nostre forze. Solo la Croce di Nostro Signore ha vinto il Mondo e il Demonio, guadagnandoci la corazza della Grazia per presentarci, a suo tempo, dinanzi al Nero Cancello con Lui alla testa per sfidare la Morte.
Il momento dello scontro è terribile e la descrizione che Tolkien ne fornisce, penetrante. Il Balrog “avanzò lentamente sul ponte, e d’un tratto si eresse ad una immensa altezza, estendendo le ali da una parete all’altra; ma Gandalf si scorgeva ancora, un bagliore nelle tenebre; pareva piccolo, e del tutto solo: grigio e curvo come un albero avvizzito prima dell’assalto di una tempesta”. Quanto dovette sembrare piccolo e debole Nostro Signore appeso sulla Croce, solo e nudo dinanzi alla vittoria (apparente) dei suoi nemici. Appeso al patibolo di morte che diventerà poi l’Albero della Vita, Nostro Signore, come Gandalf a Khazad-dum, si lascia trascinare nello sprofondo della morte nascondendosi per un poco allo sguardo dei suoi amici, ma solo per tornarne Liberatore e Redentore.
Nell’affrontare il Demone del mondo Antico, Gandalf si immerge nell’abisso e in quel momento tutto sembra perduto. Colui che era la guida e il pastore lascia orfani i membri della Compagnia i quali, addolorati ed abbattuti, cominciano a disgregarsi e a perdere la speranza di riuscire nella loro impresa. Gandalf affronta quel nemico, superiore alle forze di qualsiasi altro mortale, da solo, nell’abisso infernale in un duello mirabile come recita la sequenza di Pasqua: “Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus”. Dal torrione più basso alla cima più alta lo scontro prosegue all’insaputa del mondo. Ma da quello scontro invisibile dipende la salvezza della Terra di Mezzo.
Ad ogni buon conto, nonostante la curiosità sia molta e le domande che vorremmo porre a Tolkien siano numerose, credo che la domanda «chi (o che cosa) sia, Gandalf?» sia destinata a non trovare una risposta compiuta e definitiva. E come neppure il nostro buon vecchio nonno Tolkien ha voluto né potuto levare il velo che avvolge alcune delle sue “creature”, non sarò di certo io ad avere la presunzione di tentarlo. Il mistero, dunque, rimane al pari di quello che avvolge la figura del profeta Elia rapito in cielo su di un carro di fuoco. Eppure, con gli indizi in nostro possesso possiamo formulare un’ipotesi, a mio avviso, più che verosimile: Gandalf “è colui del quale è scritto: «Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero, che preparerà la tua via davanti a te»” (Lc 7,27). La sua essenza, infatti, si identifica con la sua missione e questa si esaurisce con l’avvento del Re, del quale egli è stato precursore e consigliere. Solo quando il Re avrà preso possesso del regno e ristabilito ogni cosa, solo allora il Grigio Pellegrino potrà prendere congedo dalla Terra di Mezzo per sciogliere le vele verso il meritato riposo.
Non a caso la Chiesa in questo santo tempo di Avvento, ci ammonisce e dispone alla venuta del Messia con la predicazione di san Giovanni Battista, pellegrino e profeta nelle terre intorno al Giordano. Egli, il Battista, vissuto nel nascondimento, la cui vera identità sfuggì ai suoi stessi contemporanei fu colui che traghettò l’antica Legge alla Grazia di Cristo. Poveramente vestito, ma rivestito dello spirito e della forza di Elia, San Giovanni condivide con Gandalf la missione profetica e ancor più l’altissimo compito di essere l’araldo del Gran Re, “di lui parlò infatti il profeta Isaia quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri»” (Mt 3,3).
Così, san Giovanni, cede il passo al Figlio di Dio: “fissando lo sguardo su Gesù, che passava, disse: «Ecco l’Agnello di Dio!». I suoi due discepoli, avendolo udito parlare, seguirono Gesù” (Gv 1,36-37). Similmente, Gandalf, giunto al dunque, avendo terminato la corsa e combattuto la buona battaglia, esce dalla scena di questo mondo dicendo: “Cari amici, qui sulle rive del Mare finisce la nostra compagnia nella Terra di Mezzo. Andate in pace! Non dirò: «Non piangete», perché non tutte le lacrime sono un male”. E quanto siano vere queste parole ce lo attesta l’Inno della Novena in preparazione del Santo Natale: “Omnes simul cum lacrymis, precemur indulgentiam”. Fratelli d’esilio, leviamo, dunque, il capo perché la nostra liberazione è vicina.
Sancte Joànnes Baptista: ora pro nobis.

[1] Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano 1999, pp. 51-52.
[2] Lo Hobbit, Adelphi, Milano 2002, p. 16.
[3] Lettera n. 268 in La realtà in trasparenza, Bompiani, Milano 2002, p. 398.
[4] Lettera n. 144, op. cit., p. 204.
[5] Il Signore degli Anelli, op. cit., p. 63.

Buon Natale e Felice Anno Nuovo dall'A.L.T.A.



 
Buon Natale!

¡Feliz Navidad!

Feliz Natal!
Merry Christmas!

Joyeux Noël!

Веселого Рождества!

Wesołych Świąt Bożego Narodzenia!
 
Frohe Weihnachten!
 
Sretan Božić!
 
Sretan Boćic!
 
Весела Коледа!
 
Շնորհավոր Սուրբ Ծնունդ:!
 
Glædelig jul!
 
Nollaig Shona!
 
Vesel božič!
 
Boldog Karácsonyt!
 
Καλά Χριστούγεννα!
 
Crăciun fericit!
 
Linksmų Kalėdų!
 
Hyvää joulua!
 
Срећан Божић!
 
Среќен Божиќ!
 
 
Dall'Associazione legittimista Trono e Altare


Principe Gioacchino di Prussia: la triste storia di un Re mancato


Principe Gioacchino di Prussia
Il Principe Gioacchino di Prussia, il cui nome completo era Gioacchino Francesco Umberto, nacque a Berlino il 17 dicembre 1890. Era l'ultimo figlio maschio dell'Imperatore Guglielmo II di Germania, e della sua prima moglie, Augusta Vittoria di Schleswig-Holstein-Sonderburg-Augustenburg.  Crebbe con una severa educazione, cosa accaduta a tutti i suoi fratelli.
Allo scoppio della Grande Guerra, la subì direttamente fin dal principio. 
L'11 marzo 1916 Gioacchino sposò la principessa Maria Augusta di Anhalt (10 giugno 1898-22 maggio 1983), figlia di Edoardo di Anhalt e di Luisa Carlotta di Sassonia-Altenburg (figlia di Maurizio di Sassonia-Altenburg). La coppia ebbe un figlio:
  • Carlo Francesco Giuseppe di Prussia (15 dicembre 1916–22 gennaio 1975).
Sua moglie Maria Augusta fu la madre adottiva di Frédéric Prinz von Anhalt, marito dell'attrice Zsa Zsa Gabor.

Durante la sollevazione di Pasqua del 1916, divampata a Dublino contro l'oppressione del governo di Londra, alcuni leader repubblicani contemplarono la possibilità di dare la corona di un'Irlanda indipendente al Principe Gioacchino.
Dopo la dichiarazione di indipendenza della Georgia in seguito alla rivoluzione bolscevica che sovvertì l'Impero Russo nel 1917, Gioacchino fu considerato, dal rappresentante tedesco Friedrich Werner von der Schulenburg e dai monarchici georgiani, come candidato al trono georgiano.

Purtroppo la guerra si concluse in maniera nefasta per gli Imperi Centrali, e il Principe Gioacchino ne subì interiormente tutte le conseguenze. Dopo l'abdicazione del padre, Gioacchino trovò difficile accettare le cose per come erano andate, con il suo nuovo status di "uomo comune" e cadde in una grave depressione, che alla fine lo portò a togliersi la vita con un colpo di pistola il 18 luglio 1920, a 30 anni.
Si dice che era in difficoltà finanziarie e soffriva da "grande depressione mentale". Suo fratello, il principe Eitel Federico, commentò che soffriva di "una misura di eccessiva demenza". Prima della sua morte, il Principe Gioacchino aveva recentemente divorziato dalla moglie.

Fonte:
  1. Daisy, Princess of Pless, ed. Desmond Chapman-Huston, Murray, London, 1928, p. 324, ASIN: B00086RUJU
  2. ^ Desmond FitzGerald, Desmond's Rising; Memoirs 1913 to Easter 1916, Liberties Press, Dublin, 1968 e 2006, p.143
  3. ^ (FR) Georges Mamoulia (2006), "Le Caucase dans les plans stratégiques de l’Allemagne (1941-1945)". Centre d'études d'histoire de la defense 29: 53
  4. ^ a b Kaiser's Youngest Son, Joachim Shoots Himself, in The New York Times, Berlin, 18 luglio 1920.
  5. ^ Two of ex-Kaiser's Sons Bring Suits For Divorce, in The New York Times, Paris, 8 gennaio 1920.

Di Redazione A.L.T.A.

mercoledì 23 dicembre 2015

A Cesare sì, a Dio no

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Fonte: http://www.radiospada.org/

In rete troviamo questo contributo su laicità/laicismo, separazione Stato/Chiesa e “libertà religiosa”; volentieri lo offriamo ai nostri lettori. [RS]

di don Gabriele D’Avino

Un distinto gentiluomo in giacca e maglione (si tratta di mons. Georges Pontier, Arcivescovo di Marsiglia e Presidente della Conferenza Episcopale Francese) si è sentito in dovere, il 4 dicembre scorso, di pubblicare una dichiarazione a nome dell’episcopato gallico sulla celebre legge del 1905 relativa alla separazione tra la Chiesa e lo Stato in Francia, legge di cui ricorre il 110° anniversario in questi giorni. Nessuno, ma proprio nessuno glielo aveva chiesto né sollecitato.
Eppure, il prelato ha preso spunto da questo deplorevole anniversario per sottolineare come, pur essendo “buona” secondo lui la legge, è stata tuttavia mal interpretata e ha portato non ad una “laicità dello Stato” ma ad una “laicizzazione della società”.
A parte il fatto che ci sfugge la realtà della distinzione tra i due termini, è evidente l’intento di mons. Pontier di evitare una stigmatizzazione (non già dei cattolici che lui rappresenta!) di tutti i credenti, cosa che impedirebbe loro di “esprimersi come cittadini”: l’argomento è che, secondo lui, non bisogna esagerare nell’applicare la legge fino a relegare la religione (si badi, una qualsiasi, non necessariamente il cattolicesimo) nella sfera privata, altrimenti si rischia “l’emergenza di correnti e attitudini fondamentaliste”. Un po’ relegati, insomma, ma non troppo. Basterebbe che, a suo dire, “la legge fosse applicata con vigilanza e rispetto”.
Si dirà: già visto e rivisto, è la solita applicazione della solita libertà religiosa, ampiamente condannata dai papi dell’800 e del primo ‘900, affermata invece con forza dall’ultimo Concilio come diritto inalienabile. Certo, tuttavia può essere interessante rinfrescare la memoria su un episodio storico ben preciso, cioè che la promulgazione di questa legge fu oggetto di una precisa, diretta e solenne condanna da un’enciclica scritta ad hoc: la Vehementer nos di Papa San Pio X, dell’11 febbraio 1906.
La legge in questione inizia col dire che “la Repubblica assicura la libertà di coscienza” ma che “non riconosce né finanzia né sovvenziona alcun culto”. Il prelato dalla memoria corta afferma che il testo legislativo è atto a “favorire l’esercizio delle libertà”, e che perciò “la Chiesa cattolica, da qualche decennio, non rimette in causa questa legge ma la rispetta”. Linguaggio politicamente corretto che avrebbe fatto inorridire papa Sarto il quale, senza mezzi termini, nella lettera enciclica pubblicata tre mesi dopo la promulgazione della legge iniqua tuona: “È questo un avvenimento gravissimo, e tutte le anime buone devono deplorarlo”.
Questo provvedimento legislativo, infatti, si basa su una tesi perniciosa; dice ancora il Sommo Pontefice: “È una tesi falsa, un errore pericolosissimo, pensare che bisogna separare lo Stato dalla Chiesa”; e ancora, il principio secondo cui lo Stato non deve riconoscere nessun culto religioso “è assolutamente ingiurioso verso Dio, poiché il Creatore dell’uomo è anche il fondatore delle società umane”. La Chiesa, si vede bene, la Chiesa di sempre, non rispetta affatto questa legge…
A fondamento della sua zoppicante tesi, il Vescovo francese, per dimostrare che la Chiesa riveste qualche importanza cita le sole opere naturali a cui essa si dedicò: “l’educazione, la sanità, la cultura, la promozione sociale, il sostegno alle famiglie, la presenza presso i giovani”, come se questo fosse l’unico compito della società fondata da Gesù Cristo. Lo ricorda bene San Pio X, insistendo sul fatto che la tesi della laicità dello Stato “è un’ovvia negazione dell’ordine soprannaturale”, proprio perché il compito della società civile sarebbe ridotto alla sola prosperità materiale, come se l’uomo non avesse altro fine. Ma l’uomo ha un fine soprannaturale, e se la conquista della beatitudine eterna non è diretto appannaggio dello Stato, esso deve necessariamente non solo non impedirla, ma “aiutarci a compierla” (cit. dall’Enciclica) appunto favorendo la vera religione.
Mons. Pontier sembra poi dimenticare del tutto che la legge del 1905 non si limita solo ad enunciare princìpi teorici, ma mette in atto una vera e propria spoliazione dei beni della Chiesa, togliendole la proprietà di tutti gli edifici di culto che (ed erano solo una parte!) con il Concordato napoleonico del 1801 erano stati restituiti alla Santa Sede come risarcimento parziale delle spoliazioni della Rivoluzione. Insomma, “date a Cesare quel che è di Cesare ma pure quel che è di Dio”.
La gestione degli edifici di culto (chiese, monasteri, ecc.) viene infatti affidata, come leggiamo nel Titolo III e IV del testo legislativo del 1905, a delle Associazioni “culturali” di laici, le quali sono, in ultima istanza, sottoposte al controllo del Consiglio di Stato. Queste misure, rimproverò con veemenza il Santo Padre, “mettono odiosamente la Chiesa sotto il dominio del potere civile”; e ancora: “lo Stato così offende la Chiesa”. Ecco perché l’enciclica si conclude in maniera impetuosa, con le forti parole che oggi la gerarchia ecclesiastica non è più in grado di pronunciare: “noi riproviamo e condanniamo la legge votata in Francia sulla separazione della Chiesa dallo Stato come profondamente ingiuriosa rispetto a Dio che essa rinnega ufficialmente”. Com’è possibile che oggi la “Chiesa” rispetti questa legge?
Mons. Pontier è figlio ed erede della nuova teologia e della “nuova religione” della libertà di culto. Egli non fa che applicare l’ermeneutica della continuità, senza dubbio. Ma il suo comunicato del 4 dicembre, del tutto gratuito, fatto a nome di un’intera conferenza episcopale, non è la voce della Chiesa, non è la voce di un suo ministro ma di un suo nemico che, oggi come ieri, trama contro di essa e per la sua distruzione, sebbene con sorrisi smaglianti e con la falsa pretesa di salvaguardarne i diritti.
Sant’Ignazio di Loyola, al num. 22 degli Esercizi Spirituali (è il “presupposto”) dice che “ogni buon cristiano deve essere più propenso a salvare l’affermazione del prossimo che a condannarla: se non può giustificarla, indaghi come è intesa […]”.
Abbiamo girato e rigirato tra le mani tanto la dichiarazione della Conferenza Episcopale, quanto la Vehementer nos di San Pio X; abbiamo provato in tutti i modi a interpretare bene o a salvare le affermazioni dell’Arcivescovo di Marsiglia.

Ci dispiace.
Non ci siamo riusciti.


Fonte

Leader ebraico: ‘I cristiani sono vampiri succhiasangue’ che vanno espulsi da Israele

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Fonte: http://www.radiospada.org/

Benzi Gopstein, leader di Lehava, chiede a gran voce di bandire il Santo Natale: “Rimuoviamo i vampiri (cristiani) prima che bevano il nostro sangue. Non c’è posto il Natale in Terrasanta”.
Gopstein continua, in un articolo nel sito Haredi Kooker, dicendo di essere disturbato dalla “caduta delle linee di difese degli ebrei contro il nostro nemico giurato per centinaia di anni, la Chiesa Cattolica” che “avrebbe usato il massimo delle risorse a sua disposizione per distruggere il popolo ebraico” e che “la Chiesa è stata sconfitta completamente dal momento che il popolo ebraico ha uno dei più forti eserciti del mondo.”
In ogni caso, per quanto si dica rasserenato dall’IDF, continua: “Questi succhiatori di sangue hanno un’ultima missione. Se gli ebrei non possono essere uccisi, possono ancora essere convertiti. Le biblioteche missionarie vendono i loro libri davanti a tutti a Jaffa Road (Gerusalemme), molti altri hanno imprese qui.”


Nota di RS: per prevenire le prevedibili quanto ridicole accuse di antisemitismo, rimandiamo all’articolo originale su Haaretz
Cosa dire, attendiamo la condanna della Boldrini e le scuse di Bergoglio per i cristiani che tentano di convertire queste povere vittime 

lunedì 21 dicembre 2015

VERDI SCRISSE TERRIBILI PAROLE SULL’ITALIA UNITA. da un vecchio articolo di Repubblica

Milo Boz (Fonte: http://venetostoria.com/) 
 
MI0001185327Ecco per esteso, l’articolo di Repubblica del 1996 che parla della lettera di Verdi, piena di sentimenti anti unitari. grazie a Fabio Lovato che mi ha segnalato il link assieme ad altri sullo stesso argomento.
QUANDO VERDI DICEVA ‘ MEGLIO L’ ITALIA DIVISA’
BUSSETO – Fischiate pure, melomani filo-romani: oggi il vostro Giuseppe Verdi voterebbe Lega. Lo giura il suo sindaco, cioè il sindaco di Busseto, Parma, Giorgio Cavitelli, ex senatore del Carroccio; e porta prove schiaccianti, le parole stesse del Grande Concittadino, scritte nero su bianco in una lettera datata 16 giugno 1867, appena sette anni dopo l’ Unità d’ Italia: “Cosa fanno i nostri uomini di Stato? Coglionerie sopra coglionerie! Ci vuol altro che mettere delle imposte sul sale e sul macinato e rendere ancora più misera la condizione dei poveri. Quando i padroni dei fondi non potranno, per troppe imposte, far più lavorare, allora moriremo tutti di fame. Cosa singolare! Quando l’ Italia era divisa in tanti piccoli Stati, le finanze di tutti erano fiorenti! Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze d’ una volta?“.
Cavitelli, ragioniere, sindaco dal ‘ 93, un’ impressionante somiglianza con Arrigo Sacchi, è l’ uomo che ha portato Bossi all’ Arena di Verona, a prender fischi (“Non più di cento persone…”). E adesso, per rivincita, eccolo sventolare la fotocopia che sta per faxare a Bossi: “E’ una lettera che Verdi scrisse al conte Opprandino Arrivabene, suo collega nel primo Parlamento del Regno. E’ già stata pubblicata in un paio di libri, ma naturalmente nessuno la cita mai”. Andiamo, signor sindaco: capisco la ragion di partito, ma non vorrà mica rovesciare come un calzino un mito nazionale: il Verdi che infiammava gli animi dei carbonari, il Verdi dei volantini “Viva V.E.R.D.I.” che inneggiavano al Re e all’ Italia unita, adesso lo vuol far passare come un precursore della rabbia fiscale, come l’ inventore del “Roma ladrona”?
Queste sono le sue parole, e mi sembrano chiare… Guardi che Verdi era unitario soprattutto perché era antiaustriaco, voleva la libertà dall’ oppressore straniero, la stessa cosa che vogliamo noi, la libertà del popolo padano dall’ oppressione di Roma. Il Nabucco canta la libertà di un popolo, non l’ unità d’ Italia: per questo penso che il ‘ Va’ pensiero’ sarà l’ inno ufficiale del nostro 15 settembre“.
E lei, sindaco di Busseto, la Betlemme del melodramma, lascerà che quel canto diventi un inno di partito? E’ un patrimonio di tutti… “Guardi, l’ hanno usato per la pubblicità di un ferro da stiro e nessuno ha protestato: non sarò io a oppormi se viene usato per una causa più nobile. Meglio per un’ idea che per una merce”. Però glielo poteva dire prima, a Bossi, che nel Nabucco non c’ è nessun coro dei Lombardi. “Non è un melomane, è un entusiasta… Può capitare a tutti di confondere una romanza con l’ altra“.
m s
23 agosto 1996

sabato 19 dicembre 2015

Eroi della Grande Guerra: il Principe Heinrich di Baviera

Principe Heinrich di Baviera.

Heinrich nacque a Monaco di Baviera il 24 giugno 1884. Egli era l'unico figlio del Principe Arnolfo di Baviera e di sua moglie la Principessa Teresa del Liechtenstein. Apparteneva alla famiglia Reale dei Wittelsbach.
Heinrich crebbe a Monaco di Baviera dove ricevette la propria educazione. Uno dei suoi precettori fu Joseph Gebhard Himmler, il padre di Heinrich Himmler. Himmler padre era un ardente realista che, in seguito alla nascita del suo secondo figlio, chiese di chiamarlo come il Principe- Heinrich. Il Principe accettò e divenne anche il padrino di Heinrich Himmler.  I rapporti tra il Principe e il suo figlioccio furono stretti , come dimostra la corrispondenza conservata tra Gebhard e il Principe. A  Natale Himmler riceveva regolarmente la visita del Principe e di sua madre .

All'età di 17 anni, dopo la maturità, Heinrich si arruolò nell'esercito bavarese con il grado di tenente. Inizialmente, servì nell'armata bavarese del Infanterie-Leib-Regiment. Quattro anni più tardi entrò a far parte del 1. Schweren Reiter-Regiment, Prinz Karl von Bayern“.
Il Principe Heinrich di Baviera
nel 1916.
Dopo lo scoppio della Grande Guerra, il Principe Heinrich non si tirò indietro e partì per il fronte con il suo reggimento. Vide l'azione sul fronte occidentale, dove venne gravemente ferito. Una volta guarito, tornò al suo vecchio reggimento di fanteria e nel giugno 1915, venne promosso a Maggiore. Nello stesso periodo, venne messo a capo del III. Battaglione del neo costituito Deutsches Alpenkorps di stanza nelle Alpi Carniche. Alla fine del 1916, il battaglione venne trasferito in Romania, dove  combatté a Turnu Roşu Pass. Durante l'offensiva tedesca seguente a Monte Sule da Hermannstadt (Sibiu) nelle Alpi  Transilvane, il 7 novembre 1916, Heinrich venne ferito a morte da un cecchino mentre svolgeva con indomito coraggio il suo dovere. Morì  il giorno seguente, l'8 novembre 1916, a 32 anni.

Il corpo di Heinrich venne trasportato a Monaco, dove fu sepolto al fianco di suo padre al Theatinerkirche. Il 6 marzo 1917, per la sua eccezionale bravura, postumo venne insignito della Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Max Joseph. In precedenza era stato premiato con la Croce di Ferro di 1 ° classe in seguito all'azioni nel giugno 1916.


Bibliografia:

  • Peter Longerich, Heinrich Himmler: A Life, Oxford: Oxford University Press. ISBN 978-0-19-965174-0
    • Jirí Louda and Michael MacLagan, Lines of Succession: Heraldry of the Royal Families of Europe, 2nd edition (London, U.K.: Little, Brown and Company, 1999)
    • Breitman, Richard (2004). Himmler and the Final Solution: The Architect of Genocide. Pimlico, Random House, London. ISBN 1-84413-089-4.

      
    Di Redazione A.L.T.A.
      

    venerdì 18 dicembre 2015

    L’ANNESSIONE al Piemonte, gli italiani non volevano “insorgere”, ce lo spiega Angela Pellicciari.

    di Angela Pellicciari
     
    Plebiscito1860: plebisciti indetti in mezza Italia per manifestare la volontà popolare di annessione al Piemonte. L’allora capo della polizia politica confessa la falsificazione dei risultati. Minaccia di morte ai tipografi che avessero stampate le schede contrarie all’annessione. Una vera truffa.
    [Da “il Timone” n. 28, Novembre/Dicembre 2003]
    Bisogna dire che la favola dell’unità d’Italia realizzata dai Savoia e dai liberali, in nome della costituzione e della libertà, è stata ben raccontata. E ancora meglio ripetuta. I popoli — si diceva (e si continua a ripetere) — “gemevano” sotto il giogo del malgoverno papalino e borbonico. I popoli, dunque, andavano liberati e Vittorio Emanuele era lì pronto per l’occasione. Cuore forte e magnanimo, il Re di Sardegna si sarebbe mosso solo perché intenerito dal pianto di coloro (tutti gli italiani) che giustamente aspiravano ad una vita da uomini liberi e non da schiavi.
    Questa leggenda, dicevo, è stata propagandata con cura. Peccato sia radicalmente falsa. Prima di invadere (senza dichiarazione di guerra, e sempre negando, come nel Meridione, la propria diretta partecipazione all’impresa) uno dopo l’altro tutti gli Stati italiani, il governo sardo-piemontese ha fatto in modo che avvenissero “sollevazioni spontanee” in favore dei Savoia. Si trattava di garantire il buon nome del re sabaudo di fronte all’opinione pubblica italiana e straniera.
    Ecco cosa scrive Giuseppe La Farina, braccio destro di Cavour, in una lettera a Filippo Bartolomeo: “È necessario che l’opera sia cominciata dai popoli: il Piemonte verrà chiamato; ma non mai prima. Se ciò facesse, si griderebbe alla conquista, e si tirerebbe addosso coalizione europea”. Il re Vittorio Emanuele — continuava — dice: “io non posso stendere la mia dittatura su popoli che non m’invocano, e che collo starsi tranquilli danno pretesto alla diplomazia di dire che sono contenti del governo che hanno”.
    Fatto sta che, nonostante il gran daffare che si sono dati, i liberali sono riusciti ad organizzare le “insorgenze” popolari solo a Firenze, a Perugia e nei ducati. A Napoli come a Roma non ‘è stato nulla da fare. E dove pure sono riusciti ad organizzarle, lo hanno fatto con la corruzione e la frode. A Firenze, per esempio, a “insorgere” sono stati un’ottantina di carabinieri fatti venire per l’occasione da Torino e spacciati per popolani toscani da Carlo Boncompagni, ambasciatore sardo in città. Quando si dice la fantasia! Questa di certo non difettava alla classe dirigente piemontese, desiderosa di conquistare un regno prestigioso come l’Italia.

    Fonte: http://venetostoria.com/

    giovedì 17 dicembre 2015

    Dobbiamo accettare o rifiutare l’immigrazione? Qualche utile riflessione di San Tommaso d’Aquino


    Fonte: http://www.radiospada.org/
    Il problema dell’immigrazione non è nuovo. Se n’è già occupato nel secolo XIII S. Tommaso d’Aquino nella sua celebre Summa Theologica (I-II, Q. 105, Art. 3). Ispirandosi agli insegnamenti delle Sacre Scritture, relativi al popolo ebreo, il Dottor Angelico stabilisce con chiarezza quali siano i limiti dell’accoglienza agli stranieri. Forse possiamo trarne qualche lezione.

    stommaso
    S. Tommaso: “Con gli stranieri ci possono essere due tipi di rapporti: l’uno di pace, l’altro di guerra. E rispetto all’uno e all’altro la legge contiene giusti precetti”.
    S. Tommaso afferma, dunque, che non tutti gli immigranti sono uguali, perché i rapporti con gli stranieri non sono tutti uguagli: alcuni sono pacifici, altri conflittuali. Ogni nazione ha il diritto di decidere quale tipo di immigrazione può essere ritenuta pacifica, quindi benefica per il bene comune; e quale invece ostile, e quindi nociva. Come misura di legittima difesa, uno Stato può rigettare elementi che ritenga nocivi al bene comune della nazione.
    Un secondo punto è il riferimento alla legge, sia divina sia umana. Uno Stato ha il diritto di applicare le proprie leggi giuste.
    L’Angelico passa poi all’analisi dell’immigrazione “pacifica”.
    S. Tommaso: “Infatti gli ebrei avevano tre occasioni per comunicare in modo pacifico con gli stranieri. Primo, quando gli stranieri passavano per il loro territorio come viandanti. Secondo, quando venivano ad abitare nella loro terra come forestieri. E sia nell’un caso come nell’altro la legge imponeva precetti di misericordia; infatti nell’Esodo si dice: ‘Non affliggere lo straniero’; e ancora: ‘Non darai molestia al forestiero’”.
    Qui S. Tommaso riconosce che ci possano essere stranieri che, in modo pacifico e quindi benefico, vogliano visitare un altro paese, oppure soggiornarvi per un certo periodo. Tali stranieri devono essere trattati con carità, rispetto e cortesia, cosa richiesta ad ogni uomo di buona volontà. In tali casi, la legge deve proteggere questi stranieri da qualsiasi sopraffazione.
    S. Tommaso: “Terzo, quando degli stranieri volevano passare totalmente nella loro collettività e nel loro rito. In tal caso si procedeva con un certo ordine. Infatti non si riceveva subito come compatrioti: del resto anche presso alcuni gentili era stabilito, come riferisce il Filosofo, che non venissero considerati cittadini, se non quelli che lo fossero stati a cominciare dal nonno, o dal bisnonno”.
    In terzo luogo, S. Tommaso menziona coloro che vogliono stabilirsi nel paese. E qui il Dottor Angelico mette una prima condizione per accettarli: il desiderio di integrarsi perfettamente nella vita e nella cultura della nazione ospitante.
    Una seconda condizione è che l’accoglienza non sia immediata. L’integrazione è un processo che richiede tempo. Le persone devono adattarsi alla nuova cultura. L’Angelico cita anche Aristotele, il quale afferma che tale processo può richiedere due o tre generazioni. S. Tommaso non stabilisce un tempo ideale, affermando soltanto che esso può essere lungo.
    S. Tommaso: “E questo perché, ammettendo degli stranieri a trattare i negozi della nazione, potevano sorgere molti pericoli; poiché gli stranieri, non avendo ancora un amore ben consolidato al bene pubblico, avrebbero potuto attentare contro la nazione”.
    L’insegnamento di S. Tommaso, fondato sul senso comune, suona oggi politicamente scorretto. Eppure, è perfettamente logico. L’Angelico evidenzia che vivere in un’altra nazione è cosa molto complessa. Ci vuole tempo per conoscere gli usi e la mentalità del Paese e, quindi, per capire i suoi problemi. Solo quelli che vi abitano da molto tempo, facendo ormai parte della cultura del Paese, a stretto contatto con la sua storia, sono in grado di giudicare meglio le decisioni a lungo termine che convengano al bene comune. È dannoso e ingiusto mettere il futuro del Paese nelle mani di chi è appena arrivato. Anche senza colpa, costui spesso non è in grado di capire fino in fondo cosa stia succedendo, o cosa sia successo, nel Paese che ha scelto come nuova Patria. E questo può avere conseguenze nefaste.
    Illustrando questo punto, S. Tommaso nota come gli ebrei non trattavano tutti i popoli in modo uguale. Vi erano nazioni più vicine e, quindi, più facilmente assimilabili. Altre, invece, erano più lontane o addirittura ostili. Alcuni popoli ritenuti ostili non potevano essere accettati in Israele, vista appunto la loro inimicizia.
    S. Tommaso: “Ecco perché la legge stabiliva che si potessero ricevere nella convivenza del popolo alla terza generazione alcuni dei gentili che avevano una certa affinità con gli ebrei: cioè gli egiziani, presso i quali gli ebrei erano nati e cresciuti, e gli idumei, figli di Esaù fratello di Giacobbe. Invece alcuni, come gli ammoniti e i moabiti, non potevano essere mai accolti, perché li avevano trattati in maniera ostile. Gli amaleciti, poi, che più li avevano avversati, e con i quali non avevano nessun contatto di parentela, erano considerati come nemici perpetui”.
    Le regole, però, non devono essere rigide, possono ammettere eccezioni:
    S. Tommaso: “Tuttavia qualcuno poteva essere ammesso nella civile convivenza del popolo con una dispensa, per qualche atto particolare di virtù: si legge infatti nel libro di Giuditta, che Achior, comandante degli Ammoniti, ‘fu aggregato al popolo d’Israele, egli e tutta la discendenza della sua stirpe’ – Così avvenne per la moabita Rut, che era ‘una donna virtuosa’”.
    È possibile, dunque, ammettere eccezioni, secondo le concrete circostanze. Tali eccezioni, tuttavia, non sono arbitrarie, hanno bensì sempre in vista il bene comune della nazione. Il generale Achior, per esempio, rischiando la propria vita, era intervenuto presso Oloferne in favore degli ebrei, guadagnandosi in questo modo la loro eterna gratitudine, nonostante la sua origine ammonita.
    Ecco alcuni principi in tema di immigrazione enunciati da S. Tommaso d’Aquino, sette secoli orsono. Dai suoi insegnamenti si desume con chiarezza che qualsiasi analisi sull’immigrazione deve essere guidata da due idee-chiave: l’integrità della nazione e il suo bene comune.
    L’immigrazione deve avere sempre come scopo l’integrazione, non la disintegrazione o la segregazione, cioè la creazione di piccole “nazioni” contrastanti all’interno del Paese. Oltre a godere dei benefici offertigli dalla sua nuova Patria, l’immigrante deve assumerne anche gli oneri, cioè la piena responsabilità per il bene comune, partecipando alla vita politica, economica, sociale, culturale e religiosa. Diventando un cittadino, l’immigrante passa a essere membro di una vasta famiglia, con un’anima comune, con una storia e un futuro comune, e non soltanto una sorta di azionista in un’azienda, al quale interessano appena il profitto e i benefici.
    Poi S. Tommaso insegna che l’immigrazione deve avere sempre in mente il bene comune: essa non può sopraffare o distruggere la nazione.
    Ciò spiega perché tanti europei provano una sensazione di sconforto e di apprensione di fronte alle massicce e sproporzionate immigrazioni di questi ultimi anni. Un tale flusso di stranieri, provenienti da culture molto lontane e perfino ostili, introduce situazioni che distruggono gli elementi di unità psicologica e culturale della nazione, distruggendo perciò la stessa capacità della società di assorbire organicamente nuovi elementi. In questo caso, si sta chiaramente attentando contro il bene comune.
    Aspetto secondario ma molto importante: quello economico. In mezzo alla più grave crisi economica degli ultimi decenni, l’Europa si può permettere di prendere in carico milioni di immigrati senza ledere il bene comune dei suoi cittadini?
    L’immigrazione organica e proporzionata è sempre stata un fattore di sanità e di forza per la società, introducendovi nuova vita e nuovi talenti. Quando, però, diventa sproporzionata e incontrollata, mettendo in pericolo le fondamenta della società e dello Stato, allora diventa pregiudizievole per il bene comune.
    Ciò sopratutto quando si tratta di immigrazione, al meno potenzialmente, ostile, secondo le categorie proposte da S. Tommaso.
    Farebbe bene l’Europa a seguire i saggi insegnamenti del Dottor Angelico. Un Paese deve usare giustizia e carità nel trattare gli immigranti. Soprattutto, però, deve salvaguardare la concordia e il bene comune, senza i quali un Paese non può durare a lungo. Questo per non parlare della Fede cristiana, il più profondo elemento fondante della nostra civiltà.
    di John Horvat