lunedì 10 novembre 2014

La “primula rossa ” delle Due Sicilie: Giovanni Maria D’Alessandro, Duca di Pescolanciano.


Giovanni Maria D’Alessandro, Duca di Pescolanciano

Ci hanno raccontato molte storie strane: che i briganti fossero tutti comuni delinquenti, che gli ufficiali borbonici erano tutti venduti, che la nobiltà del Regno accolse i piemontesi compiacendoli. Poco si sa dei nobili che combatterono strenuamente i sabaudi , puniti dal nuovo governo con la confisca di tutti i beni, socialmente cancellati e costretti all’esilio. Tra questi, Giovanni Maria D’Alessandro, Duca di Pescolanciano, detto « la primula rossa » perché imprendibile, astuto, estremamente pericoloso per il nuovo stato. Perse tutto, tutto gli fu confiscato, ma non si piegò mai.
Giovanni Maria d'Alessandro di Pescolanciano (Napoli, 19 maggio 1824 – Napoli, 8 gennaio 1910) è stato un politico, archeologo e militare napolitano. Tredicesimo barone ed ottavo duca di Pescolanciano, nobile del Regno delle Due Sicilie e legittimista , fù protagonista di diversi eventi di ribellione anti-unitaria, tra cui la rivolta di Isernia. Ebbe nel corso degli anni una serie di importanti incarichi ed onorificenze nell'ambito della provincia di Molise, tra cui capo plotone della guardia cittadina (1847); consigliere provinciale per Campobasso (1851); capo plotone della regia Guardia d'Onore del Contado di Molise (1854) e successivamente capo squadrone (1855). Gentiluomo di camera di Sua Maestà Ferdinando II, per la sua sentita passione archeologica fu scelto dalla Corte napoletana per dare ospitalità, tra il 1846-1847, allo storico tedesco ed archeologo (poi premio Nobel nel 1902) Teodoro Mommsen, durante la visita agli scavi di Pietrabbondante. Il duca seguì con grande impegno ed interesse questi lavori di recupero di resti monumentali sannitici (riuscì a far emergere l'antico teatro sannita), tanto da esserne nominato Sovrintendente Regio, ottenendo nel 1858 l'onorificenza delle "chiavi d’oro", e nello stesso anno fu nominato presidente del consiglio per il distretto d'Isernia.
Il 19 febbraio 1860 fu insignito del titolo di Balì Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine costantiniano di San Giorgio, una delle massime onorificenze del Regno delle Due Sicilie. A seguito dell'invasione del Regno delle Due Sicilie da parte dell'esercito piemontese nell'ottobre 1860, il duca d'Alessandro lasciò la famiglia e i propri beni per organizzare moti legittimisti nella regione, dove il 28 settembre era scoppiata la Rivolta di Isernia. La città, nodo strategico di comunicazione sia per Gaeta, da dove si organizzava l’estrema difesa del regno, che per L’Aquila, era insorta contro le forze liberali filo-sabaude, con l’appoggio morale del vescovo Saladino. Durante gli scontri di Isernia fu in particolare linciato Raffaele Falciari, addetto municipale alla distribuzione del grano (ruolo conferitogli dai garibaldini), il quale era accusato dai rivoltosi di aver usato il suo potere per abusare di donne del circondario. Fu inoltre assaltato e incendiato il palazzo del deputato liberale Stefano Jadopi, molto odiato perché usurpatore di terreni demaniali dell’agro isernino, negli scontri trovò la morte suo figlio Francesco. Il duca fu a Isernia tra il 2 e il 3 ottobre, e qui il suo segretario Giacomo Cece preparò un incontro con i legittimisti Melogi, De Lellis e monsignor Saladino per preparare la “controrivoluzione” in Molise. Con l'appoggio di altri aristocratici locali, tra cui Teodoro Salzillo (nota1), di militari borbonici e di gruppi numerosi di abitanti, d'Alessandro contribuì alla riconquista delle città di Pontecorvo, Sora, Venafro, Teano e di tutti i comuni vicini a Pescolanciano (Pietrabbondante, Chiauci, Carovilli, Civitanova), già suoi feudi. L’esempio di Isernia, successivamente, fu seguito da numerosi focolai di rivolta anti-liberali che scoppiarono in tutto il Molise. Da Carpinone, Macchia d’Isernia, Roccasicura, Monteroduni, Macchiagodena fino a Cantalupo. Il duca stabilì in questo periodo forti legami con il comandante borbonico Kleischt (meglio noto come Lagrange). Secondo i piani, quest'ultimo avrebbe dovuto intervenire con un forte gruppo di insorti negli episodi suddetti e, passando per Isernia, ricongiungersi a nord con le truppe comandate dal generale Scotti Douglas, per poi procedere alla riconquista degli Abruzzi. Le attività del duca divennero presto note al governatore sabaudo della provincia di Molise Nicola De Luca, il quale nell'autunno 1860 telegrafò al Ministero della polizia di Napoli: « Dopo la ribellione di Isernia la reazione si è manifestata vittoriosa nei Comuni di Civitanova, Carovilli, Pietrabbondante, Pescolanciano e Chiauci. Mi si dice suscitata e capitanata dal Duca di Pescolanciano, che tiene in agitazione il restante dei comuni del distretto d’Isernia. » (Nicola De Luca, governatore della provincia di Principato Ultra)
Con la battaglia del Macerone e la cattura del generale Scotti Douglas i piani di controffensiva legittimista verso gli Abruzzi furono vanificati. Così la rivolta popolare fu sedata con l’uso della violenza e della paura, spargendo il sangue di molti ribelli molisani. Il re Francesco II nutrì speranze su quella insurrezione fino alla resistenza dell’ultimo bastione di difesa molisano, carezzando forse il sogno di poter ripetere gli eventi del 1799, quando guidate dal cardinale Ruffo, le popolazioni meridionali riportarono sul trono la dinastia borbonica. Dopo la sconfitta nella battaglia del Volturno e la successiva resa della fortezza di Gaeta, il duca d'Alessandro si ritrovò isolato in Molise e fu costretto a lasciare la zona, rifugiandosi prima a Tauro e quindi seguendo il re Francesco II nell'esilio di Roma. Qui apprese della caduta della fortezza di Civitella del Tronto, ultimo baluardo delle Due Sicilie, avvenuta il 20 marzo 1861. Nonostante la caduta delle Due Sicilie, d'Alessandro mantenne come proprio obiettivo quello di fomentare moti di rivolta legittimista in Molise. In quest'ambito, fece affiggere a più riprese nei territori dei suoi feudi manifesti con lo stemma della propria famiglia, nei quali si inneggiava al ritorno di Francesco II. L'opera di sollevazione conseguì un certo successo, dato che presto il Molise fu una delle provincie maggiormente interessate dal fenomeno del "brigantaggio". Già nell'autunno del 1862 la prefettura della provincia di Molise segnalava alle autorità centrali la presenza di circa 213 "briganti". La repressione, però, non si fece attendere ed anzi fu alquanto cruenta e sanguinaria seguendo le procedure adottate dal generale Pinelli, con il suo proclama di repressione (che fece scandalo in tutta Europa) emanato ai tempi della battaglia di Civitella del Tronto. La legge Pica, approvata con urgenza nell’agosto del 1863, servì a legalizzare la violenta repressione con l’illegale istituzione dei tribunali militari, le fucilazioni sommarie, gli arresti a lavori forzati etc. In soli cinque mesi di attività, il tribunale militare di Campobasso pronunciò una cinquantina di condanne contro persone (in prevalenza di ceto contadino) sospettate di brigantaggio e ben presto il carcere di questa cittadina divenne uno dei carceri più affollati del Mezzogiorno (nel 1863 ospitava 1.013 detenuti contro 1.000 circa del carcere di Napoli. Il Berlingieri scrisse che in quell’anno nelle carceri di Campobasso ed Isernia “i detenuti erano ammocchiati come bestie immonde”). Caddero, così, fucilati i briganti della banda di Domenico Fuoco, del Giangagnoli, dei Guerra e Giuliani.
Tornato a Napoli nel 1865 dall'esilio romano, il duca fu inserito nella lista dei sorvegliati speciali in quanto sicuro sostenitore del passato regime. I legami con la dinastia borbonica rimasero sicuramente forti nel tempo, tanto che lo stesso Francesco II gli scrisse nel 1892 una lettera di condoglianze in occasione della morte della moglie. Isolatosi dalla vita sociale del nuovo stato, tra il 1890 ed il 1892 subì il progressivo esproprio dei beni di famiglia presenti in Molise e a Napoli. Dopo la morte di Francesco II, avvenuta nel 1894, il duca d'Alessandro divenne assiduo corrispondente della deposta regina Maria Sofia, per la quale pare svolgesse missioni segrete. Costantemente sorvegliato dalla polizia durante i governi Crispi e Giolitti, rimase sempre libero, mancando prove certe per un suo arresto in quanto attivista filoborbonico. In questo stesso periodo iniziarono a sorgere circoli legittimisti clandestini, cui aderivano generalmente aristocratici ed esponenti della piccola e alta borghesia, la cui nascita era soprattutto legata al crescente processo di piemontesizzazione ed allo scoppio della cosiddetta questione meridionale. Si isolò, dalla nobiltà cittadina dei cosiddetti “voltagabbana” e dalla vita sociale del nuovo regno.
Tra il 1890-1892 dovette subire, anche con il consenso occulto dei nuovi governanti, l’esproprio di gran parte del suo patrimonio di beni posseduti in Molise (numerose terre, tra cui l’esteso bosco di Collemeluccio di circa 58 mila are) ed a Napoli (tra cui palazzo Pescolanciano al corso Vittorio Emanuele, edificato nel 1870 e posto in vendita all’asta nel 1891) facendo soltanto salvi l’onestà, l’onore, la di lui lealtà e probità, che avevano distinto nel passato sempre gli appartenenti a questo Casato. La fedeltà al suo re Francesco II, dal quale ricevette personalmente in dono un album di fotografie di corte durante l’esilio capitolino e una preziosa pistola regalata dal Conte di Trani, lo portò anche dopo la caduta di Roma a continui spostamenti verso le provvisorie residenze reali. Il sospetto circa l’esistenza di una “primula rossa” al servizio della causa legittimista cominciò a trasparire nei rapporti di polizia dei governi umbertini del Crispi e Giolitti, seppur mancavano prove certe per confermare un fermo od un arresto.
Del resto, l’epoca dei fatti è quella post-unitaria di fine XIX secolo, allorquando il brigantaggio partigiano, fedele al giglio borbonico era stato quasi debellato dalla massiccia repressione militare e Roma si accingeva a diventare la capitale del Regno d’Italia. La generazione dei nostalgici dell'indipendente regno Due Sicilie, nata o cresciuta nella prima metà dell’ottocento, era formata dai fedelissimi di casa Borbone o dai delusi della regnanza dei Savoia. Professori, medici, ex militari impiegati, esponenti della piccola e alta borghesia, nonché numerosi aristocratici, nella più completa clandestinità (causa le repressive leggi contro qualsiasi forza destabilizzante, dalle leggi del 29/10/1860 del ministro di Polizia Raffaele Conforti e suoi poteri straordinari contro coloro che turbavano la “pubblica tranquillità” perché “traditori della Patria” fino alla legge Pica contro il brigantaggio e successive) continuarono a sviluppare iniziative politiche di contestazione e delegittimazione della impresa unitaria, rea di aver trasformato le province del Sud in una sorta di colonia del regno di Sardegna e generato la triste “questione meridionale”, la cui tesi relativa all’esistenza di due Italie considerava il Nord motore trainante dello sviluppo economico nazionale, in quanto sfruttatore delle risorse produttive e sociali del Sud. Nei settanta anni successivi alla caduta della roccaforte di Gaeta, tali esponenti legittimisti fondarono associazioni, circoli, comitati con propria attività politica di propaganda e proselitismo, utilizzando i mezzi di comunicazione di allora (giornali, manifesti, volantini, lettere). Le forze di governo additarono, cosi, nel “partito borbonico” quel raggruppamento di intellettuali, legati ai rispettivi sovrani spodestati, S. M. Francesco II (fino al 1894 data del decesso) con l’eroica consorte Maria Sofia e successivamente S. A. D. Alfonso conte di Caserta. Questi borbonici post-unitari, schierati contro l’occupazione dello Stato Pontificio e fedeli alla Santa Sede, auspicarono, fino all’epoca dell’esilio romano degli ex Reali, il raggiungimento di un accordo diplomatico, grazie all’interessamento delle più importanti nazioni cattoliche (Austria, Russia), finalizzato a ristabilire un governo autonomo ed indipendente con propria capitale nelle province meridionali.
La “Nazione Italiana” avrebbe dovuto nascere, come da proclama di re Francesco II del 15 luglio 1860, con accordi tra le corone senza far uso delle armi o sollevazioni popolari fratricide, alla stregua di una sorta di “Alleanza Italiana” delle esistenti monarchie sul territorio italico (Savoia/Asburgo nel centro Nord, Papa al centro, Borboni nel Sud). La breccia di porta Pia, con la presa militare di Roma ad opera dell’esercito piemontese, tradì quest’ultima speranza sia tra i fedeli legittimisti nonché anche tra gli illusi dell’Italia sabauda (da annoverare molti filo-garibaldini, repubblicani e rivoluzionari del partito d’azione).
La contro-rivoluzione borbonica, sul piano ideologico doveva essere perseguita in nome dell’autonomismo ed indipendenza, mentre sul piano d’azione -visti i fallimenti diplomatici- si perpetuò ancora l’uso opportuno delle armi, continuando con le imprese di guerriglia “brigantesca” dei partigiani fedeli al giglio delle Due Sicilie.
L’ideale di autonomia (etichettato da taluni pensatori dell’epoca come “regionalismo sanfedista”), tra l’altro, si confaceva con il modello federalista dei repubblicani filo-Cattaneo (quale aggregazione degli Stati preunitari nella Repubblica Italiana con conservazione delle reciproche autonomie governative) o con quello sociofederale dei radicali ispirati al Proudhon, Pisacane e Bakunin (organizzazione “Libertà e Giustizia napoletana”, 1867).
Borbonici, repubblicani, socialisti rivoluzionari si trovarono in più occasioni a condividere la lotta di piazza in diversi episodi d’insorgenza contro il governo reale accentratore ed assolutista.
- nota 1: « Questi volontari, parte guardie urbane e parte soldati congedati, formavano un battaglione di 1000 individui, da noi organizzato, senza il minimo concorso monetario del governo. Esso si distinse nell’occupazione di Venafro e di Fornelli; nell'attacco di Isernia con De Luca e Ghirelli; nell'attacco di Pettoranello e Carpinone col colonnello garibaldino Nulli (…). Nell'attacco al Macerone col Generale piemontese Griffini, comandante due battaglioni d’avanguardia, questi volontari mostrarono sommo valore, a già prima avevano liberato Forli da 200 garibaldini, prendendovi il procaccio con oltre a 7000 ducati, che trasportarono a Gaeta »




(Teodoro Salzillo)

Fonte: Un Popolo Distrutto