sabato 28 febbraio 2015

Kaiser Ruft!





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Monsignor Umberto Benigni


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Nell’anniversario della morte di Monsignor Umberto Benigni, fondatore del Sodalitium pianum, avvenuta il 27 febbraio 1934, riportiamo da Radio Spada un interessante citazione dalla sua “Storia sociale della Chiesa, volume V. La crisi medioevale”  pubblicato da Vallecchi editore nel 1933, pp 493.494. Monsignor Benigni, da storiografo cattolico qual era, riteneva che l’ebraismo della diaspora fosse il principio (remoto o prossimo) di qualunque moto realmente sovvertitore ed eversivo nel campo sociale e religioso nella storia dell’Europa cristiana.
In fondo, la soluzione del problema è molto semplice. Il supremo settarismo esoterico, eversore totalitario d’ogni ordine religioso e civile – questa è la quintessenza del satanismo – controlla ogni movimento eversivo e lo integra. E’ un movimento religioso? Vi inserisce quello sociale-civile. E’ tale? Vi inserisce l’eversione religiosa. Questo supremo settarismo è la spora sopravvivente di ogni cancro sociale che appare sul corpo del consorzio umano; diciamo meglio, tale spora rende cancro anche un semplice tumore. Ecco perché tra le altre ragioni san Giovanni apostolo ha dato l’allarme cotanto frainteso o trascurato: “O kosmos olos en to ponero ketai” (il mondo è posato, giace, nel malvagio, cioè nel male efficiente). Sia detto in buona pace di tutti, ché queste pagine sono veramente redatte “sine ira et partium studio”: tutta la prospettazione basilare che qui sopra abbiamo tentato di riassumere esula completamente dalla visuale di tanti egregi uomini, studiosi e reggitori, fissati nella visione stilizzata accademica, libresca, come dicono coll’espressivo vocabolo “livresque” i francesi. Accademici o governanti spirituali e temporali si son lasciati, attraverso i secoli, allucinare da chi voleva togliere il loro sguardo dall’approfondimento della rispettiva situazione, oppure sortirono dalla natura l’occhio della mente insanabilmente miope. Possono essere, gli uni dotti, eruditi, blindati di documenti pubblicati da un corpus all’altro, e gli egregi ed abili gestori delle cose pubbliche: sono queste le loro colonne d’Ercole. Parlate loro di un mondo che sorge dall’altra sponda del loro “Atlantico”; vi risponderanno col sorriso scettico che immortalò i professori di Salamanca ironicamente sorridenti a Colombo. Un giorno al dittatore Kerenski fu mandato a dire che un furibondo oratore, dalla finestra d’una casa di Pietroburgo, eccitava la folla a ribellarsi al ribelle. Chi diamine sarà? Kerenski fu presto tranquillizzato; gli fu riferito che era quello strambo di Lenin, un pazzo bolscevico, a cui nessun uomo equilibrato avrebbe dato retta: ma quel “Kerenski” vive da secoli, ed è sempre lo stesso. Si dette alla pazza gioia dopo il concilio scismatico di Basilea, mandandolo a ripaglia con l’antipapa Felice. Scosse scetticamente le spalle, vedendo un “litigio tra frati” gelosi, nella scenata fatta alle porte dell’università di Vittemberga da quello strambo Lenin fratesco che fu Martin Lutero. Pensò alla corte di Versaglia che la rivoluzione francese fosse una rivolta da dare una qualche seccatura. Questo “Kerenski” millenario è preso dalle allucinazioni restaurazionistiche. Nel Settecento giurò sul ritorno degli Stuart sul trono inglese; nell’Ottocento sulla intronizzazione portoghese di Don Miguel, spagnuola di Don Carlos, francese del conte di Chambord. Quando egli, in quel torno, montò il sonderbund separatista della Svizzera, dormì tranquillo sul guanciale del coraggioso e fedele Metternich (se ci fu uno né coraggioso né probo, fu proprio lui) al cui ordine quell’esercito austriaco il quale aveva visto sconfiggere Napoleone, avrebbe schiacciato le truppe bernesi. Quando lo cacciarono nel 1859, quel “Kerenski” scosse la machiavellica testa, mormorando: è un altro Quarantotto. Quando lo cacciarono del 1917, fece lo stesso scrollo e brontolò: è un altro 1905. Oggi… L’oggi è troppo oggi per continuare la miserevole serie qui; ma essa continua e continuerà là. Difatti a chi scrive queste non liete pagine, hanno parlato faccia a faccia, attraverso gli anni della sua lunga vita, vari “Kerenski”, che qui è inopportuno individuare. […] Tutte egregie persone, spesso ingegnose e colte, ma in fondo più vecchie dei loro vecchi idoli politici e sociali, avevano dimenticato il “totus mundus in maligno positus est” di san Giovanni Evangelista. […] Ecco perché malgrado Ildebrando, Bernardo, Innocenzo III e Simone di Montfort, il grande Medioevo, invecchiato come ogni cosa umana, fu scosso e poi diroccato da grosse e piccole catapulte, manovrate da mani nascoste, da eresie e sette sovvertitrici religiose e civili, finendo indecorosamente, nel crepacuore di Papa Bonifacio, nell’esilio di Avignone, nella tregenda dello scisma con due o tre papi simultanei fra i quali anche santi, come Vincenzo Ferrer, non riuscivano talvolta a discernere l’autentico. Se il crollo del Medioevo fosse stata pura opera interna, cioè dalla pura e semplice decrepitezza di quell’epoca, sarebbe sorta una nuova epoca, sana e forte. Invece, grazie all’opera sistematicamente evoluta di elementi motori, l’eversione sociale continuò, erompendo ad ogni stagione maturata: la riforma primigenia, la riforma del secondo tempo, nettamente democratica e regicida, poi la rivoluzione francese, poi il resto…
(testo raccolto a cura di Piergiorgio Seveso)
Altri articoli su Monsignor Benigni in Radio Spada:

Sulla legittimità di esercizio.




Molto spesso si sente parlare o si tratta dell'argomento relativo alla legittimità di origine (chiamata da San Tommaso, di acquisizione), uno dei due requisiti necessari che il Principe deve possedere se vuole provare i suoi legittimi diritti al Trono . In questo articolo cercherò di parlare della legittimità d'esercizio (chiamata anche da San Tommaso, di amministrazione).

Come ha osservato Fernando Polo nel suo libro "¿Quién es el Rey?", il termine "legittimità di esercizio"  dovrebbe essere modificato  in "legittimità nell'esercizio" riferendosi  alla legalità nel modo di governare, come il monarca governa , cioè in che modo esercita la sua missione, se il suo governo è volto a ciò di cui il popolo necessita,  rispettando la legge di Dio e ciò che permette il diritto positivo .

Questo ci ricorda una frase di San Isidoro di Siviglia, nella quale egli dice; ""Rex eris si facias recte, si non facias, non eris".", cioè ; "Sarai Re se agirai rettamente, se non lo farai, non sarai".
Quindi, con il termine "legittimità di esercizio"  si evidenzia che l'esercizio del potere reale è legittimo. Quindi, se non vi sono errori nell'esercizio del governo, non sono presenti errori nell' esercizio legittimo del potere reale, solo a quel punto il sovrano acquisisce piena legittimità.

Vediamo ora alcuni esempi nella storia recente di Spagna , che illustrano quanto precedentemente esposto.

Tra 1863 ed il 1868, il secondogenito di S.M.C. Carlo V, Giovanni III , Conte di Montizón, che aveva  assunto la Corona tra la coatta abdicazione e la misteriosa  morte del fratello maggiore , S.M.C. Carlo VI, cadde nell'esclusione dai suoi diritti , venendo meno nella legittimità di esercizio dal momento in cui  prese direzioni nettamente  liberali  . Arrivò addirittura a  riconoscere il ramo usurpatore.
Questo spinse la sua "matrigna", la Regina vedova Maria Teresa di Braganza, a pubblicare un manifesto ai Carlisti , il 25 settembre 1864 , dichiarando l'illegittimità di Don Juan , proclamando Re il figlio di questo, il Principe Don Carlo.
 Un ampia frangia del Carlismo, appoggiò il manifesto dell'Infanta María Teresa, riconoscendo come legittimo Re  Don Carlo di Borbone e Austria-Este,  primogenito maschio di Don Juan, come Carlo VII. 
Un altro  settore del Carlismo , capeggiato da Ramón Cabrera, allo stesso modo del Conte di Chambord (Enrico V di Francia), continuò a riconoscere come Re Don Juan, fino all'abdicazione di quest'ultimo in favore del  Principe  Don Carlo avvenuta il 3 Ottobre del 1868. 


Un altro esempio, ben conosciuto dai carlisti , è il caso del Principe Carlo Ugo di Borbone, che in teoria avrebbe dovuto succedere  al padre  Re Javier I , però a causa delle circostanze non favorevoli venutesi a creare , la successione trascorse in maniera inusuale.
A partire dagli anni '60, cominciarono a diffondersi una serie di idee , che ebbero il sostegno da parte del Principe Carlo Ugo, contrarie all'ideologia tradizionale del carlismo. Il Principe Carlo Ugo, sostenne  che il carlismo, doveva adottare per i tempi a venire, tesi  e  posizioni come per esempio : l'utopico "socialismo autogestionario", il laicismo e la libertà religiosa, il riconoscimento e la collaborazione con gli usurpatori della Corona, e altro ancora. Questo creò profonde divisioni all'interno della Famiglia Reale: da una parte v'era la Regina Donna Magdalena, l'Infante Don Sisto Enrico e l'Infanta Donna Francesca, che difendevano la Tradizione; e  per contro Carlo Ugo e le sue sorelle , Maria Teresa, María Cecilia e María de las Nieves, optarono per scendere a compromessi con la Rivoluzione . Don Javier, al momento convalescente , venne "manipolato" in maniera meschina da Carlo Ugo, il quale lo obbligo  a firmare dei documenti che supponevano la distruzione del carlismo. In questa situazione, Donna Magdalena e Don Sisto si comportarono come veri eroi della Comunión Tradicionalista. Nel 1976, Don Sisto lanciò il Manifiesto de Irache, e  a partire da quel momento, si pose a capo della Comunión.
Quindi, è evidente  la perdita della legittimità di esercizio di Carlo Ugo, e la  sua esclusione dall'ordine successorio.

Un altra cosa che dovrebbe essere evidente , è  che , se un principe perde la sua legittimità di esercizio, conserva comunque la sua legittimità di origine, tranne nel seguente caso: il principe che usurpa una dignità o titolo che per diritto  non gli spetta , incorre nella perdita della legittimità di origine temporalmente. Questa  perdita della legittimità di origine , comporta l'esclusione del principe e della sua discendenza dall'ordine successorio. La sua legittimità di origine ,  può essere recuperata solo se egli  riconosce solennemente e veridicamente il Re legittimo.

 Per esempio, i discendenti dell'Infanta María Luisa Isabella (chiamata da alcuni pseudomonarchici  "Isabel II di Spagna"), hanno perso tanto la legittimità di origine quanto quella di esercizio, a causa di una usurpazione continuata e reiterata. 

Detto ciò , sono ovvie le seguenti affermazioni ;


- La legittimità di origine è sovrapersonale e dinastica. Quindi, la legittimità di origine  non solo condiziona il principe, ma condiziona allo stesso modo anche la sua discendenza.


- La legittimità di esercizio è propria e unica del principe, e non condiziona in  principio la sua discendenza (tranne nel caso sopra esposto) 



Risulta dalla questione , che la legittimità di origine condiziona, se è possibile,  molto più che la legittimità di esercizio: se un principe non possiede  la legittimità di origine,  di conseguenza , non può auto affermare la propria legittimità , eccezion fatta  se il ramo legittimo è completamente estinto , o se  il suddetto ramo  ha perso o rinunciato definitivamente al suo diritto. La legittimità di origine non è semplicemente la genealogia di un principe, ma  la rivendicazione per i titoli o dignità reali , del suo diritto al trono.

La legittimità  di origine comporta il rispetto di quella di esercizio. Chi possiede il diritto legittimo di sangue a esercitare il potere deve governare nel bene e per il bene; colui che non lo fa decade.  


Fonte: 

http://nodulodelalegitimidad.blogspot.it/




Di Redazione A.L.T.A. 

martedì 24 febbraio 2015

Il Duca di Guisa contro la peste protestante


Francesco di Lorena, secondo Duca di Guisa (1550), Conte e poi Duca d'Aumale e pari di Francia, Marchese di Mayenne, Barone e poi Principe di Joinvillegran maestro di Francia , nacque il 24 febbraio 1519 a Bar-le-Duc  , figlio primogenito maschio di Claudio I di Guisa (1496 – 1550) e di Antonia di Borbone-Vendôme (1493 – 1583). 
Francesco sposò il 29 aprile 1548 Anna d'Este, figlia di Ercole II d'Este, Duca di Ferrara, Modena e Reggio, e di Renata di Francia, figlia di Luigi XII di Francia.
Nel 1545 prese parte all'assedio di Boulogne contro gli inglesi nel corso della quale fu gravemente ferito. Comandante di grande audacia e coraggio in guerra, fu nominato governatore di Metz da Enrico II di Francia  e resistette vittoriosamente all'assedio portato dall'Imperatore Carlo V, obbligandolo a levare l'assedio nel 1552. Lo sconfisse poi nella battaglia di Renty (1554). Fra il 1556 ed il 1557 fu a capo del corpo di spedizione francese  che tentò di conquistare la città di Napoli . Ritornato in Francia, fu nominato luogotenente generale del Regno e riprese Calais agli inglesi nel 1559. 
 Alla morte di Enrico II, il nuovo re di Francia , Francesco II, gli affidò il governo. Francesco di Guisa ed il fratello, cardinale di Lorena, abile politico , permisero alla famiglia dei Guisa di salire all'apice del prestigio. Fervente difensore del Cattolicesimo, Francesco di Guisa rispose alle continue violenze perpetrate dagli eretici nella così detta "congiura di Amboise", segretamente sostenuta da Luigi I di Borbone-Condé
A capo della Lega Cattolica contro gli eretici, li sconfisse nell'ottobre dello stesso anno nella battaglia di Rouen e in dicembre nella battaglia di Dreux. Tentò di riconquistare Orléans quando il 18 febbraio 1563 venne assassinato  da un sicario degli ugonotti (Jean de Poltrot de Méré)
Francesco I di Guisa morì da vero difensore del Cattolicesimo Romano contro le menzogne e le violenze perpetrate dagli eretici.   
Gli eretici si macchiarono di numerose stragi in tutta la Francia, ma la storiografia ufficiale ricorda solo la "notte di San Bartolomeo", quando il popolo parigino esasperato reagì contro i crimini degli ugonotti. 

Di Redazione A.L.T.A. 

domenica 22 febbraio 2015

LA CIVILIZZAZIONE ED EVANGELIZZAZIONE SPAGNOLA DELLE AMERICHE (Parte Seconda).



Francisco Pizarro, le prime spedizioni a Sud e l'incontro con l'Impero Inca.




Antica mappa dell'istmo del Darién e di Panamá
Nel 1522 giunse alla guarnigione spagnola di Panamá la notizia dell'eroica impresa di Hernán Cortés. Tale notizia spinse uomini di valore a prendere una ardita decisione . 
Il condottiero Pascual de Andagoya, munito di una patente ufficiale partì, nel 1522, su una piccola nave , e si diresse verso Sud, lungo le coste sconosciute dell'attuale Colombia. Raggiunse un fiume, detto Birù dagli indigeni (dal quale deriva il nome Perù). Andagoya tornò alla guarnigione con scarsa soddisfazione e con la consapevolezza che le coste a sud di Panamá erano ostili e inospitali. Tuttavia portava anche delle notizie raccolte in alcuni villaggi incontrati durante il suo viaggio. Queste voci narravano di un grande e ricchissimo regno posto più a Sud dove l'oro era diffuso e d'uso comune. 
 Francisco Pizarro

Le voci su un fantomatico regno dell'oro si sparsero per tutta la guarnigione sollevando ironiche battute dei più. Non tutti però  erano disposti ad accantonare tali voci come semplici leggende. Tra questi v'erano Francisco Pizarro , Diego de Almagro ed Hernando de Luque

I tre arditi avventurieri decisero di consorziarsi per dare corpo alla spedizione. Pizarro ne fu comandate. L'avvio della spedizione avvenne nel novembre del 1524. Come convenuto la comandava Pizarro che si imbarcò, alla testa di cento uomini, su un solo vascello. Almagro doveva raggiungerlo con un'altra imbarcazione, al momento in riparazione. Nell'attesa reclutò quanti più uomini avesse potuto radunare a Panamá. 



 Diego de Almagro
Ciò che in origine spinse questi uomini, come quelli di Cortes, ad arruolarsi ed intraprendere questa avventurosa impresa , assai rischiosa , ce lo fa sapere uno di loro, con tutta sincerità; un modesto soldato, Bernal Díaz del Castillo: "Per servire Dio, Sua Maestà, e per dar luce a quelli che erano nelle tenebre ed anche per acquistare ricchezze, che è di tutti gli uomini desiderare e cercarePer servire Dio, Sua Maestà, e per dar luce a quelli che erano nelle tenebre ed anche per acquistare ricchezze, che è di tutti gli uomini desiderare e cercare". 




Pizarro giunse agevolmente all'imboccatura del fiume Birù che era il limite estremo raggiunto da Andagoya, e un'esplorazione sommaria del luogo lo convinse a proseguire. 
Pizarro ed i suoi uomini   impiegarono l'attesa per esplorare il territorio, acquitrinoso e malsano, ma non incontrarono anima viva e non trovarono nemmeno di che cibarsi. 
Il ritorno era ormai l'unica via da seguire e seppure combattuto , Pizarro infine decise per il ritorno . Non temeva l'ira di Pedrarias ma il mancato successo e lo smacco che , da uomo di coraggio, non voleva macchiasse la sua persona. Giunto a Chicamá, nei pressi di Panamá non si risolveva ad entrare in città. Mentre stava titubante in attesa del da farsi, apparve la nave di Almagro che essa pure rientrava alla base. I due avventurieri poterono riabbracciarsi e Almagro raccontò le sue peripezie.
Partito a sua volta da Panamá aveva incontrato le stesse difficoltà del suo commilitone e lui pure, in mancanza di viveri, aveva cercato oro e provviste inutilmente. Subì a sua volta l'attacco dei bellicosi indigeni, ma era riuscito a respingerli se pur a prezzo di alcune perdite, restando lui stesso ferito ad un occhio di cui avrebbe perduto, in seguito, l'uso. Era quindi tornato alla base preoccupato per la sorte dei compagni che non aveva incontrato.

Almagro e Pizarro decisero di ripartire nel 1526, questa volta insieme anche se su due navi distinte. Le vicende di questa spedizione non si discostarono molto da quelle della precedente. 
Pedro Arias de Avila 
Il governatore di Panamà (Pedro de los Rios) armò due navi e le inviò alla ricerca del corpo di spedizione con l'ordine di imbarcare tutti i sopravvissuti. Al loro arrivo gli inviati del governatore si scontrarono con la risolutezza di Pizarro. L'intrepido capitano non intendeva rinunciare all'impresa e si rifiutò di tornare. Con lui rimasero tredici coraggiosi , altrettanto determinati. Essi erano: Bartolomé Ruiz, Cristoval de Peralta, Pedro de Candia, Domingo de Solfana, Nicolas de Rivera, Francisco de Cuellar, Antonio de Molina, Pedro Alcon, Garcia de Jerez, Antonio de Carrion, Alonso Buceno, Martín de la Paz, Juan de la Torre. Sarebbero stati ricordati come "Los trece de la fama". 
Chiunque, di fronte a tali difficoltà avrebbe abbandonato l'impresa, ma Pizarro era risoluto nel portre a termine la missione e decise di verificare le notizie che Ruiz aveva raccolto, alcuni mesi prima, dagli indigeni incontrati sulla zattera. Costoro avevano assicurato di provenire da una ricca città di nome Tumbez, situata più a Sud, e il coraggioso capitano fece arditamente dirigere la prora del vascello di soccorso in quella direzione.


Collocazione geografica della città di Tumbez


Dopo venti giorni di navigazione la nave, entrando in una baia, si trovò, in effetti, di fronte ad una vera e propria città, dotata di templi e abitazioni in pietra. Si trattava di Tumbez. Gli uomini di Pizarro non si erano ancora riavuti dalla sorpresa quando un nugolo di canoe si staccò dalla riva e andò incontro al battello. La situazione sembrò divenire drammatica, ma gli indigeni non erano animati da intenzioni ostili ed anzi recarono provviste di ogni genere, composte da carichi di frutta, selvaggina e pesce appena pescato. 
Si stabilirono presto dei rapporti amichevoli e un dignitario locale venne invitato a visitare il vascello. Pizarro ed i suoi non sapevano che si trattava di un rappresentante imperiale. Successivamente fu il loro turno di scendere a terra, cosa che  fecero con saggia circospezione  inviando un soldato. Al suo ritorno costui raccontò di aver visto dei templi lastricati d'oro e d'argento ma  non venne creduto. Scese allora a terra uno degli avventurieri più capaci, Pedro de Candia, sulla cui avvedutezza tutti erano pronti a giurare, ma al suo ritorno anche lui confermò le impressioni di ricchezza che avevano abbagliato il semplice soldato.
Iniziò così una serie di amichevoli rapporti con gli indigeni locali che si protrassero per molti mesi. Gli uomini di Pizarro intrapresero nel frattempo una fugace esplorazione a Sud che palesò ulteriormente le ricchezze di quella terra. Al momento di lasciare Tumbez ottennero di portare con loro alcuni giovani locali, con l'intenzione di farne degli interpreti e, a loro volta, lasciarono nella cittadina tre volontari che si offersero di restare ad attenderli.

Dopo circa diciotto mesi di assenza Pizarro rientrò infine a Panamá. Portava con sé degli strani animali, delle stoffe finemente tessute e un ricco campionario di manufatti indigeni, oltre ad alcuni fanciulli ben più civilizzati dei soliti indigeni con cui gli abitanti di Panamá erano abituati a trattare. 
Pizarro era certo di ottenere degli appoggi per un altra spedizione da parte del governatore di Panama il quale, però , disilluse presto le sue certezze.  
Pizarro e  Almagro si ritrovarono in una situazione di stallo , senza più denaro, non riuscendo a trovare nuovi creditori e con il nuovo governatore che si rifiutava di concedere l'autorizzazione per una nuova spedizione. In questa situazione non restava che una strada: l'appello diretto alla Corona, la sola autorità che avrebbe potuto scavalcare gli ordini del governatore Pedro de los Rios. Occorreva però trovare del denaro e scegliere l'uomo adatto per rivolgersi al sovrano. Almagro riuscì a raccogliere quasi duemila pesos tra gli amici disposti ad aiutarlo e Pizarro si offrì volontario. Le richieste da presentare a Corte furono meticolosamente convenute e, finalmente, Pizarro, accompagnato da Pedro de Candia si imbarcò alla volta della Spagna. 

S.M.R.I. Carlo I di Spagna
 e V del Sacro Romano Impero.
Appena giunto venne però arrestato per una storia di debiti insinuata da un antico governatore delle provincie e solo dopo un periodo di prigionia ottenne di essere ricevuto alla presenza di Carlo I che allora aveva corte in Toledo. Il sovrano restò favorevolmente colpito dai racconti che Pizarro gli fece di ciò che aveva visto e decise di accogliere le sue richieste. Seguendo la politica iniziata dai suoi predecessori, Isabella e Ferdinando, Carlo I  decise di appoggiare l'impresa. 
Il sovrano dette disposizioni perché venissero stesi degli accordi ufficiali per l'impresa nelle terre del Perù, come ormai veniva chiamato il territorio appena scoperto.
 Le navi presero il largo, il 19 gennaio del 1530, con quanti avevano già aderito e lui rimase ad attendere i messi governativi con un ultimo legno e pochi compagni. 
 Almagro,  assieme a Luque,  aveva traversato l'istmo e si era portato ad attendere Pizarro a Nombre de Dios, il luogo abituale dello sbarco delle navi provenienti dalla Spagna. 
Una volta giunto Pizarro, rientrarono a Panamá per organizzare i preparativi della spedizione. 



Percorso della spedizione in Perù

Nel gennaio del 1531 la spedizione ufficiale prese finalmente il largo da Panamá alla volta delle terre del Sud. La componevano meno di duecento uomini di cui solo trentasette muniti di cavalli.  Alcuni uomini, poi, non avevano ancora esperienza delle Indie e il saggio comandante decise di farli impratichire nelle giungle tropicali prima di iniziare le operazioni. 

Quando le operazioni ebbero inizio, la contrada che Pizarro ed i suoi dovettero attraversarono era però infetta e quasi tutti contrassero una sorta di infezione che si manifestava sotto forma di grosse verruche, dolorose e qualche volta mortali.
Mentre il comandante pensava al da farsi, lui ed i suoi uomini vennero avvicinati da una schiera di canoe provenienti dall'isola di Puna. Si trattava di un popolo bellicoso che si sapeva nemico di Tumbez. Pizarro, con pochi uomini ,  decise saggiamente di non prendere decisioni che avrebbero condotto ad uno scontro decisamente impari. Una volta giunti nell'isola di Puna , gli avventurieri approfittarono della situazione per riposare. 
Sull'isola giunsero dei tumbezini . L'odio tra le due etnie era profondo e Pizarro si ritrovò nel mezzo . La tensione crebbe e Pizarro, alleato dei tumbezini ,  fece arrestare i capi dell'isola, riuniti in un concilio e li consegnò agli alleati . Questi  li trucidarono tutti.

Sebastián de Belalcázar
Gli uomini di Pizarro fecero fronte con coraggio e riuscirono a tener testa agli isolani in soprannumero . Decisero quindi di accettare le offerte dei tumbezini e si apprestarono a sbarcare nella loro città. Le navi di de Soto e di Benalcázar non erano sufficienti a imbarcare tutti gli uomini, ma un buon numero di balse venne messo a loro disposizione dagli alleati e infine tutti furono per mare.
Pizarro aveva un ottimo ricordo della città. I suoi abitanti si erano dimostrati cordiali ed ospitali quando giunse per la prima volta , e furono cordiali per tutta la durata della sua permanenza. Egli, quindi,  si aspettava un'accoglienza amichevole, tanto più che erano entrambi reduci da una guerra comune contro l'isola di Puna. 
Ma, quando la prima balsa toccò terra venne attaccata e i suoi occupanti trucidati. Le navi non potevano intervenire per lo scarso fondale e le altre balse dovettero cavarsela da sole. Fu provvidenziale l'intervento di Hernando che, sbarcato in una zona isolata, rinvenne a cavallo sul luogo dell'attacco riuscendo a mettere  in fuga gli aggressori.
Una volta sbarcati, Pizarro e i suoi si accorsero con tutta evidenza che le cose erano cambiate profondamente, che una sorta di anarchia aveva preso piede in quelle terre. Ovviamente , i due soldati che erano rimasti in città dopo il primo viaggio erano stati uccisi durante i disordini.  
Quella ricca città lastricata d'oro e d'argento di nome  Tumbez si presentò ridotta ad un cumulo di macerie. Pizarro diede ordine di mettersi alla ricerca degli abitanti sopravvissuti. Furono trovati al di là di un fiume schierati in assetto difensivo. Gli uomini di Pizarro costruirono una zattera e, attraversato il corso d'acqua, parlarono con il loro capo, Quillimassa, che si mostrò collaborativo. Dietro suo ordine gli abitanti superstiti rientrarono nelle loro abitazioni alleandosi con quegli avventurieri che avevano messo ordine nella città e si misero a loro disposizione. 
Gli Spagnoli ebbero allora concreta cognizione della reale situazione del territorio in cui erano sbarcati. Gli indigeni parlavano di una guerra civile in corso sulle montagne che sovrastavano il paese.

Estensione territoriale dell'Impero Inca 

A questo punto del racconto , una panoramica della società Inca è di rilevante utilità per il lettore. 
La società Inca non si discostava da quella Azteca. I "grandi capi"  praticavano la poligamia; avevano dalle duecento alle trecento concubine; la favorita fra queste aveva giurisdizione sulle altre, le quali, in realtà, non erano che delle schiave di lei. L’adulterio era assolutamente permesso in questa società . I tributi dovuti alle altre tribù venivano pagati in donne. La donna era oggetto di mercato. Un parto gemellare era considerato la prova dell’avvenuto adulterio. I gemelli venivano appesi ad un albero per mezzo di un filo: il più debole moriva per primo; l’altro, se sopravvissuto a questa prova, era lasciato vivere. 
Presso gl’Incas , come già accennato,  la poligamia era la regola generale e il fratello del marito gli subentrava nel possesso delle mogli in caso di morte. I giovani venivano sottoposti ad una cerimonia d’iniziazione sessuale, nel momento in cui pervenivano alla pubertà. Questa cerimonia  costituiva un obbligo per la tribù. Durante il rito gl’indigeni facevano grande consumo di bevande alcoliche: in particolare, gl’indios stanziati nel territorio dell’attuale Colombia, erano usi sacrificare, secondo un rapporto risalente addirittura all’epoca della Conquista, "un numero infinito di bambini". Questa strage di fanciulli maschi provocava un forte squilibrio fra i due sessi: il numero delle donne era infatti enormemente superiore a quello degli uomini e tutte erano a disposizione dell’Inca, incluse le bambine di dieci anni, che a quell’età, appunto, venivano iniziate alla vita sessuale.
Era una società teocratica, non però nel senso cristiano-classico e a noi familiare della parola (che rinviene in Dio la fonte legittima di ogni autorità) bensì nel senso di una società primitiva, tribale, governata direttamente dalle entità inferiche adorate negl’idoli e, indirettamente, da una casta di sacerdoti interpreti della loro volontà perversa.
Gli astrologhi e gli astronomi vi erano tenuti in grande considerazione e tuttavia vi si ignorava la ruota e la copertura a volta degli edifici, né si conosceva la possibilità di utilizzare gli animali per il traino dei veicoli. 
Ma torniamo a Pizarro e alla guerra civile incorso nell'Impero Inca...





La guerra civile nell'Impero Inca , il Provvidenziale intervento degli Spagnoli e la conquista del                                                                                 Perù.

Huayna Cápac XII

La 
guerra civile Incaguerra dinastica Inca o guerra Inca di successione, chiamata a volte anche guerra dei due fratelli , scoppiò dopo la morte dell'Imperatore  Huayna Cápac avvenuta all'incirca  tra il 1525 ed il 1527
Quando Francisco Pizarro arrivò nell'America meridionale con pochi uomini , la voce del suo arrivo giunse all'orecchio del Sapa Inca Huayna Cápac che  si spostò a nord per investigare su quella strana persona. Non incontrò nessuno spagnolo, ma contrasse il vaiolo , che uccise sia spagnoli che incas indistintamente, e morì nel 1527. Inoltre, il suo primogenito ed erede Ninan Cuyuchi morì poco dopo lui. La scelta sulla successione era limitata ai due figli rimasti del precedente imperatore , Huáscar e Atahualpa, nati da madri diverse. Huáscar era di puro sangue reale, e Atahualpa era un figlio illegittimo.  Huáscar, appoggiato dalla maggioranza della popolazione,  divenne quindi il sovrano assoluto degli Inca, mentre il fratellastro usurpò le terre di Quito.  La fame di potere di  Atahualpa fece nascere una guerra civileAtahualpa venne descritto dagli autori del tempo, soprattutto da Garcilaso de la Vega (un indio convertito, figlio di un hidalgo, ciò di un nobile spagnolo, e di una principessa
Inca) come un "terribile persecutore, che commetteva ogni genere di atrocità di sua mano”.

Da sinistra:  Huáscar e Atahualpa 
Poco dopo che Huáscar ebbe assunto il suo legittimo incarico, si aspettava che Atahualpa e chiunque altro fosse sottomesso al dominio Inca gli giurasse fedeltà, confermando quindi la sua autorità. Atahualpa , borioso e assetato di potere, rifiutò di farlo. Questa fu la scintilla che causò la guerra e Atahualpa ne fu il principale artefice materiale  perché Huáscar era di fatto il più anziano di "puro" sangue Inca: legittimo successore di Huayna Cápac . La madre, Chincha Ocllo, ed il padre, Huayna Capac, erano fratello e sorella, il che gli conferì la purezza di sangue reale.
Il controllo di Cuzco, capitale dell'impero, passò a Huáscar alla morte del padre. Con la crescita del conflitto, Huáscar radunò un esercito sotto la guida di Atoc per prepararsi ad attaccare il fratellastro traditore. I generali di grado superiore che un tempo furono leali al padre,ChalcochimaQuizquiz e Rumiñahui, si schierarono , probabilmente per di promesse fatte loro dall'usurpatore, con Atahualpa, il quale stava radunando un esercito a Quito, nelle regioni settentrionali che era riuscito a tenere  sotto il suo controllo. 
I traditori leali all'usurpatore  Atahualpa cercarono di creare una "nuova" capitale dell'impero nella città di Tumebamba , situata nei sobborghi di QuitoAtahualpa si proclamò  re della "nuova" capitale. Huáscar, che aveva terminato di mettere insieme il proprio esercito, si diresse a nord quando seppe la notizia, nel tentativo di risolvere la questione creata dal fratellastro e rimettere ordine nell'Impero.  Il suo esercitò  attacco a sorpresa i traditori a Tumebamba. Sconfitta la guardia, Atahualpa fu catturato. L'esercito che comandava fu imprigionato durante la celebrazione della vittoria. Nel corso del banchetto gli uomini si lasciarono andare ubriacandosi e le guardie permisero ad una donna di vedere Atahualpa. Questa donna nascondeva un arnese col quale il prigioniero poté, nel corso della notte, crearsi un buco da cui evadere. Appena evaso , Atahualpa riprese il controllo del proprio esercito da Quito lanciandolo in un contrattacco.
Dal 1531 al 1532 i due eserciti si scontrarono numerose volte in battaglia. Il primo confronto si ebbe quando l'usurpatore Atahualpa si mosse a sud poco dopo la fuga, raggiungendo la città di Ambato. Qui, nelle pianure di Mochacaxa, trovò gli uomini fedeli ad Huáscar. I soldati attaccarono, sconfiggendo l'esercito lealista, e riuscendo a catturare ed uccidere il generale capo avversario, Atoc, assieme a molti altri soldati. Prima che Atoc venisse ucciso, i suoi nemici lo torturarono con dardi e frecce. Dopo la sua morte Atahualpa chiese la macabra trasformazione del teschio del generale in una coppa dorata.
Collocazione geografica della città di Cajamarca
Dopo questa vittoria, Atahualpa cercò di  rafforzare il proprio esercito proseguendo a sud invadendo altre terre . Durante il viaggio di avvicinamento a Cajamarca aumentò il proprio numero di soldati con una "coscrizione" violenta. Per prima cosa tentò di garantirsi , o meglio comprarsi, la lealtà degli uomini di Huáscar; questo per lo più non funzionava, ed egli dava libero sfogo alla sua estrema violenza , uccidendo grandi quantità di persone. Questo convinceva i sopravvissuti alla  resa. Un racconto di queste vicende narra di come Atahualpa non mostrò pietà massacrando i Cañari perché erano rimasti leali al legittimo sovrano Huáscar. Quando infine il suo esercito giunse a Cajamarca, Atahualpa mandò avanti buona parte di esso , guidato dai suoi generali capi, per proseguire l'avanzata mentre lui stava al sicuro in città. 
La campagna di usurpazione nel sud proseguì. Si tennero battaglie a Bonbon ed a Jauja. La successiva battaglia iniziò sulle pendici del colle di Vilcas, e stava per volgere verso Huáscar. Egli aveva stanziato le proprie truppe sulla cima della collina, nascosti dietro una fortezza in pietra. Con l'inizio degli attacchi, i suoi uomini persero la posizione e si ritirarono. Ci furono altri scontri a Pincos e Andaguayias mentre i soldati occupavano tutto il sud. Gli uomini di Atahualpa spinsero le truppe lealiste verso la capitale, a nordovest di Cuzco, provocando una battaglia tra Curaguaci e Auancay che fu per il despota un successo. Obbligarono gli avversari a spostarsi a Limatambo, a circa 30 chilometri da Cuzco, dove l'esercito di Huáscar fu sconfitto a Ichubamba.

Nel 1532, quando Cuzco sembrava sul punto di cadere, Huáscar inviò un nuovo esercito contro Atahualpa ma, dopo alcune battaglie, esso andò in rotta e  Huáscar fu catturato. L'esercito di Atahualpa aveva vinto la guerra. La notizia raggiunse Atahualpa a Cajamara, dove l'esercito venne a conoscenza dell'arrivo degli uomini di Pizarro.
L'Imperatore Huáscar , fatto
prigioniero dal fratellastro.
Atahualpa, quando occupò Cajamarca, stabilì il proprio campo all'esterno della città con 7000 uomini mentre Chalcochima e Quizquiz inseguivano Huáscar verso sud. Per colpa della disastrosa campagna settentrionale, Huáscar non solo aveva perso i suoi generali e la maggior parte dei soldati, ma si trovò con un esercito spaventato e demoralizzato. Gli eserciti di Huascar e Atahualpa si scontrarono cercando di prendere il sopravvento sull'altro. Huáscar rinunciò alla possibilità di approfittare di  un piccolo vantaggio che si era conquistato, preferendo usare il tempo guadagnato per organizzare una sicura ritirata attraversando il fiume Cotabambas sulla strada per Cuzco.
Nel gennaio del 1532, a poche miglia da Cuzco, la ritirata di Huáscar fu bloccata a Quipaipan, ed il suo esercito annichilito.  Huáscar fu catturato e la capitale Cuzco assediata da Quizquiz, il quale fece anche uccidere tutti i sostenitori di Huáscar che riuscì a trovare. Questa azione segnò la totale occupazione e usurpazione dell'impero Inca da parte di  Atahualpa. 
L'usurpatore Atahualpa
La guerra sembrava terminata in modo nefasto , con Huáscar in prigione e la capitale in mano ai generali Quizquiz e Chalcochima. L'esercito di Atahualpa aveva raggiunto una forza di 250 000 uomini, e si accampò con lui a Cajamarca, certo di aver vinto la guerra.  
Pizarro ed i suoi uomini, intanto, dopo essere venuti a conoscenza della situazione politica dell'impero , vennero inizialmente avvicinati dagli uomini di Atahuallpa. L'usurpatore inviò una vera e propria ambasceria, con lo scopo di raccogliere notizie sugli stranieri. Da Cuzco, invece, giunse Huaman Mallqui Topa, fedele a Huascar, che prese contatto con Pizarro facendogli comprendere la causa del suo signore. 
Pizarro propendeva per l'appoggio al regnante legittimo spodestato che, secondo quanto aveva compreso, aveva la fedeltà dell'aristocrazia e della maggior parte della popolazione. Certamente , egli non aveva simpatie preconcette da quanto gli venne riferito sul conto di  Atahuallpa. 
Certo  della fedeltà delle genti verso il legittimo sovrano spodestato Huáscar , con poche centinaia di uomini , offrì il suo aiuto a quelle genti spaventate e allo sbando. L’aristocrazia fedele al sovrano indigeno spodestato e gli schiavi, si levarono contro l’usurpatore Atahualpa, combattendo al fianco di Pizarro e dei cristiani.
Ebbene popoli interi presero partito per i cristiani: centocinquantamila indigeni si schierarono sul campo con gli spagnoli, che pure non allineavano che poche centinaia di soldati. Questi , erano tuttavia uomini coraggiosi e più civili, erano cristiani: non erano dei semplici soldati, ma dei veri e propri colonizzatori, che portavano, con la Fede, la civiltà europea e la
concezione cristiana della vita. Per questo, sin dall’inizio, riscossero la fiducia d’intere
popolazioni amerindie, come i Michoacan, gli Zapotecas, Chachapuyas, i Canaris, gli
Huancas ecc.
La battaglia di Cajamarca,
in un'incisione di 
Johann Theodor de Bry.
Lo scontro a Cajamarca fu l'inizio della fine per l'usurpatore  Atahualpa. Lo scontro fu molto cruento ma Pizarro frenò l'impeto dei soldati riuscendo a catturare Atahualpa vivo. Il resto dell'esercito di Atahualpa  era accampato fuori da Cajamarca ;  stazionava in attesa quando venne attaccato. Le truppe, comandate da  Ruminahui, andarono in rotta. Il comandante fece ripiegare i suoi  verso la regione di Quito. 
Atahuallpa, imprigionato , pensava di poter riottenere la sua libertà offrendo a Pizarro oro e argento ; ma le sue speranze si scontrarono con la risolutezza del condottiero.  Era un personaggio furbo e manipolatore. Era interessato alla storia degli Spagnoli e non si sottrasse al confronto quando questi gli domandarono di quella del suo popolo. Solo sulla guerra civile , da lui scatenata, era reticente e lo aveva dimostrato più di una volta evitando di parlare di suo fratello il legittimo sovrano Huascar
Tuttavia non aveva potuto sottrarsi alle richieste di precisazioni da parte di Pizarro che, appreso che il deposto sovrano era ancora vivo, gli aveva ingiunto di consegnarglielo. 
La sconfitta e cattura di Huascar era avvenuta poco prima che gli Spagnoli giungessero a Cajamarca. Tutti i partigiani di Huascar fatti prigionieri, vennero passati per le armi. La panaca Cápac ayllu che si era schierata contro Atahuallpa risultò interamente sterminata e persino la mummia del suo fondatore Tupac Yupanqui, profanata e distrutta.
Huascar, in particolare, dovette patire violenze ed oltraggi particolarmente efferati. Le sue mogli e i suoi figli vennero trucidati sotto i suoi occhi e lui stesso imprigionato, assieme alla madre e ad alcuni dignitari, messo a disposizione del sanguinario usurpatore Atahuallpa. 
Atahuallpa, anche se imprigionato, aveva deciso di procedere all'eliminazione del fratellastro  e, dietro suo ordine, Huascar e tutti i suoi vennero strangolati e gettati nel fiume Yanamayo, presso la città di Andamarca.
Pizarro aveva ormai l'appoggio dell'aristocrazia e delle popolazioni locali, tutti fedeli al sovrano ormai assassinato. Il 26 luglio 1533, il sanguinario usurpatore , fratricida e guerrafondaio , traditore e manipolatore, Atahuallpa venne giustiziato nella piazza di Cajamarca.  
L'Impero Inca era nel caos. Questo era esattamente ciò che voleva evitare Pizarro, ma non era facile evitare ciò che era già stato avviato da Atahuallpa con la sua sete di potere. Una grande confusione generalizzata percorreva tutto il territorio andino. L'intera regione era stata lacerata dalla guerra civile e il sud dell'impero era ancora strangolato da eserciti di occupazione. Al Nord gli Spagnoli si apprestavano a marciare verso Sud al seguito dei loro alleati indigeni. 
Tupac Huallpa
Pizarro comprendeva perfettamente la necessità  di un nuovo sovrano , cosi  che frenasse la ribellione in atto. il nuovo Inca fu trovato tra i fratelli di Atahuallpa fedeli al legittimo sovrano Huascar. Si trattava di Tupac Huallpa, un giovane principe del Cuzco che si era rifugiato tra gli Spagnoli. Dopo aver osservato i riti e con tutta la pompa ufficiale prevista dai suoi congeneri, venne incoronato alla presenza dell'aristocrazia e di  Pizarro.  Il nuovo Sapa Inca, convertito alla Vera Fede, giurò fedeltà alla Corona di Spagna. 
Dopo la cerimonia di incoronazione , un piccolo contingente di Spagnoli prese finalmente la strada per il Cuzco. La via era irta di pericoli e si temeva un attacco da parte di Quizquiz
Quizquiz aveva scelto la tattica della terra bruciata e tutti i villaggi risultavano spogli e desolati. Gli abitanti si unirono in massa con gli spagnoli che potevano così contare su una moltitudine di truppe ausiliarie. 
Pizarro cercava di attirare i partigiani di Atahuallpa  in uno scontro frontale. Alcuni informatori indigeni alleati , gli comunicarono che considerevoli forze nemiche erano attestate a Jauja intenti a bruciare l'importante cittadina. Con i suoi uomini partì  al galoppo, lasciando indietro i fanti con le salmerie e, a mezzo di marce forzate, riuscì a sorprendere gli uomini di Quizquiz attardati nei pressi della cinta urbana. L'esercitò nemico venne sconfitto e lo scontro insegnò a Quizquiz che i cavalli erano pressoché invincibili in pianura.
Intanto, l'Imperatore Tupac Huallpa,appena incoronato, morì. Il giovane sovrano era già malato quando era stato eletto al potere supremo, ma tra la truppa corse la voce che era stato avvelenato da Chalcochima, il generale fedele ad Atahuallpa che seguiva prigioniero la spedizione. L'anziano guerriero era già stato oggetto di forti sospetti.  
Mentre l'esercito di Pizarro continuava la sua marcia verso Cuzco , tra scontri con i partigiani di  Atahuallpa  e l'arrivo di nuovi volontari dai villaggi che incontrava , comparve un personaggio che avrebbe avuto un ruolo determinante nei successivi avvenimenti. Si trattava di Manco, principe , figlio legittimo di Huayna Capac e fratello di Atahuallpa e di Huascar. Nella guerra civile aveva parteggiato per il legittimo sovrano  e, alla vittoria dell'esercito di Quito aveva abbandonato la regione per salvarsi la vita. Aveva avuto notizia dell'arrivo di un gruppo di stranieri, e dell'esecuzione dell'usurpatore e suo mortale nemico Atahuallpa, e decise di offrire loro i suoi servigi.
Manco II 
Manco (futuro Manco II) fu bene accolto da Pizarro il quale vide risolversi la questione successoria al trono Inca dopo la morte di Tupac Huallpa. Per il momento il condottiero doveva pensare alla liberazione di Cuzco che Quizquiz si ostinava ad occupare. Il Principe Manco aveva denunciato il pericolo di un imminente incendio della capitale, per rappresaglia e Pizarro inviò due capitani con alcuni soldati al seguito  in avanscoperta. Come giunsero in vista della città, costoro videro, effettivamente, delle volate di fumo che si innalzavano dai tetti. Nello stesso tempo scorsero anche un considerevole numero che tutto dun tratto gli furono addosso. Si erano ritrovati in uno scontro con la truppa scelta di Quizquiz. 
Con quest'ultima azione Quizquiz cambiò tattica sgomberando la città dal grosso delle truppe che gli erano rimaste  inoltrandosi nei territori montani dove fiumi profondi e gole scoscese gli fornivano un vantaggio. 
Il 15 novembre del 1533,  Pizarro con soli tredici commilitoni, giunse sotto le mura di Cuzco , popolata da molta gente: non sapevano esattamente cosa fare, temevano di essere uccisi.
Anche gli indigeni , dal canto loro, erano timorosi, perché non avevano mai visto uomini come questi, coperti d’acciaio, serrati nelle rilucenti armature.
Uno spagnolo, Pedro de Candia, prese allora una croce di legno e avanzò, bardato d’acciaio, verso gli indigeni , fin sotto le porte della città. Scrive Garcilaso de la Vega, che riporta l’episodio, che Pedro de Candia procedeva nobilmente, a passi imponenti, come se fosse il signore di quelle contrade, con un portamento magnifico, recando la Croce.
Pedro de Candia doma le belve con la Croce
Gli indigeni  fecero allora sortire dalle mura due pantere che andarono incontro a Pedro de Candia per assalirlo. Quando però gli furono dappresso, le belve gli s’inginocchiarono davanti. Egli allora depose a terra la Croce, sotto la quale le belve si accucciarono.
Nel vedere tutto questo gli indigeni lo credettero un dio o comunque un messaggero della divinità e, pensando che fosse stata la forza del segno, la virtù della Croce ad aver ammansito quelle belve , che avrebbero dovuto sbranare senz'altro lo sconosciuto cristiano, da quel giorno cominciarono a riprodurla fra di loro. 
In questo modo miracoloso , la campagna di Cuzco era terminata. 



Collocazione geografica della città di Cuzco
Poco dopo Quinto venne liberata dalle forze avversarie. Vi furono successivamente scontri interni che sfociarono nell'assedio della stessa Cuzco. Nel 1536 la situaZione era ritornata all'ordine. Gl’Incas di sangue reale si dimostrarono fedeli a Pizarro (tranne alcune rare eccezioni) e di rimando egli gli onorò sempre. 
Fu volontà espressa dei Sovrani di Spagna che gli autoctoni del Perù fossero governati dai loro capi naturali, dagl’Inca, i cui beni e la cui posizione sociale furono sempre conservati. E questo non tanto perché gli spagnoli non potessero sostituirli nel comando, quanto piuttosto perché conservare la gerarchia propria di questi indigeni parve meglio accordarsi con il rispetto della legge naturale. 
Pensate soltanto che Pizarro conquistò il Perù praticamente con tredici armati, tredici e non uno di più. Se non avesse avuto l'appoggio di ogni segmento sociale che vide in lui e negli spagnoli la salvezza da una società barbara e violenta non sarebbe mai riuscito a conquistare il Perù: la Provvidenza operò manifesta in questa impresa.
Scrisse Alfredo Cevero, che non si può parlare, a rigore, di una conquista militare europea delle Americhe, quanto piuttosto di una conquista operata dagli indigeni stessi, i quali passarono in forze dalla parte degli spagnoli, come loro alleati.  


Fine Seconda Parte...

Fonti:

NELSON RIBEIRO FRAGELLI - LA CRISTIANIZZAZIONE DELLE AMERICHE: UN’EPOPEA DELLA FEDE.

Francisco Pizarro, Madrid 1940.



Scritto dal Presidente e fondatore A.L.T.A. Amedeo Bellizzi