domenica 31 maggio 2015

30 maggio 1799: liberazione della città e del contado di Rimini dall'occupazione giacobina



30 maggio 1799: gli insorgenti antigiacobini guidati da Giuseppe Federici liberarono la città e il contado di Rimini dall'occupazione giacobina.

L'Epitaffio della Repubblica Cisalpina



Qui giace una Repubblica,
Già detta Cisalpina,
di cui non fu la simile
Dal Messico alla China.
I Ladri la fondarono,
I Pazzi l'esaltarono,
I saggi l'esecrarono,
I Forti l'ammazzarono;
In questo sol mirabile
Carogna non più udita,
Che non puzzò cadavere
Ed appestava in vita.

(Biblioteca Gambalunga di Rimini, Raccolta Bandi Zanotti).



Fonte: Giuseppe Federici

Inno anti-giacobino nella Romagna Pontificia




Inno contrapposto al patriottico in segno di allegrezza per l'abbattuta demagogia


Or che abbattuto è l'albero
infame empio infernale
origine fatale di tanta iniquità
Splendan sereni ed illari
i giorni in questo lido
alziam un lieto grido
chiediamo al ciel pietà.
Viva l'impero vivano
le vincitrici schiere
veggio d'arte e bandiere
l'aria folgoreggiava.
Bello è il sentir d'ogni angolo
in si bel dì giocondo
di Francesco secondo
il nome risonar.
L'indegno democratico
non osa alzar la testa
se no per lui la festa
tragica si farà.
Fugga l'audace incredulo
dalle falangi al lampo
e cerchi asilo e scampo
in mezzo all'empietà.
O schiatta giacobina
dove t'asconde e celi
vendetta il mondo e il cielo
gridan contro di te.
Già nell'Italia tornano
i bei giorni felici
l'aquile vincitrici
già qui ferman il piè.
Non più del tempio vegonsi
ministri vilipesi
i sacri altari illesi
or son dall'empietà.
Al tacito cenobio
il monaco ritorni
a respirar suoi giorni
in santa carità.
La verginella profuga
timida mal sicura
alle sacrali mura
al pié rivolga e il cuor.
Tra le paterne braccia
canto del suo periglio
il più prodigo figlio
piange il passato error.



(Biblioteca Gambalunga di Rimini, “Giornale di Rimino” di M. Zanotti).


Fonte: Giuseppe Federici

Gen. Ludwig Riedl


Gen. Ludwig Riedl

Altro "protagonista", il gen. Ludwig Riedl è stato un testimone, lasciando memorie della sua partecipazione alle battaglie di Gorice e di Kobarid, ricevendo la Croce dell'Ordine di Maria Teresa per la prima campagna.
Figlio di un ufficiale ungherese lealista anche nel 1848 ed eroe di guerra a Villafranca.
Vedi il resto della sua biografia al seguente link:
Nel suo saggio sulla battaglia di Kobarid, mette in luce come, lo spiegamento di artiglieria austro tedesco riuscì a raggiungere localmente la superiorità di un pezzo ogni 4-5 metri di fronte, nonostante l'inferiorità totale di bocche da fuoco, citando ad esempio la superiorità italiana del novembre 1918 con la media di 12 metri di fronte per pezzo.
La superiorità locale fu anche assicurata dal numero di colpi a disposizione di ogni pezzo, assicurata con lo svuotamento di tutte le riserve dell'Impero e con la ricchissima dotazione tedesca, raggiungendo un numero di colpi per metro di fronte, più elevata che nelle due azioni già citate ma anche nelle altre alle quali partecipö come quella del Monte Lovcen, quella dei 7 comuni nella südtiroleroffensive del maggio 1916, quella di Magyaros nella campagna contro la Romania.
In ogni caso, tirare molti colpi per pezzo non era facile e necessitava non solo di sforzi fisici e logistici notevoli, ma anche di ottime tecnologie; vedi le cronache delle battaglie dell'Isonzo degli italiani, con i loro cannoni specie quelli di ghisa, che deterioravano le canne molto rapidamente e spesso esplodevano con il colpo in canna.
La concentrazione del fuoco su obbiettivi mirati, fu uno dei tanti elementi di successo della battaglia di Kobarid. Egli ricorda che la sua batteria di obici da 15 cm, aveva come unico obbiettivo, un cannone italiano incavernato.
Ancora peggio accadeva a Bovec, dove decine di cannoni incavernati nelle pendici del Rombon minacciavano l'avanzata a valle e potevano essere colpiti solo uno per uno, senza possibilità di tiri di prova. Il mattino del 24 ottobre, nessun colpo proveniente da quei cannoni, disturbò l'avanzata degli Schützen stiriani.
Riedl ricorda anche, come lo spirito del "zusammenarbeit" e della delega, permise di conseguire tutti gli obbiettivi e di andare ben oltre. Narra che il collonnello di artiglieria tedesco Gerstenberger che comandava il settore di S.Lucia, fece riunioni con tutti i comandanti delle batterie chiedendo le loro opinioni personali e chiedendo loro, "il massimo spirito di iniziativa". Tutto l'opposto della controparte, dove quasi, non ci si si azzardava ad andare alle latrine senza un ordine scritto dei superiori.
Altri autori ci informano che tutti gli ufficiali e sottufficiali avevano cartine colorate per orientarsi nella battaglia, mentre dall'altra parte i tenenti non sapevano nemmeno dov'erano e solo alcuni capitani avevano accesso alle carte topograrfiche, gelosamente custodite dai loro superiori.
Rispose anche al generale tedesco Cramon, che nelle sue opere degli anni '30, fingeva che la battaglia di Kobarid fosse stata vinta solo dai tedeschi, che erano in inferiorità rispetto agli austro ungarici, totalmente assenti dal secondo punto di attacco a Bovec e che anche a Tolmin dove la direzione dell'attacco e la superiorità numerica spettava ai tedeschi, avessero in realtà 488 pezzi di artiglieria contro i 700 AU.
Italiani e tedeschi presto alleati, si trovarono subito d'accordo tra le due guerre per attribuire il merito dell'offensiva di Kobarid, solo ai tedeschi. Ma non era così e l'artiglieria AU specie quella di montagna, continuava a rimanere la migliore del mondo, mentre l'alleato germanico si serviva delle batterie di mortai Skoda da 30,5 dall'inizio alla fine della guerra, perchè non aveva niente di meglio da mettere in campo.
Altre particolarità della supremazia dell'artiglieria nell'attacco di Kobarid, ci provengono da altre cronache, che narrano di come i nostri, riuscissero a mettere in puntamento tutti i pezzi con pochissimi tiri di prova. Si tirava a falsi bersagli, si tirava a schrapnel per non insospettire il bersaglio e si calcolava il probabile punto di caduta con triangolazioni e calcoli molto complessi, possibili solo a grandi matematici ed esperti di trigonometria e di parabole, com'erano i nostri ufficiali di artiglieria.
Dopo puntato un pezzo tramite i calcoli, si mettevano in parallelo gli altri pezzi che avevano lo stesso obbiettivo, con calcoli e rilevamenti ancora più complessi.
Un paio di tiri per i battaglioni di artiglieria dislocati in compagnie e batterie anche distanti tra di loro la sera prima dell'attacco e 20 minuti di tempo per i tiri di prova all'alba del 24 ottobre, servirono per gli aggiustamenti grossolani, il resto degli aggiustamenti vennero fatti in corso d'opera.
Ma ne servirono pochi, già la sera del 23 furono eliminate dal tiro a gas e dal tiro distruttivo, quasi tutte le batterie incavernate che sovrastavano il teatro dell'avanzata in modo tanto massiccio ed apparentemente invulnerabile, che tutti gli italiani fino a Cadorna e Vittorio Emanuele, in ispezione il giorno prima dell'attacco, avevano dichiarato "impossibile". E così avevano dichiarato anche molti dei nostri ufficiali, prima di aver visto nelle 3 settimane di preparativi, di cosa sarebbe stata capace l'alleanza austro-tedesca, per ricacciare gli invasori a casa loro.

Karl Schönhals sulla situazione delle campagne durante la prima guerra Austro-Piemontese


Karl Schönhals

Mentre adunque la rivoluzione veniva spinta con incredibile operosità, ad eccezione della servitù delle ricche famiglie e l'alta borghesia, il resto del popolo era tuttora incorrotto.
La maggior parte dei cosi detti coloni era anzi affezionata al governo, appo il quale aveva spesso trovato protezione contro i suoi oppressori. Se il governo non avesse avuto tanti riguardi per la proprietà, se non avesse dovuto temere che si rinnovassero le scene della Galizia*, non gli sarebbe stato malegevole armare contro la città il contado**. Una tal cosa si mostrò chiara più tardi alla venuta dei Piemontesi; nella loro invasione essi non trovarono che scarsa simpatia fra gli abitanti della campagna, sì che fortemente si lagnarono d'essere stati ingannati intorno allo spirito ed alle intenzioni del contadino. Mano mano che noi ci avanzavamo eravamo accolti assolutamente come liberatori. Non era quello il contegno di un popolo che sa d'esser colpevole, e che teme il castigo dei vincitori; era la gioia d'essere liberato da un giogo che gli era stato imposto sotto il nome di libertà, e che in un periodo di quattro mesi gli costò più che non l'antico suo governo in un anno. Era una popolazione che conosceva la giustizia e la clemenza del legittimo suo governo, ed in esso fidando n'attendeva indulgenza e perdono.
(Karl Schönhals sulla situazione delle campagne durante la prima guerra Austro-Piemontese)

*riferimento alla sanguinosa rivolta galiziana del 1846, placata dal governo imperiale fianchegggiato dalla classe contadina. 

**specialmente dopo i moti del 1848 si pensò di istituire una milizia contadina nel Lombardo-Veneto

venerdì 29 maggio 2015

San Pio X, l’ultimo papa canonizzato

Centro studi Giuseppe Federici - Per una nuova insorgenza

Comunicato n. 51/15 del 29 maggio 2015, Santa Maria Maddalena de Pazzi


San Pio X, l’ultimo papa canonizzato



Discorso di sua santità Pio XII dopo il rito di canonizzazione di San Pio X, 29 maggio 1954

Quest'ora di fulgente trionfo, che Iddio, suscitatore degli umili, ha disposto e quasi affrettato, per sigillare la mirabile ascesa del suo servo fedele Pio X alla suprema gloria degli altari, ricolma l'animo Nostro di gaudio, al quale voi, Venerabili Fratelli e diletti figli, con la vostra presenza così largamente partecipate. Eleviamo pertanto fervide grazie alla divina bontà per averCi concesso di vivere questo straordinario evento, tanto più che forse per la prima volta nella storia della Chiesa la formale santificazione di un Papa è proclamata da chi ebbe già il privilegio di essere al servigio di lui nella Curia Romana.
Fausto e memorando questo dì, non soltanto per Noi, che lo annoveriamo tra i giorni felici del Nostro Pontificato, cui la Provvidenza aveva pur riservato così numerosi dolori e sollecitudini; ma altresì per la intiera Chiesa, che, spiritualmente stretta intorno a Noi, esulta all'unisono in veemente palpito di religiosa commozione.
Il caro nome di Pio X in questo vespro radioso attraversa da un capo all'altro la terra, scandito con gli accenti più diversi; e destando da per tutto pensieri di celestiale bontà, forti impulsi di fede, di purezza, di pietà eucaristica, risuona a perenne testimonianza della feconda presenza di Cristo nella sua Chiesa. Con generoso ricambio, esaltando il suo servo, Dio attesta la eccelsa santità di lui, per la quale, anche più che per il suo supremo Ufficio, Pio X fu in vita inclito campione della Chiesa, e come tale è oggi il Santo dato dalla Provvidenza ai nostri tempi.
Ora Noi desideriamo che precisamente in questa luce voi contempliate la gigantesca e mite figura del Santo Pontefice, affinchè, calate le ombre su questa memoranda giornata e spente le voci dell'immenso osanna, il solenne rito della sua santificazione permanga in benedizione nelle anime vostre ed in salvezza per il mondo.
1. — Il programma del suo Pontificato fu da lui solennemente annunziato fin dalla prima Enciclica (E supremi del 4 Ottobre 1903), in cui dichiarava essere suo unico proposito di instaurare omnia in Christo (Eph. 1, 10), ossia di ricapitolare, ricondurre tutto ad unità in Cristo. Ma quale è la via che ci apre l'adito a Gesù Cristo? egli si chiedeva, guardando amorevolmente le anime smarrite ed esitanti del suo tempo. La risposta, valida ieri, come oggi e nei secoli, è: la Chiesa! Fu pertanto sua prima sollecitudine, incessantemente perseguita fino alla morte, di rendere la Chiesa sempre più in concreto atta ed aperta al cammino degli uomini verso Gesù Cristo. Per questo intento egli concepì l'ardita intrapresa di rinnovare il corpo delle leggi ecclesiastiche, in guisa da dare all'intiero organismo della Chiesa più regolare respiro, maggior sicurezza e snellezza di movimento, come era richiesto da un mondo esterno improntato a crescente dinamismo e complessità. È ben vero che questa opera, da lui stesso definita « arduum sane munus », si adeguava all'eminente senso pratico ed al vigore del suo carattere; tuttavia la sola aderenza al temperamento dell'Uomo non sembra che spieghi l'ultimo motivo della difficile impresa. La scaturigine profonda dell'opera legislativa di Pio X è da ricercarsi soprattutto nella sua personale santità, nella sua intima persuasione che la realtà di Dio, da lui sentita in comunione incessante di vita, è la origine e il fondamento di ogni ordine, di ogni giustizia, di ogni diritto nel mondo. Dov'è Dio, là è ordine, giustizia e diritto; e, viceversa, ogni ordine giusto tutelato dal diritto manifesta la presenza di Dio. Ma quale istituzione sulla terra doveva più eminentemente palesare questa feconda relazione fra Dio e il diritto, se non la Chiesa, corpo mistico di Cristo stesso? Iddio benedisse largamente l'opera del beato Pontefice, cosicchè il Codice di diritto canonico resterà nei secoli il grande monumento del suo Pontificato, ed egli stesso potrà considerarsi come il Santo provvidenziale del tempo presente.
Possa questo spirito di giustizia e di diritto, del quale Pio X fu al mondo contemporaneo testimone e modello, penetrare nelle aule delle Conferenze degli Stati, ove si discutono gravissimi problemi della umana famiglia, in particolare il modo di bandire per sempre il timore di spaventosi cataclismi e di assicurare ai popoli una lunga era felice di tranquillità e di pace.
2. - Invitto campione della Chiesa e Santo provvidenziale dei nostri tempi si rivelò altresì Pio X nella seconda impresa che contraddistinse l'opera sua, e che in vicende talora drammatiche ebbe l'aspetto di una lotta impegnata da un gigante in difesa di un inestimabile tesoro: l'unità interiore della Chiesa nel suo intimo fondamento: la fede. Già dalla fanciullezza la Provvidenza divina aveva preparato il suo eletto nell'umile sua famiglia, edificata sull'autorità, sui sani costumi e sulla fede stessa scrupolosamente vissuta. Senza dubbio ogni altro Pontefice, in virtù della grazia di stato, avrebbe combattuto e respinto gli assalti miranti a colpire la Chiesa nel suo fondamento. Bisogna tuttavia riconoscere che la lucidità e la fermezza, con cui Pio X condusse la vittoriosa lotta contro gli errori del modernismo, attestano in quale eroico grado la virtù della fede ardeva nel suo cuore di santo. Unicamente sollecito che l'eredità di Dio fosse serbata intatta al gregge affidatogli, il grande Pontefice non conobbe debolezze dinanzi a qualsiasi alta dignità o autorità di persone, non tentennamenti di fronte ad adescanti ma false dottrine entro la Chiesa e fuori, nè alcun timore di attirarsi offese personali e ingiusti disconoscimenti delle sue pure intenzioni. Egli ebbe la chiara coscienza di lottare per la più santa causa di Dio e delle anime. Alla lettera si verificarono in lui le parole del Signore all'Apostolo Pietro: « Io ho pregato per te, affinchè la tua fede non venga meno, e tu . . . conferma i tuoi fratelli » (Luc. 22, 32). La promessa e il comando di Cristo suscitarono ancora una volta nella roccia indefettibile di un suo Vicario la tempra indomita dell'atleta. È giusto che la Chiesa, decretandogli in quest'ora la gloria suprema nel medesimo luogo ove rifulge da secoli non mai offuscata quella di Pietro, confondendo anzi l'uno e l'altro in una sola apoteosi, canti a Pio X la sua riconoscenza ed invochi in pari tempo la intercessione di lui, affinchè le siano risparmiate nuove lotte di tal genere. Ma ciò di cui allora propriamente si trattò, vale a dire la conservazione della intima unione della fede e del sapere, è un così; alto bene per tutta la umanità, che anche questa seconda grande opera del santo Pontefice è di una importanza che va molto al di là dello stesso mondo cattolico.
Chi, come il modernismo, separa, opponendole, fede e scienza nella loro fonte e nel loro oggetto, opera in questi due campi vitali una scissione così deleteria, « che poco è più morte ». Si è veduto praticamente: l'uomo, che al volger del secolo era già nell'intimo di sè diviso, e tuttavia ancora illuso di possedere la sua unità nella sottile apparenza di armonia e di felicità, basate in un progresso puramente terreno, è stato poi visto come spezzarsi sotto il peso di una ben differente realtà.
Pio X vide con vigile sguardo approssimarsi questa spirituale catastrofe del mondo moderno, questa amara delusione specialmente dei ceti colti. Egli intuì come una tale fede apparente, la quale cioè non si fonda in Dio rivelatore, ma si radica in un terreno puramente umano, si diluirebbe per molti nell'ateismo; ravvisò parimenti il fatale destino di una scienza, che, contrariamente alla natura e in volontaria limitazione, s'interdiceva il cammino verso l'assoluto Vero e Buono, lasciando così all'uomo senza Dio, di fronte alla invincibile oscurità in cui giaceva per lui tutto l'essere, soltanto l'atteggiamento dell'angoscia o della arroganza.
Il Santo contrappose a tanto male l'unica possibile e reale salvezza: la verità cattolica, biblica, della fede, accettata come « rationabile obsequium » (Rom. 12, 1) verso Dio e la sua rivelazione. Coordinando in tal modo fede e scienza, quella come estensione soprannaturale e talora conferma dell'altra, e questa come via introduttiva alla prima, restituì all'uomo cristiano l'unità e la pace dello spirito, che sono imprescrittibili premesse di vita.
Se oggi molti, volgendosi di nuovo verso questa verità, quasi sospintivi dal vuoto e dall'angoscia del suo abbandono, hanno la sorte di poterla scorgere in saldo possesso della Chiesa, di ciò debbono essere riconoscenti alla lungimirante opera di Pio X. Egli è infatti benemerito della preservazione della verità dall'errore, sia presso coloro che di quella godono la piena luce, cioè i credenti, sia presso quelli che sinceramene la cercano. Per gli altri la fermezza di lui verso l'errore può forse rimanere ancora quasi una pietra di scandalo; in realtà essa è l'estremo caritatevole servigio reso da un Santo, come Capo della Chiesa, a tutta l'umanità.
3. — La santità, che nelle ricordate imprese di Pio X si rivela come ispiratrice e guida di queste, sfavilla anche più direttamente negli atti quotidiani della sua persona. In sè stesso, prima che negli altri, egli attuò l'enunciato programma: ricapitolare, ricondurre tutto ad unità in Cristo. Da umile parroco, da Vescovo, da Sommo Pontefice, egli stimò per certo che la santità, cui Dio lo destinava, era la santità sacerdotale. Quale altra santità può infatti Iddio maggiormente gradire da un sacerdote della Nuova Legge, se non quella che si addice ad un rappresentante del Sommo ed Eterno Sacerdote, Gesù Cristo, il quale lasciò alla Chiesa la perenne memoria, la perpetua rinnovazione del sacrificio della Croce nella santa Messa, fino a tanto che Egli verrà per il giudizio finale (1 Cor. 11, 24-26); che con questo Sacramento della Eucaristia diede sè stesso a nutrimento delle anime: « Chi mangia di questo pane vivrà in eterno » (Io. 6, 58)?
Sacerdote innanzi tutto nel ministero eucaristico, ecco il ritratto più fedele del santo Pio X. Servire come sacerdote il mistero della Eucaristia e adempiere il comando del Signore « Fate questo per mio ricordo » (Luc. 22, 19), fu la sua via. Dal giorno della sacra ordinazione fino alla morte da Pontefice, egli non conobbe altro possibile sentiero per giungere all'eroico amore di Dio e al generoso contraccambio verso il Redentore del mondo, il quale per mezzo della Eucaristia « quasi effuse le ricchezze del divino suo amore verso gli uomini » (Conc. Trid. sess. XIII, cap. 2). Uno dei documenti più espressivi della sua coscienza sacerdotale fu l'ardente cura di rinnovare la dignità del culto, e specialmente di vincere i pregiudizi di una prassi traviata, promovendo con risolutezza la frequenza, anche quotidiana, dei fedeli alla mensa del Signore, e là conducendo senza esitare i fanciulli, quasi sollevandoli sulle sue braccia per offrirli all'amplesso del Dio nascosto sugli altari, donde una nuova primavera di vita eucaristica sbocciò per la Sposa di Cristo.
Nella profonda visione che aveva della Chiesa come società, Pio X all'Eucaristia riconobbe il potere di alimentare sostanzialmente la sua intima vita e di elevarla altamente sopra tutte le altre umane associazioni. Solo l'Eucaristia, in cui Dio si dona all'uomo, può fondare una vita associata degna dei suoi membri, cementata dall'amore prima che dall'autorità, ricca di opere e tendente al perfezionamento dei singoli, una vita cioè « nascosta con Cristo in Dio ».
Provvidenziale esempio per il mondo odierno, in cui la società terrena, divenuta sempre più quasi un enigma a sè stessa, cerca con ansia una soluzione per ridonarsi un'anima! Guardi esso dunque, come a modello, alla Chiesa raccolta intorno ai suoi altari. Ivi, nel mistero eucaristico l'uomo scopre e riconosce realmente il suo passato, il presente e l'avvenire come unità in Cristo (cfr. Conc. Trid. 1. c.). Consapevole e forte di questa solidarietà con Cristo e coi propri fratelli, ciascun membro dell'una e dell'altra società, la terrena e la soprannaturale, sarà in grado di attingere dall'altare la vita interiore di personale dignità e di personale valore, vita che al presente è sul punto di esser travolta dalla tecnicizzazione e dalla eccessiva organizzazione della intera esistenza, del lavoro e perfino dello svago. Solo nella Chiesa, par che ripeta il santo Pontefice, e per essa nella Eucaristia, che è « vita nascosta con Cristo in Dio », sta il segreto e la sorgente di rinnovata vita sociale.
Di qui consegue la grave responsabilità di coloro ai quali, come a ministri dell'altare, spetta il dovere di schiudere alle anime la vena salvifica della Eucaristia. Multiforme è invero l'azione che un sacerdote può svolgere per la salvezza del mondo moderno; ma una è senza dubbio la più degna, la più efficace, la più duratura negli effetti: farsi dispensatore della Eucaristia, dopo essersene egli stesso abbondantemente nutrito. L'opera sua non sarebbe più sacerdotale, se egli, sia pure per lo zelo delle anime, mettesse in secondo luogo la vocazione eucaristica. Conformino i sacerdoti le loro menti alla ispirata sapienza di Pio X, e fiduciosamente orientino sotto il sole eucaristico ogni loro attività di vita e di apostolato. Parimente i religiosi e le religiose, viventi con Gesù sotto il medesimo tetto, e dalle sue carni quotidianamente nutriti, riguardino come norma sicura quanto il santo Pontefice dichiarò in una importante occasione, che cioè i vincoli con Dio mediante i voti e in comunità religiosa non debbono essere posposti a nessun altro, per quanto legittimo, servigio a vantaggio del prossimo (cfr. Ep. ad Gabrielem M. Antist. Gen. Fr. a Scholis Christ. 23 Apr. 1905 - Pii X P. M. Act. v. II pag. 87-88).
Nell'Eucaristia l'anima deve affondare le radici per trarne la soprannaturale linfa della vita interiore, la quale non è soltanto un bene fondamentale dei cuori consacrati al Signore, ma necessità di ogni cristiano, cui Dio ha assegnato una vocazione di salute. Senza la vita interiore qualsiasi attività, per quanto preziosa, si svilisce in azione quasi meccanica, nè può avere l'efficacia propria di una operazione vitale.
Eucaristia e vita interiore; ecco la suprema e più generale predicazione, che Pio X rivolge in quest'ora, dal fastigio della gloria, a tutte le anime. Quale apostolo della vita interiore egli si colloca nell'età della macchina, della tecnica, dell'organizzazione, come il Santo e la guida degli uomini di oggi.
Sì, o Santo Pio X, gloria del sacerdozio, splendore e decoro del popolo cristiano; - Tu in cui l'umiltà parve affratellarsi con la grandezza, l'austerità con la mansuetudine, la semplice pietà con la profonda dottrina; Tu, Pontefice della. Eucaristia e del catechismo, della fede integra e della fermezza impavida; volgi il tuo sguardo verso la Chiesa santa, che Tu tanto amasti e alla quale dedicasti il meglio dei tesori, che con mano prodiga la divina Bontà aveva deposto nell'animo Tuo; ottienile la incolumità e la costanza, in mezzo alle difficoltà e alle persecuzioni dei nostri tempi; sorreggi questa povera umanità, i cui dolori così profondamente Ti afflissero, che arrestarono alla fine i palpiti del tuo gran cuore; fa che in questo mondo agitato trionfi quella pace, che deve essere armonia fra le nazioni, accordo fraterno e sincera collaborazione fra le classi sociali, amore e carità. fra gli uomini, affinchè in tal guisa quelle ansie, che consumarono la Tua vita apostolica, divengano, grazie alla Tua intercessione, una felice realtà, a gloria del Signor Nostro Gesù Cristo, che col Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Così sia!

http://w2.vatican.va/content/pius-xii/it/speeches/1954/documents/hf_p-xii_spe_19540529_pio-x.html
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giovedì 28 maggio 2015

URGENZA DI RIENTRARE PIENAMENTE NELLA FEDE (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)


Le Play
Il 19 marzo 1859 Le Play esprimeva questa speranza: "Se, come io temo, non siamo usciti dalle
prove che si merita ogni popolo che ha abbandonato la religione e lo spirito di famiglia, al primo
cataclisma nascerà la tendenza di cercare i mezzi di salute".(1)
Il cataclisma aspettò undici anni a prodursi, e fu terribile. Si manifestò allora, come Le Play l'aveva
previsto nella massa della nazione, una tendenza a cercare i mezzi di salvezza; ma i mezzi scelti non
furono di quelli che vanno alla radice del male. Ben presto, esso riprese vigore, si sviluppò più del
solito, ed oggi un nuovo cataclisma assai più distruggitore sembra inevitabile.
Dopo questa catastrofe - se assolutamente non ci uccide l'ordine sociale, meno che mai, potrà essere
ristabilito, se non si ritorna ai dogmi che hanno illuminato la culla della nostra civiltà ed hanno
presieduto a' suoi svolgimenti.
Il cristianesimo aveva condotto i Francesi mercé le comuni credenze al possesso d'una stessa verità.
I costumi, poi le leggi e le istituzioni vi si erano conformati. Quando venne rotta l'unità di credenza,
anche i costumi presero a mutare. Gli uni continuavano a voler meritarsi il cielo, gli altri cercarono
quaggiù la loro felicità, le leggi si modificarono nel senso di questi ultimi: furono distrutte le
antiche istituzioni; la Rivoluzione mise al potere uomini che ressero la società come se Dio non ci
fosse, come se la legge divina non esistesse, come se tutto emanasse dall'uomo e dovesse essere per
l'uomo e per l'uomo di quaggiù.
D'allora in poi niente rimase di stabile, né nella società, né nelle anime; coll'idea di Dio, si è perduta
l'idea dell'uomo. Non si seppe più perché egli sia sulla terra, né in quale stato si trovi. Si dimandò a
che cosa servono le grandi istituzioni, la religione ed il potere, la gerarchia e la proprietà; si perdette
l'intelligenza della loro necessità, e così fu posta la questione che al giorno d'oggi agita le masse:
Non sarebbe bene distruggere tutto questo?
Ecco dove siamo arrivati.
Nel 1899, il 6 agosto, M. Le Play, che vedeva quasi imminente la catastrofe da lui annunciata dieci
anni prima, scriveva: "Per conto mio, non dubito che la Francia non esca dalla triste situazione in
cui è caduta a poco a poco da ben due secoli. Non so come la cosa si farà, ma si farà certamente. Per
questo è necessario che i buoni lavorino a rinnovare le convinzioni nazionali con imperturbabile
spirito di sacrificio, quando anche la riuscita si facesse molto tempo aspettare. La condizione di
salute sta in ciò che la pazienza si unisca al sacrificio ... La via falsa che ci conduce all'abisso è
aperta dal disprezzo del passato; il rimedio consisterà nel ristabilire il rispetto dovuto al passato".
Possiamo noi nutrire nei nostri cuori la stessa fiducia? Il male si è aggravato assai più di quello che i
saggi poteano prevedere; e ciò malgrado la terribile lezione che ci fu data, conformemente alle
previsioni che essi ne aveano avute. Che che ne sia, le condizioni di salute rimangono le stesse e la
loro applicazione è divenuta altrettanto pressante.
Perché la Francia - e si può dire il mondo, poiché esso è interamente fuori di strada, - abbia ancora
un avvenire, è mestieri che la civiltà sia ritemprata nel suo principio, cioè nel cristianesimo; è
mestieri che la fede cristiana rientri nelle anime; non in qualche anima, ma nella massa.
Waldeck-Rousseau ha chiesto il ristabilimento dell'unità morale della nazione, ed è a questo che i
Combes pretendono di lavorare. Vogliono distruggere ogni insegnamento di dottrina cristiana, ogni
idea cristiana, affinché l'unità morale si rifaccia nel libero pensiero.
Sicuramente bisogna ristabilire l'unità morale della nazione. Non vi è nazione senza vincoli fra gli
individui, e la comunanza di pensieri e di sentimenti è il primo di tutti, quello da cui derivano gli
altri.
Ma è poi nel libero pensiero che può attuarsi questa unione? Chi dice "libero pensiero" dice
necessariamente divergenza e disunione, opposizioni e lotte. Dal momento che non esiste più nelle
anime una verità sovrana che produca credenze comuni, da cui derivino comuni doveri, ma al
contrario opinioni individuali, che scaturiscono dalla sovranità di ciascuno, nessuna società
potrebbe conservarsi.
Si dirà che il libero pensiero rifaccia l'unità nell'ateismo verso il quale convergono le anime sciolte
dai vincoli della fede? È infatti a quest'unità che i Waldeck-Rousseau, ed i Combes vogliono
condurre la società reclamando l'unità morale della nazione al di fuori o contro il cristianesimo. Ma
non si vedono già i costumi che quest'unità appena abbozzata ci offre, la civiltà che produce, le
sofferenze che cagiona, le sciagure che ha prodotto e che farà aumentare? Non è dunque nel libero
pensiero che deve farsi l'unione.
Ascoltiamo Waldeck-Rousseau, lavoriamo a ricondurre nella nazione l'unità morale, ma nella
verità. Affermiamola sempre e dappertutto, affermiamola tanto più altamente quanto essa è più
audacemente negata e combattuta dal nemico. Havvi nell'ostinata affermazione che niente
scoraggia, una virtù che tosto o tardi trionfa. Non la si vede nel progresso che fa l'errore per
l'audacia stessa di coloro che lo proclamano? Voltaire non li ha punto ingannati, allorché
incoraggiando i suoi a mentire, loro assicurava che qualche cosa ne resterebbe sempre. E noi che
abbiamo la verità, crederemo di servirla col nasconderla? che dico? col prendere a prestito il manto
dell'errore da quei medesimi che dobbiamo illuminare e salvare?
Seguiamo piuttosto il consiglio di Leone XIII; comprendiamo che la nostra migliore e più solida
speranza di guarigione sta nella virtù di quella religione divina che i framassoni tanto odiano,
quanto più la temono, e che è necessario che noi facciamo di essa il punto centrale di resistenza
contro il nemico comune.
La vera teologia, in tutta la sua forza ed in tutto il suo candore, ridivenga dunque la luce che,
brillando in tutti i nostri discorsi ed in tutti i nostri scritti, dissipi le tenebre dell'errore e mostri alle
anime sincere la via della salute.
"Fa mestieri usar condiscendenza? - dimandava Bossuet. - Non è una dottrina evangelica che
bisogna adattarci all'infermità umana? Sì, è necessario - rispondeva egli - ma ecco lo spirito vero
della condiscendenza cristiana: esso deve essere nella carità, e non nella verità. Cioè, bisogna che la
carità compatisca, e non che la verità si rallenti e ceda".(2)
Comprendiamo e facciamo comprendere che si tratta d'essere cristiani o di perire. Essere cristiano o
non esserlo - disse Channing - ecco l'enigma del mondo moderno. Niente di più vero, purché questa
frase sia presa nel suo vero senso; essere in tutto vero discepolo di Gesù Cristo. Il battezzato dei
nostri giorni si dice cristiano, vuol essere trattato da cristiano, ma vuole poter vivere da pagano. Ei
cerca la felicità pagana, cioè la soddisfazione dei desideri terreni. Il Vangelo aveva rivelato una
forma superiore di felicità nel sermone di Gesù sul monte. Egli aveva dato all'uomo un'idea nuova,
che aveva cambiato l'orientamento del pensiero umano e dell'incivilimento: il regno di Dio
comincia in questo mondo ed ha il suo ultimo fine nell'altro. A questo bisogna ritornare. Se
l'umanità non riprende il giogo di Cristo, il giogo dell'uomo, già sì pesante, peserà ancor più sulle
sue spalle, e ciò necessariamente, perché là dove si rallenta il freno interiore della legge divina che
s'impone alla coscienza, il freno esteriore della forza pubblica si restringe sempre più.
È dunque urgente ritrarre il popolo dai falsi lumi, dai vani barlumi del Rinascimento, dalle fiamme
divoranti della democrazia, che presentano e fanno sperare come possibile il paradiso su questa
terra.
Per ciò ottenere, fa mestieri che ognuno di noi cessi di pensare, di parlare e di agire come se il
presente fosse il tutto per l'uomo. "Lo si tenga bene a mente, e non si cessi di dirlo e di ridirlo -
scriveva M. Le Play, nel marzo 1871 - il male non viene solamente dagli ignoranti, dai traviati, dai
poveri che formano l'esercito dei comunisti, esso viene principalmente dai padroni che danno il
cattivo esempio ai servitori, dai ricchi che non compiono il loro dovere verso i poveri, e verso il
paese, dagli industriali che arricchiscono in mezzo ad una spaventosa depravazione delle masse
degradate, dalle municipalità che impiegano le migliori campagne a moltiplicare città malsane,
attirarvi tutta la corruzione dell'Occidente, dai governi che meditano e provocano guerre ingiuste,
dai sapienti e dai letterati che da cent'anni vanno propagando i sofismi di Rousseau sulla perfezione
originale, infine dalle persone oneste le quali, non avendo da rimproverarsi questi misfatti, e
prestando pure la loro adesione ai principii eterni del bene, conservati dalla pratica delle autorità
sociali, restano inerti e rifiutano ogni cooperazione per diffonderli intorno a loro".(3)
Il socialismo, che non è, dopo tutto, se non la caccia disordinata dei beni di questo mondo "è nella
borghesia prima di essere nel popolo", ha detto de Saint-Bonnet. Ed aggiunge: "È più difficile
soffocarlo in essa che nel volgo".
Che fare per soffocarlo in essa e nel popolo?
Non vi è altro mezzo che ritornare alla teologia.
Che dice essa? Che noi siamo creature di Dio, che il primo dovere è di adorarlo, amarlo, servirlo;
che siamo posti sulla terra per meritarci il cielo; che siamo decaduti e feriti nella nostra intelligenza
e volontà; che nostro Signore Gesù Cristo ha messo nella Chiesa, nei suoi insegnamenti e nella sua
disciplina i mezzi di rialzarci individualmente e di far progredire la società nelle vie
dell'incivilimento.
Convincersi di queste verità, rendere al dogma tutta la sua autorità, persuaderci ad accettarne tutte le
conseguenze e farne la regola della vita individuale e sociale: ecco ciò che necessita di fare. Con
ciò, e con ciò solamente, il mondo può essere rimesso nelle vie dell'ordine, della pace e della
prosperità. Come dice de Saint-Bonnet: "Per rialzare. di nuovo la ragione presso i popoli e frenarne
gli appetiti, è necessaria niente meno che tutta la potenza del cristianesimo". E aggiungeva: "Colui
che oggi proclama la verità per metà, fa più male di colui che risolutamente la sbandisce. Al punto
in cui sono gli animi e si trova la civiltà, è necessaria la verità integrale".(4)
O la Fede o l'Io. O l'impero del cristianesimo intieramente rialzato nelle anime e nella società; o
l'orgoglio, l'invidia e tutte le passioni che l'egoismo racchiude e la Rivoluzione scatena, e l'intera
ruina che cagioneranno. Il socialismo, che è l'ultima formula delle passioni umane, ha accesso negli
animi in proporzione della mancanza di Fede. Non vi uscirà che scacciato dalla Fede.
Senza dubbio, ristabilire la fede non è opera di un giorno, e le genti desiderose del bene hanno
cercato una via più breve; hanno creduto di trovarla nella democrazia cristiana che vuol acchetare le
cupidigie con parole e promesse che non può mantenere. Gli avvenimenti che si precipitano
termineranno col dimostrare che tutto quello che non è la franca e piena verità religiosa non può
nulla sul cuore dell'uomo, non può nulla per rimettere la società nelle sue vie.
Questi stessi avvenimenti faciliteranno la risurrezione della Fede. Disporranno i cuori disingannati a
riceverle, e Dio, che è buono e misericordioso, susciterà apostoli che predicheranno la verità più
colla pratica della loro vita che colla parola.

Note:

(1) Le Play, dalla sua Corrispondenza, p. 308.
(2) Bossuet, Sull'odio della verità, t. III, p. 683.
(3) Le Play, dalla sua Corrispondenza, pp. 428, 429.
(4) All'epoca del concilio Vaticano un uomo la cui onoratezza non può venir messa in dubbio,
Eugenio Taconet, allora direttore del Monde, pubblicò una conversazione ch'egli ebbe con uno dei
capi della framassoneria. "Il nostro piano, gli avea detto il suo interlocutore, era stato dapprima
d'impedire la riunione del concilio, ciò che sarebbe stato facile, ma bentosto ci accorgemmo che
lungi dal guadagnarne per la nostra causa, noi l'avremmo grandemente compromessa: suscitando
l'opposizione dei governi, la cui cooperazione ci è assicurata, avremmo suscitato l'attaccamento dei
popoli al Papa ed alla Chiesa.
"Avremmo specialmente perduto l'appoggio prezioso che troviamo da molti anni in un partito
potente, che è come intermediario fra noi e la Chiesa, il Partito cattolico liberale. È un partito che
teniamo in gran conto, e che serve alle nostre viste più che non pensano gli uomini più o meno
eminenti che gli appartengono in Francia, nel Belgio, nella Germania, in Italia e fino in Roma
attorno ai Papa stesso". (Veder questo testo ed il suo seguito nella Storia di Pio IX dell'abate
Pougeois, vol. V, p. 377 e seg.).
Pio IX nel breve che indirizzò nel 6 marzo 1873 al Circolo di Sant'Ambrogio di Milano, parlando di
coloro che "si sforzano di stabilire un'alleanza fra la luce e le tenebre per mezzo di dottrine chiamate
cattolico-liberali", diceva parimenti: "Questi uomini sono più pericolosi e funesti che i nemici
dichiarati, poiché ne assecondano gli sforzi senza farsi osservare. In vero, tenendosi per così dire sui
limiti delle opinioni condannate prendono l'esteriore d'una dottrina senza macchia, seducono così
gl'imprudenti amici della conciliazione ed ingannano le persone oneste, le quali, altrimenti, si
opporrebbero con fermezza al loro manifesto errore. In tal modo, dividono gli animi, rompono
l'unità ed affievoliscono le forze che bisognerebbe riunire per rivolgerle tutte unite contro il
nemico". Pio IX parlò nello stesso senso alla federazione dei circoli cattolici del Quimper d'Orléans,
ecc.
Così Pio IX si trovò d'accordo col capo dei framassoni citato da Taconet, per dire che la dottrina
cattolico-liberale è il più potente ausiliario degli errori che la framassoneria vuol diffondere nel
mondo. Certamente, l'accordo di quelle due autorità partite da punti si opposti è proprio fatto per
imporsi all'attenzione degl'intelligenti meno facili a convincersi.

"Grande Guerra, per noi il centenario del tradimento".



Gli abitanti del Tirolo, del Litorale e della Valcanale, territori oggi abitati da circa 1,5 milioni di persone, sono "preda bellica" dell'Italia. Sono stati conquistati contro la volontà di circa il 99% degli abitanti. Non gli è stato permesso decidere in quale Stato vivere. I loro diritti naturali e la loro cultura, formatasi in quasi 5-600 anni di appartenenza alla Casa d'Austria più vari secoli di appartenenza al Sacro Romano Impero, furono schiacciati dalla prassi espansionistica di uno Stato esistente illegittimo che arrancava da 57 anni, formatosi con le armi e le usurpazioni .

Tale Stato, la quale "legittimità" si basa su una serie di opinioni mitologiche, non ha mai negato l'intento di voler imporre la propria mitologia alle persone via via conquistate con il motto "fatta l'Italia dobbiamo fare gli italiani", ancora oggi invocato da opinionisti ed addirittura da importanti membri delle Istituzioni. Questo "fare gli italiani" significa inculcare le credenze mitologiche nazionali negli abitanti fin dall'infanzia, generazione dopo generazione.
I principali elementi della "nazionalità" sono la lingua, usi e costumi, storia comune e sopratutto, la convinzione di appartenenza. L'ultimo elemento si gioca con l'accettazione del fatto compiuto e con la deliberata confusione tra le parole "cittadinanza" e "nazionalità". La "storia comune" esiste parzialmente solo dopo la conquista del 1918, perchè prima i territori appartenevano non solo a Stati diversi ma addirittura a diverse civiltà. La "storia comune" è quella di Stato, con i falsi storici della "teoria della liberazione" dall'oppressione di uno Stato che era più liberale e democratico di quello aggressore ma oltre a questo, era enormemente più gradito agli abitanti. In poche parole, la propaganda di Stato altresì detta "patriottismo", si basa sull'etnocidio dei popoli conquistati.
L'etnocidio è un modo di applicazione del "genocidio", principale crimine contro l'umanità. L'etnocidio è apparentemente incruento poichè non versa sangue umano, salvo i casi di repressione della resistenza. L'etnocidio significa:
"Forma di acculturazione forzata, imposta da una società dominante a una più debole, la quale in tal modo vede rapidamente crollare i valori sociali e morali tipici della propria cultura e perde, alla fine, la propria identità e unità (cit. Treccani).
Ogni abitante delle terre conquistate che manifesta contro l'etnocidio, è un paladino dei diritti umani, del diritto naturale, della fratellanza tra i popoli, della carità cristiana e dei principi egualitari sia socialisti che liberali. Uno Stato può gestire cittadini appartenenti a popoli e culture diverse anche in modo rispettoso, ma non è il caso dell'Italia che non si basa su principi confederativi. Essa potrebbe in via teorica, trasformarsi in una forma statale rispettosa, ma non è affar nostro indicarne il percorso, visto e considerato che la sua crisi esistenziale che oggi tocca uno dei più alti culmini della sua pur breve storia, non suscita soluzioni confederative e tolleranti ma solo reazioni centralistiche e l'inasprimento delle misure propagandistiche, con vere e proprie volontà di assoggettamento delle "periferie", ossia dei nostri territori.
Cari lettori, difendete la vostra storia, la vostra cultura e la vostra identità. Per rispetto dei vostri avi, di voi stessi, dei vostri eredi, per rispetto del genere umano, per amore della libertà.

"Maggio del '15, furia dei taliàns contro gli innocenti isontini"

Qui sotto una straordinaria testimonianza di un cittadino mitteleuroepo. Aggiunge un paio di elementi fin qui da noi non considerati a proposito della storia dei fasinàrs ma dice una cosa grandiosa:
"... la pacifica popolazione stimava ed apprezzava il Governo di Vienna, evoluto e civile". Noi non siamo mai riusciti a dirlo meglio.
"... saremmo stati obbligati a diventare cittadini italiani".
"... l'amplesso alla madre patria (così sta scritto su una strada di Gorizia)... più che un amplesso fu uno stupro".
Grande signor Gerin, che Dio la benedica e che il Beato Carlo d'Asburgo faccia in modo che la Sua consapevolezza si trasferisca a tutti gli altri.


Un estratto significativo dal testamento di Leopoldo II di Toscana


Leopoldo II di Toscana 


Leggendo il Testamento scritto nel luglio del 1867, da Leopoldo II di Toscana nel castello di Schlackenwerth, in Boemia, nel quale egli si ritirò in esilio si leggono queste meravigliose parole:

"Dico addio alla Toscana, affetto del mio cuore, oggetto di ogni mia cura. Pregherò in cielo per Lei. ............ Se la Divina Provvidenza ricondurrà la Famiglia nostra alla Cara Patria, all'amata Toscana ed a mio figlio Ferdinando ne sarà affidato il Governo, Io gli raccomando la Toscana , la fortuna sua sia la tua gloria, l'amore per lei il premio alle tue cure. 
(gli raccomando) La Maremma, la prima inferma, bisognoso di assistenza, bella e ricca di speranze. Se torni in quelle contrade, poni sulla via detta di Badiola, presso Grosseto, una pietra ed una croce sola, e siavi scritto: Pregate per Leopoldo Secondo Granduca di Toscana. Iddio confido, assisterà Te, figlio mio, e la famiglia. Io pregherò in altra vita per Te, per la Famiglia e per Toscana che mi sono così tanto care".




Fonte: Noi che rivogliamo il Granducato di Toscana 

La Famiglia Granducale e il Fiorentino

Arciduca Giovanni Nepomuceno d'Asburgo-Lorena



Forse non a tutti è noto che la Famiglia Granducale, anche dopo l'esilio, a Vienna parlava in Toscano, anzi in Fiorentino. In proposito riportiamo un aneddoto che riguarda l'Arciduca Giovanni Nepomuceno d'Asburgo-Lorena, noto anche semplicemente come Arciduca Giovanni o col nome Giovanni Orth (Firenze, 20 novembre 1852). Nel 1871 era a Vienna, quale inviato straordinario del governo italiano, Maurizio Minghetti il quale venne ricevuto, tra gli altri, dall'Arciduca Giovanni: lui ed il diplomatico italiano parlarono a lungo del più e del meno. Quest'ultimo (il Minghetti) si complimentò per il corretto italiano che l'Arciduca parlava ed aggiunse, anzi, che la sua conoscenza della lingua Toscana non era corretta ma era praticamente perfetta e così dicendo chiese all'Arciduca dove l'avesse imparata.  Giovanni gli rispose di averla appresa proprio lì dove era nato, ovvero a Firenze ed aggiunse che la propria Patria non si scorda mai e che con i suoi fratelli parlava sempre in Toscano e che, insieme a loro, aspettava il giorno nel quale sarebbe ritornato in Toscana. Il Minghetti sbiancò in volto ed a quel punto l'Arciduca Giovanni andò giù pesante con alcune considerazioni politiche, dopodiché congedò il diplomatico e se ne andò...



Fonte: Noi che rivogliamo il Granducato di Toscana

mercoledì 27 maggio 2015

Anton Giorgio Clerici


Anton Giorgio Clerici


Anton Giorgio Clerici, nato a Milano nel 1715 e fedele suddito asburgico.
I Clerici sono una storica famiglia milanese che dal '500 fino a tutto il '700 coprirono importanti ruoli istituzionali come banchieri e feudatari.
Uno dei membri storici più importanti fu senza dubbio Anton Giorgio Clerici, nato a Milano nel 1715 e fedele suddito asburgico , il quale passò alla storia non solo per aver ricoperto ruoli politici importanti alla Corte di Vienna, ma anche per lo sfarzoso Palazzo Clerici a Milano.

LA VITA

L'infanzia di A.C. venne segnata dalla perdita del nonno e del padre in guerra eventi che lo posero sotto la podestà del bisnonno, il famoso Giorgio II Clerici allora presidente del senato di Milano.
Essendo anche imparentato con il celebre condottiero austriaco Eugenio di Savoia, fin da giovane venne indirizzato alla vita militare. In campo bellico è ricordato per esser stato generale e proprietario di un intero esercito dell'esercito del Sacro Romano Impero, lo stesso reggimento dove militò per due anni il filosofo Pietro Verri e che dopo qualche decennio divenne il 44 Reggimento di fanteria dell'Impero Austriaco (reclutato nel milanese).

I RUOLI ISTITUZIONALI

Il ruolo istituzionale di maggior prestigio è senza dubbio l'essere stato rappresentate austriaco a Roma nel 1758 durante il conclave di Benedetto XIV durante il governo di Maria Teresa d'Austria.

PALAZZO CLERICI

Un palazzo di indubbia bellezza e particolarità legato al nome di Anton Giorgio Clerici è Palazzo Clerici.
Il palazzo era già esistente, ma A.C. commissionò ad artisti come Tintoretto, Van Dyck, Pordenone, Veronese, Reni il restauro e l'abbellimento del palazzo ispirandosi ai saloni viennesi e commissionò a Giovanni Battista Tiepolo alcuni affreschi. Ovviamente queste opere gravarono enormemente sulle classe familiari ed infatti il figlio, Francesco Clerici, per evitare di sobbarcarsi tali spese, lo affitò a Ferdinando d'Asburgo-Lorena.

ONOREFICIENZE

La famiglia Clerici con Anton Giorgio entrò ufficialmente nel patriziato milanese, durante la sua vita il nobile milanese venne decorato con i titoli di marchese di Cavenago, Signore di Trecate e di Cuggiono, Grande di Spagna e Cavaliere dell'Ordine del Toson d'oro.
Anton Giorgio Clerici si spense a Milano all'età di 53 anni nel 1768


Fonte: Circolo del Regno Lombardo-Veneto

Trieste e gli talian








Fonte: Dal libro" Trieste 1914-1918: una città in guerra" di L. Fabi



lunedì 25 maggio 2015

I peccati di Richelieu secondo Hilaire Belloc

Listener
Recentemente mi è capitato tra le mani – gradito regalo dell’amico Piergiorgio Seveso – un saggio storico di Hilaire Belloc, giornalista, polemista e amico fraterno di G. K. Chesterton, dedicato alla figura del duca Armand-Jean du Plessis, il celebre “Cardinale Richelieu”.
Il testo, intitolato semplicemente Richelieu, data 1938 e rappresenta una delle più belle tra le numerose biografie che lo studioso britannico ha dedicato ad alcune decisive figure della storia europea come Cromwell, Giacomo II e Napoleone. Coerentemente all’adagio per cui la corretta conoscenza del passato è l’unico strumento per l’edificazione di un futuro più vero e libero, in Richelieu Belloc si lancia nello studio appassionato di uno dei personaggi che più ha segnato il vecchio continente in epoca moderna.
Noto a tutti attraverso le pagine de I tre moschettieri, nellavulgata comune la figura di Richelieu è ancora relegata alla scomoda posizione dell’eminenza grigia assegnatagli da Alexandre Dumas. Egoista, autoreferenziale e arrogante, il suo volto affilato e la determinazione che fa capolino nello sguardo sono i tratti distintivi di una macchiettistica rappresentazione della corruzione ecclesiastica del XVII secolo. D’altro canto, però, dipinti come quello di  Henri-Paul Motte in cui il cardinale, vestito con una lucente armatura bruna, osserva soddisfatto il compimento dell’assedio della fortezza ugonotta di La Rochelle, hanno contribuito ad esagerarne le virtù, trasformandolo addirittura in una sorta di nuovo crociato.
L’opera di Belloc – purtroppo oggi non più edita in Italia, ma comunque facilmente reperibile on-line – si pone l’obiettivo di ristabilire la verità su Richelieu, scopo ottenuto grazie alla ricostruzione, storicamente ben documentata, delle luci e delle ombre che ne caratterizzarono l’esistenza.
Il cardinale è innanzitutto ricollocato nel peculiare contesto storico in cui visse, quel XVII secolo in cui l’Europa era attraversata da due grandi fratture: la contrapposizione tra l’antica cultura cattolica e quella protestante, e la funesta “religione del patriottismo”. Richelieu fu protagonista indiscusso di questa drammatica rivoluzione che spazzò definitivamente ogni ricordo della christianitas medievale, anzi, «la volontà di un solo uomo, più che ogni altra forza cosciente, fu l’origine di questo stato di cose». Il cardinale – in questo un antesignano di Bismarck – fu colui che, più di altri, con la sua opera fondò il nazionalismo moderno e, allo stesso tempo, rese permanente la frantumazione religiosa già in atto.
Nel rendicontare la carriera di Richelieu, Belloc non può fare a meno di sottolineare l’apparente contraddittorietà di un carattere che alternava sprazzi di lucidità e determinazione, a momenti di tolleranza e compromesso. Se il cardinale, in tal senso, sembrò fautore di una politica altalenante, in realtà, la sua azione – che ebbe il merito di condurre la Francia, almeno per qualche tempo, nel “Grande secolo”, ai vertici della politica europea – è segnata da una forte unità.
Le sue capacità di amministratore le aveva già ampiamente dimostrate mentre era vescovo di una piccola diocesi, così come l’abilità strategica era stata consolidata nel corso di lunghi anni di studio presso l’accademia militare. Brillante diplomatico ma, all’occorrenza, astuto doppiogiochista, Richelieu divenne il deus ex machina del tardo ‘600 attraverso la conduzione di una politica aggressiva e fortunata. In una Francia prostrata dalle difficoltà, il cardinale si preoccupò dapprima di eliminare l’aristocrazia calvinista in costante subbuglio, poi rafforzò l’esercito, la burocrazia e la corona – aprendo la strada all’assolutismo –  e, infine, antepose gli interessi francesi a quelli del mondo cattolico durante la Guerra dei Trent’anni. Ai calvinisti d’oltralpe, resi innocui politicamente, garantì la libertà di culto e, a ulteriore testimonianza di come la religione fosse da lui considerata ampiamente accessoria sul piano temporale, comprò e scatenò contro l’imperatore la terribile macchina da guerra del luterano Gustavo Adolfo Vasa. Se la smaccata ostilità nei confronti degli Asburgo fu premiata con una vittoria sul campo di battaglia, certamente essa fu anche e soprattutto una disfatta spirituale per il continente.
La fine di Richelieu giunse improvvisa, cogliendo il cardinale al culmine della sua opera, senza quell’elemento tragico che rischia di rendere troppo umana una figura che era ormai diventata mitologica. Con lui era nata l’Europa moderna, quella del pluralismo religioso e quella dei nazionalismi esasperati. Ma questo fu ottenuto a caro prezzo e, con il senno di poi, tutto sommato per un ben misero guadagno. Come unica scusante – ma è una magra consolazione – ci si può appellare all’inconsapevolezza ultima che anima i protagonisti della storia nel mezzo delle loro gesta.
Richelieu morì il giorno di Santa Barbara e il Papa a Roma salutò la sua dipartita con aspre parole: «Se c’è un Dio, il cardinale avrà molti conti da rendergli. Se non c’è, ebbene, egli ha vissuto una bella esistenza».

Luca Fumagalli (Fonte: http://radiospada.org/)

Feldmaresciallo Carlo Gelb Edler von Siegesstern


Feldmaresciallo Carlo Gelb Edler von Siegesstern


Il goriziano Carlo Gelb Edler von Siegesstern, nato il 2 luglio 1857, morto in esilio a Villach il 2 gennaio 1943. Il titolo nobiliare era "militare", il nome della famiglia è di probabile origine israelita; non sappiamo la sua religione perchè tale informazione non veniva mai riportata nei ruoli delle forze armate.
Nominato feldmaresciallo, fu comandante della 17. ID che aveva il comando a Nagy Varad (anche nota come "Varadino", la città della tomba di Arpad), in Transilvania.
La Divisione era composta dalla 33. Infanteriebrigade, dalla 34. dal reggimento di artiglieria da campagna 19. e dal 7. reggimento artiglieria da fortezza. La 33. brigata era composta da 2 battaglioni del 37. IR e 39. IR più 3 battaglioni del 101. IR.
La 34. Brigade era composta da 3 battaglioni del 37. IR, 3 del 46. IR e dal 46. battaglione pionieri.
Il 37. IR era un reggimento ungherese ma KuK con comando ed 1 battaglione a Zagabria, gli altri in Transilvania.
Il 39. IR era un altro reggimento ungherese ma KuK con comando e tre battaglioni a Vienna, il quarto a Debrecen.
Il 46. IR era un altro reggimento ungherese KuK, tutto di Szeged.
Il 101. IR era tutto di Nagy-Várád.
La divisione di Gelb era composta in maggioranza da transilvani di lingua romena, poi di lingua magiara, poi croata e poi austriaca.
La 17. ID era giunta sull'Isonzo nel breve periodo tra la fine della prima e l'inizio della seconda battaglia. Perse 10 mila soldati nel corso della seconda battaglia, fu mandata ad affiancare la 20. ID distrutta già nei primi giorni nella zona San Michele.
La 17. ID rimase sempre in campo nonostante le gravissime perdite; non ci fu mai tempo di mandarla nelle retrovie per ricostituire i ranghi con i rincalzi. Un suo reggimento perse quasi 500 uomini in poche ore.
Durante quei giorni le 4 vette del Monte San Michele furono conquistate dagli italiani, quasi una decina di volte; la vetta più alta 4 volte.
Ogni volta le Divisioni di fanteria sostenevano i bombardamenti italiani che li decimavano, opponevano la più strenua resistenza per eliminare quanti più invasori possibile, cedevano lentamente terreno nella difesa elastica di cui erano maestri. Questo nella parte boscosa, in quella già desertificata era tutto più banale.
Ogni notte, le cime perdute venivano riconquistate tramite i contrattacchi, cui partecipavano i nostri cari bosniaci della 2 Brigata da montagna, chiamati anche a singole compagnie, a svolgere il futuro compito delle Sturmtruppen.
Gli italiani erano già terrorizzati da essi, ne avevano conosciuti alcuni negli attacchi al Mrzli Vrh nella prima battaglia e le voci si erano diffuse rapidamente.
Dopo che i bosniaci avevano riconquistato le cime nei loro attacchi notturni apparentemente temerari ed impossibili, seguivano i reparti di fanteria che dovevano continuare e consolidare immediatamente le trincee, in previsione dell'attacco di artiglieria italiano che sarebbe scattato qualche ora dopo l'alba.
In quei giorni si distinse anche il 28. Hausregiment di Praha, già sciolto con ignominia sul Passo Dukla, tanto che fu riabilitato.
Quando le rare cronache occidentali entrano nel dettaglio etnico, si fermano sempre a dire che la 17. ID era "ungherese". La realtà linguistica ed etnica delle nostre truppe era in realtà molto più complessa e variegata, gli occidentali non riusciranno mai a comprendere che anche una singola persona poteva avere diverse identità linguistiche. Nel caso del Banato e del Siebenbürgen, le lingue reggimentali erano addirittura 5.
Nella seconda micidiale battaglia dell'Isonzo con mortalità doppia della già sanguinosa prima battaglia, era ormai chiaro che sul fronte italiano non esistevano problemi di "affidabilità etnica" delle truppe. Tutti e veramente tutti i popoli dell'Impero, covavano lo stesso sdegno contro l'infame Italia traditrice ed aggressiva, che specie nei combattimenti corpo a corpo sempre cercati dalle nostre truppe, si trasformava in furia omicida e vero e proprio odio per gli invasori e traditori.
Sempre nella 2 Battaglia dell'Isonzo, ci fu il sacrificio del X M/baon del 97° IR Reggimento di Trieste, a Bosco Cappuccio nei pressi di San Martino. Il battaglione fu annientato più di una volta, perchè perse oltre 1.000 uomini, non sappiamo se in una o due battaglie. I morti del X M/baon del 97. IR erano come sempre triestini, gradesi, friulani e sloveni del Litorale, qualche croato del Litorale.
Ogni volta che la gente del Litorale guarda il San Michele, potrebbe ricordarsi dei propri veri eroi che erano nonni, bisnonni e prozii. Non certo quegli strani esseri tanto diversi da loro che aggredivano e che avrebbero stravolto l'ordinato, civilissimo e progressita mondo dei loro nonni.
Le truppe di Gelb cercavano di metterci ancora più degli altri, perchè Gorizia era la città natale del loro amato comandante.
Grazie nostri cari avi mitteleuropei, il vostro comportamento fu esemplare per respingere gli invasori che volevano portare la loro corruzione nelle due Capitali dell'Austria Ungheria.
Le 12 battaglie dell'Isonzo furono uno scontro di civiità, più dell'assedio di Vienna del 1683. Se ora a Vienna, Budapest e Praga non si suona lo scacciapensieri, se non c'è la mafia e la corruzione, è merito di quei nostri nonni, prozii e dei loro camerati.

Fonte: -Prima Guerra Mondiale- 


Di Redazione A.L.T.A.