venerdì 17 gennaio 2014

RAPPRESENTANZA ED ESISTENZA (di Eric Voegelin)

 
I.


La scienza politica si dibatte in una difficoltà che trae origine dalla sua stessa natura di scienza dell'uomo nell'esistenza storica. L'uomo, infatti, non aspetta la scienza per darsi una spiegazione della propria vita, e lo scienziato, quando affronta la realtà sociale, trova che il campo è già stato occupato da quella che si può chiamare l’autointerpretazione della società.
La società umana non è un mero fatto o evento del mondo esterno che possa essere studiato da un osservatore alla stregua di un fenomeno naturale. Benché il suo situarsi nel mondo esterno sia una delle sue caratteristiche essenziali, la società, nel suo complesso, è un piccolo cosmo, un cosmion, reso trasparente dal significato che, dal di dentro, le conferiscono gli esseri umani che continuamente la creano e la perpetuano come modo e condizione della loro autorealizzazione.
Essa è resa trasparente grazie a un elaborato simbolismo, che presenta vari gradi di compattezza e di differenziazione - dal rito, attraverso il mito, alla teoria - e questo simbolismo le conferisce significato nella misura in cui i simboli rendono trasparenti, per il mistero dell'umana esistenza, la struttura interna di codesto cosmion, le relazioni fra i suoi membri e fra i gruppi dei suoi membri, come pure la sua esistenza come un tutto. L'autoilluminazione della società attraverso i simboli è parte integrante della realtà sociale - si può anzi dire parte essenziale - perché, attraverso tale simbolizzazione, i membri di una società la esperimentano come qualcosa di più che un disagio o una comodità; la esperimentano come parte della loro stessa essenza umana. E, inversamente, i simboli esprimono il fatto che l'uomo è pienamente uomo grazie alla sua partecipazione a un tutto che trascende la sua particolare esistenza, in forza della sua partecipazione allo xynon, alla comunità, come la chiamò Eraclito, il primo pensatore occidentale che enucleò questo concetto. Di conseguenza, ogni società umana conosce se stessa attraverso una varietà di simboli (talvolta simboli linguistici altamente differenziati) indipendenti dalla scienza politica; e tale autoconoscenza precede storicamente di millenni il nascere della scienza politica, della episteme politike in senso aristotelico. Quindi, quando la scienza politica fa i suoi primi passi, essa non ha davanti a sé una tabula rasa: essa deve inevitabilmente prendere le mosse dal ricco corpus dell'autointerpretazione che la società ha di se stessa e procedere chiarendo criticamente i preesistenti simboli sociali. Quando Aristotele scrisse la sua Etica e la sua Politica, quando elaborò i suoi concetti di polis, di costituzione, di cittadino, delle varie forme di governo, di giustizia, di felicità, ecc., non inventò questi termini, attribuendo loro significati arbitrari ; egli si limitò ad accettare i simboli che trovò nel suo ambiente sociale, esaminò con cura il loro diverso significato nel linguaggio comune, ed ordinò e chiarì questi significati con i criteri della sua teoria (ARISTOTELE, Politica, 1280a 7 ss.).
Queste considerazioni non bastano certo a chiarire in tutti i suoi aspetti la particolare condizione della scienza politica, ma sono sufficienti per le nostre più immediate finalità. Esse consentono di enunciare alcune conclusioni teoriche che, a loro volta, possono essere applicate al problema della rappresentanza.
Quando lo scienziato riflette sulla propria situazione teorica, egli si trova di fronte a due categorie di simboli: i simboli linguistici, che sono prodotti come parte integrante del cosmion sociale nel suo processo di autoilluminazione, e i simboli linguistici della scienza politica. Tra gli uni e gli altri c'è stretta connessione, in quanto la seconda categoria è enucleata dalla prima attraverso quel procedimento che provvisoriamente abbiamo definito di chiarimento critico. Nel corso di questo procedimento alcuni dei simboli che si incontrano nella realtà vengono lasciati da parte, perché non sono di utilità alcuna nell'economia della scienza, mentre nuovi simboli vengono elaborati in sede teorica per la descrizione criticamente adeguata dei simboli che sono parte della realtà. Se lo studioso, per esempio, descrive l'idea marxiana del regno della libertà, che è lo scopo della rivoluzione comunista come una ipostasi immanentistica di un simbolo escatologico cristiano, il simbolo "regno della libertà" è parte della realtà; esso è parte di un movimento secolare di cui il movimento marxista è una suddivisione, mentre termini come "immanentistico", "ipostasi" ed "escatologia" sono concetti di scienza politica. I termini usati nella descrizione non entrano nella realtà del movimento marxista, mentre il simbolo "regno della libertà" non ha utilità alcuna in sede di scienza critica. Quindi, non ci sono due categorie di termini con significato diverso, ne c'è una sola categoria di termini con due serie distinte di significati; abbiamo piuttosto due categorie di simboli con un'ampia area di fonemi sovrapponentisi. Inoltre, i simboli nella realtà sono anch'essi, in considerevole misura, il risultato di processi di chiarificazione, sicché i significati delle due categorie finiscono spesso con l'avvicinarsi e talvolta addirittura col coincidere. Questa situazione complicata diventa inevitabilmente causa di confusione; da essa, in particolare, trae origine l'illusione che i simboli usati nella realtà politica siano concetti teorici.
Questa illusione e confusione purtroppo hanno profondamente intaccato la scienza politica contemporanea. C'è chi non esita, per esempio, a parlare di una "teoria contrattuale del governo" o di una "teoria della sovranità" o di una "teoria marxista della storia", mentre, in realtà, è dubbio che queste cosiddette teorie possano definirsi teorie in senso critico; d'altra parte, si incontrano voluminose storie di "teoria politica" che forniscono un'esposizione di simboli che presentano, per lo più, ben poco di teorico. Codesta confusione finisce col vanificare anche alcune conquiste che già nell'antichità erano state fatte nel campo della scienza politica. Si prenda, per esempio, la cosiddetta teoria del contratto. A questo proposito, si ignora che Platone ha fornito un'esaurientissima analisi del simbolo del contratto. Egli non solo ne dimostrò il carattere non teorico, ma analizzò anche il tipo di esperienza che sta alla sua base. Inoltre, egli introdusse il termine tecnico di doxa per la classe di simboli dei quali la "teoria contrattuale" è un esempio, al fine di distinguerli dai simboli della teoria. (PLATONE, Repubblica, 338e-367e) Oggi gli studiosi non usano più il termine doxa con questo significato, ne hanno elaborato un concetto equivalente, col risultato che questa distinzione essenziale è andata smarrita. È venuto invece di moda il termine "ideologia" che, per certi rispetti, corrisponde alla doxa platonica. Ma si tratta di un termine che ha causato ulteriore confusione perché, sotto la pressione di quella che Mannheim ha chiamato la allgemeine Ideologieverdacht (il sospetto generale dell'ideologia), il suo significato è stato esteso al punto da abbracciare tutti i tipi di simboli usati in asserzioni relative alla politica, compresi gli stessi simboli della teoria; oggi numerosi studiosi di scienza politica darebbero la qualifica di ideologia anche all'episteme platonico-aristotelica.
Un altro sintomo di questa confusione sono certe abitudini invalse in sede di discussione. Mi è capitato più volte, nel corso di discussioni su argomenti politici, di sentirmi chiedere da qualche studente - e non solo da qualche studente - quale definizione davo del fascismo, del socialismo e di altri ismi del genere. E più volte mi è capitato di suscitare sorpresa nell'interlocutore - che, evidentemente, dai suoi studi aveva riportato l'idea che la scienza sia un magazzino di definizioni da dizionario - rispondendo che non mi sentivo obbligato a indulgere in siffatte definizioni, perché quei movimenti, insieme con i loro simbolismi, sono parte della realtà, che soltanto i concetti, e non la realtà, sono passibili di definizione, e che è oltremodo dubbio se i simboli linguistici in questione possano essere criticamente chiariti a un punto tale da diventare utilizzabili ai finì della conoscenza scientifica.
Abbiamo così preparato il terreno per affrontare la questione della rappresentanza. Le considerazioni fin qui svolte spero abbiano messo in chiaro che l'impresa non sarà semplice, se l'indagine è condotta in conformità con gli standards critici della ricerca della verità. I concetti teorici e i simboli che sono parte della realtà vanno distinti accuratamente; nel passaggio dalla realtà alla teoria devono essere ben definiti i criteri seguiti nel processo di chiarificazione; e il valore conoscitivo dei concetti che ne risultano deve essere messo alla prova inserendoli in contesti teorici più vasti. Questo metodo corrisponde, nella sostanza, al modo di procedere aristotelico.

2.
È opportuno prendere le mosse dagli aspetti elementari del tema. Al fine di determinare ciò che è elementare sotto il profilo teorico, sarà utile richiamarci alle considerazioni svolte all'inizio di questo capitolo. Abbiamo detto che la società politica è un cosmion illuminato dal di dentro; ma abbiamo anche soggiunto, per caratterizzare meglio tale società, che l'inserimento nel mondo esterno è una delle sue componenti fondamentali. Il cosmion ha un suo intimo significato ma questo significato si incarna tangibilmente nel mondo esterno in esseri umani che sono dotati di un corpo, attraverso il quale partecipano alla vita organica e inorganica del mondo esterno.
Una società politica può dissolversi non solo per la disintegrazione delle credenze che fanno di essa un'unità attiva nella storia; essa può venire distrutta anche a causa della dispersione dei suoi membri in maniera tale che la comunicazione tra essi diventi fisicamente impossibile o, più radicalmente, a causa del loro sterminio fisico; può anche subire gravi danni, distruzione parziale del patrimonio tradizionale e lunga paralisi a causa della eliminazione di quei membri attivi che sul piano politico e intellettuale costituiscono le minoranze dirigenti di una società. È così che noi intendiamo l'inserimento della società politica nel mondo esterno, quando parliamo, per motivi che saranno 'ben presto chiariti, dell'aspetto teorico elementare del nostro tema.
Nei dibattiti politici, nella stampa, nella pubblicistica, paesi come gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, la Svizzera, i Paesi Bassi o i regni scandinavi sono normalmente considerati paesi a istituzioni rappresentative. In tali contesti il termine ricorre come simbolo di una realtà politica. Se a chi usa codesto simbolo si chiede di spiegare che cosa intende dire per mezzo di esso, certamente risponderà affermando che le istituzioni di un paese sono da considerarsi rappresentative quando i membri dell'assemblea legislativa ottengono il mandato mediante elezione popolare. Se si estende l'indagine al potere esecutivo, l'interrogato accetterà l'elezione americana del capo dell'esecutivo da parte del popolo, ma accetterà anche il sistema britannico nel quale il governo è formato da esponenti della maggioranza parlamentare, o il sistema svizzero, per cui l'esecutivo è eletto dalle due Camere riunite in seduta comune; e probabilmente riterrà salvaguardato il carattere rappresentativo anche nel caso di un monarca, quando questi agisca con la controfirma di un ministro responsabile. Se poi all'interrogato si chiede di indicare un po' più esplicitamente che cosa intende per elezione popolare, egli si richiamerà anzitutto all'elezione dei deputati da parte di tutte le persone di una data età che risiedono in un dato ambito territoriale; ma probabilmente non negherà il carattere rappresentativo del sistema se le donne sono escluse dal voto o se, nel quadro di un sistema di rappresentanza proporzionale, le circoscrizioni elettorali sono personali invece che territoriali, Egli, infine, dirà che le elezioni devono essere abbastanza frequenti e accennerà ai partiti quali organizzatori e mediatori della procedura elettorale.
Sul piano scientifico, che può farsene. Io studioso, di una risposta di questo genere? Ha essa qualche valore conoscitivo?
Naturalmente, la risposta non è affatto trascurabile. Certo, l'esistenza dei paesi indicati può essere data per scontata, senza troppe domande sulle cause o sul significato di tale esistenza. Nondimeno, il chiarimento riguarda un'area di istituzioni entro una struttura esistenziale, anche se questa struttura rimane in ombra. Esistono certo molti paesi le cui istituzioni possono essere classificate sotto il tipo indicato; e se lo studio delle istituzioni è senz'altro importante, la risposta fornita implica certamente un notevole corpus di conoscenza scientifica. Inoltre, questo corpus di conoscenza esiste come imponente fatto di scienza sotto forma di numerosi studi monografici sulle istituzioni di singoli paesi, che descrivono le ramificazioni e le istituzioni ausiliarie indispensabili al funzionamento di un moderno governo rappresentativo, come pure sotto forma di studi comparati che ne illustrano il tipo e le varianti. Inoltre, non è lecito avanzare dubbi sull'importanza teorica di tali studi, almeno in linea di principio, perché l'esistenza esterna di una società politica è parte della sua struttura ontologica. Quale che ne possa essere il grado di validità quando sono inseriti in un più largo contesto teorico, nondimeno i tipi di realizzazione esterna di una società hanno pur sempre il loro valore.
Nella teorizzazione delle istituzioni rappresentative, a questo livello, i concetti che entrano nella costruzione del tipo descrittivo si riferiscono a semplici dati del mondo esterno. Si riferiscono ad ambiti geografici, ad esseri umani che vi risiedono, a uomini e donne, alla loro età, al loro voto, che consiste nel porre dei segni su pezzi di carta accanto a nominativi in essi segnati, ad operazioni di spoglio e di calcolo che porteranno alla designazione di altri esseri umani come deputati, al comportamento dei rappresentanti che si esprimerà in atti formali riconoscibili come tali attraverso dati esterni, ecc. Poiché i concetti, a questo livello, non pongono problemi, sotto il profilo dell'autointerpretazione interna di una società, questo aspetto del nostro tema può essere considerato elementare e si dirà quindi elementare il tipo descrittivo di rappresentanza che si può sviluppare a questo livello.
La validità dell'approccio elementare al tema è quindi fondata, in linea di principio. Il grado effettivo del suo valore conoscitivo, tuttavia, può essere misurato solo inquadrando il tipo nel più ampio contesto teorico che abbiamo ricordato precedentemente. Il tipo elementare, come abbiamo detto, illumina soltanto un'area di istituzioni nell'ambito di una struttura esistenziale data per scontata. A questo punto bisogna porsi alcune domande riguardo all'area finora lasciata in ombra.


3.
Anche nel proporre queste domande seguiremo il procedimento aristotelico dell'esame dei simboli quali si presentano nella realtà. Un argomento adatto a questo genere di domande è costituito dal carattere rappresentativo delle istituzioni sovietiche. L'Unione Sovietica ha una costituzione, tra l'altro redatta splendidamente, che prevede istituzioni che nel complesso possono rientrare nel tipo elementare. Nondimeno, quanto al loro carattere rappresentativo, le opinioni divergono profondamente fra i democratici occidentali e i comunisti, Gli occidentali sostengono che il meccanismo della rappresentanza di per sé solo non basta, che l'elettore deve avere la possibilità di una vera scelta e che il monopolio del partito, sancito dalla costituzione sovietica, rende una tale scelta impossibile. I comunisti replicano che vero rappresentante è solo colui che ha a cuore l'interesse del popolo, che l'esclusione dei partiti, espressione di interessi settoriali, è necessaria per rendere le istituzioni veramente rappresentative e che solo i paesi in cui il monopolio della rappresentanza è garantito al partito comunista sono autentiche democrazie popolari. Il dibattito, quindi, fa perno sulla funzione mediatrice del partito nel processo di rappresentanza.
La questione, a questo punto, è tutt'altro che chiara, e non consente quindi un giudizio definitivo. Si impone perciò un ulteriore approfondimento, anche perché si può facilmente accrescere la confusione ricordando che, all'epoca della fondazione della Repubblica Americana, eminenti statisti erano dell'opinione che una vera rappresentanza è possibile solo quando non esistono partiti. Altri pensatori, inoltre, attribuiscono la funzionalità del sistema bipartitico inglese al fatto che, in origine, i due partiti erano semplicemente due fazioni dell'aristocrazia inglese; ed altri ancora riscontrano alla base del sistema bipartitico americano una omogeneità ancor più profonda, che fa apparire i due partiti come correnti di un unico partito. Ricapitolando le varie opinioni, si può dunque mettere insieme la serie: un sistema rappresentativo è veramente rappresentativo se non ci sono partiti, se c'è un solo partito, se ci sono due o più partiti, se i due partiti si possono considerare come correnti di un unico partito. Per completare il quadro, si può aggiungere, infine, il concetto di stato pluripartitico venuto di moda dopo la prima guerra mondiale, con la sua implicazione che un sistema rappresentativo non può funzionare se ci sono due o più partiti in disaccordo su questioni di principio.
Da questa varietà di opinioni è possibile trarre le conclusioni seguenti. II tipo elementare di istituzioni rappresentative non esaurisce il problema della rappresentanza. Nel contrasto delle opinioni, tuttavia, si è d'accordo nel riconoscere che il procedimento della rappresentanza ha senso solo quando vi sono certi requisiti relativi alla sua sostanza e che l'instaurazione di un procedimento non fornisce automaticamente la sostanza desiderata. Si è anche d'accordo nel riconoscere che certe istituzioni mediatrici, i partiti, contribuiscono al rafforzamento o alla corruzione di questa sostanza. Al di là di questi punti di convergenza, tuttavia, la situazione è confusa. Con questa "sostanza" si intende vagamente la volontà del popolo, ma non risulta affatto chiaro che cosa precisamente si voglia significare col simbolo "popolo". Questo simbolo, per il momento, lo accantoniamo: Io esamineremo più avanti.
Inoltre, il dissenso sul numero di partiti che può, o non può, garantire l'esplicarsi della sostanza, richiama l'attenzione su un altro problema non sufficientemente analizzato, che non si può certo risolvere con la semplice enumerazione dei partiti. Quindi, un concetto come quello di "stato unipartitico" deve essere considerato, sul piano teorico, di dubbia validità; esso può avere naturalmente una certa utilità pratica come punto di riferimento nei dibattiti politici, ma non è chiarito in misura tale da acquisire validità in sede scientifica. È un concetto "elementare", come quello di istituzioni rappresentative.
Queste prime considerazioni di metodo non ci hanno cacciato in un vicolo cieco; tuttavia il progresso è solo relativo, poiché troppe questioni sono state trattate in una volta sola. Il tema deve quindi essere circoscritto ulteriormente per raggiungere una maggiore chiarezza e, a questo scopo, faremo ancora riferimento al caso, particolarmente interessante, dell'Unione Sovietica.

4.
Mentre si può negare radicalmente che il governo sovietico rappresenti il popolo, non ci può essere dubbio alcuno sul fatto che il governo sovietico rappresenta la società sovietica in quanto società politica pronta all'azione nella storia. Gli atti legislativi e amministrativi del governo sovietico sono efficaci nell'ambito nazionale, nel senso che i comandi governativi trovano obbedienza nel popolo, a parte il loro margine, politicamente irrilevante, di inefficacia; e l'Unione Sovietica è una potenza sulla scena della storia proprio perché il governo sovietico può in realtà manovrare un'enorme macchina militare alimentata dalle risorse umane e materiali della società sovietica.
Appare subito evidente che, con codeste considerazioni, la trattazione è passata su un terreno molto più fertile dal punto di vista teoretico. Infatti, con l'espressione "società politiche pronte per l'azione", vengono poste in evidenza unità di potere chiaramente individuabili nella storia. Le società politiche, per essere pronte all'azione, devono avere una struttura interna che consenta ad alcuni dei loro membri - il legislatore, il governo, il principe, il sovrano, il magistrato, ecc., secondo la terminologia delle diverse epoche - di ottenere abituale obbedienza per i loro atti di comando; e questi atti devono servire le necessità esistenziali della società, come la difesa del regno e l'amministrazione della giustizia - se è lecito richiamare questa classificazione medievale dei fini. Tali società, con la loro organizzazione interna per l'azione, non esistono come entità cosmiche immutabili dall'eternità, ma crescono nella storia: questo processo per cui esseri umani si costituiscono in una società per l'azione è quello che noi chiamiamo articolazione di una società. Come risultato dell'articolazione politica noi troviamo degli esseri umani, i capi, che possono agire a nome della società, uomini i cui atti non sono imputati alle loro persone singole ma alla società nel suo complesso - con la conseguenza, per esempio, che la formulazione di una regola generale per un'area della vita umana non viene considerata alla stregua dì un'esercitazione di filosofia morale, ma è sentita dai membri della società come enunciazione di una norma che per loro ha una forza obbligante. Quando gli atti di una persona le vengono imputati in questo modo, quella persona diventa rappresentativa di una società.
Se il significato della rappresentanza, in questo contesto, deve fondarsi su un'effettiva imputazione, sarà necessario distinguere la rappresentanza da altri tipi di imputazione; e sarà necessario chiarire la differenza fra un agente e un rappresentante. Per agente si deve intendere una persona alla quale il superiore ha conferito il potere di trattare una determinata questione in base alle istruzioni ricevute, mentre per rappresentante si deve intendere una persona che ha il potere di agire per conto di una società m forza della posizione che occupa nella struttura della comunità, senza istruzioni specifiche per una particolare questione, e i cui atti non possono venire disconosciuti dai membri della società. Un delegato alle Nazioni Unite, per esempio, è un agente del suo governo che agisce m base a istruzioni, mentre il governo che lo ha inviato è il rappresentante della rispettiva società politica.

5.
Naturalmente, il capo rappresentativo di una società articolata non può rappresentarla nel suo complesso se non ha un certo rapporto con gli altri membri della società. Da ciò emerge una serie di difficoltà per la scienza politica attuale, dato che, sotto la pressione del simbolismo democratico, la resistenza a distinguere terminologicamente le due relazioni è diventata così forte da interessare la stessa teoria politica. Il potere di governo è tale anche in una democrazia, ma si è riluttanti ad ammetterlo. Il governo rappresenta il popolo e il simbolo "popolo" ha finito con l'assorbire i due significati che si erano mantenuti distinti nel Medioevo, quando senza resistenze emozionali si parlava di "regno" e di "sudditi",
Questa pressione del simbolismo democratico è l'ultima fase di una serie di complicazioni terminologiche, cominciata fin dall'alto Medioevo in coincidenza con l'incipiente articolarsi delle società politiche occidentali. La Magna Charta, per esempio, indica il Parlamento come il commune consilium regni nostri, il "consiglio comune del nostro regno". (Magna Charta, c. 12) Esaminiamo questa formula. Essa designa il Parlamento come il consiglio del regno, non come una rappresentanza del popolo, mentre il possessivo sta ad indicare che il regno è del re. La formula è tipica di un'epoca in cui convergono due periodi di articolazione sociale. In una prima fase soltanto il re rappresenta il regno, e il senso di questo monopolio nella rappresentanza è indicato dal possessivo che accompagna il simbolo "regno". In una seconda fase, i comuni in seno al regno, le contee, i borghi e le città cominciano ad articolarsi fino a che si sentano capaci di agire; e i baroni stessi cessano di essere singoli feudatari e si costituiscono in baronagium, cioè in una comunità capace di azione, come appare nella forma securitatis della Magna Charta. Non possiamo qui soffermarci sui dettagli di questo complicato processo; il punto interessante, sotto il profilo teorico, è che i rappresentanti delle comunità articolate, quando si riuniscono a consiglio formano comunità di un ordine più elevato, fino al vertice, costituito dal Parlamento bicamerale, che si considera consiglio rappresentativo di una società ancora più vasta, cioè del regno nella sua interezza.
Col progredire dell'articolazione della società, dunque, si sviluppa un particolare organo rappresentativo composito, insieme con il simbolismo che ne esprime l'interna struttura gerarchica.
Il peso della rappresentanza rimase al re nei secoli successivi alla Magna Charta. Gli ordini di convocazione dei secoli decimoterzo e decimoquarto sono coerenti nel riconoscere l'articolazione della società, ma tuttavia inquadrano i nuovi elementi che partecipano della rappresentanza nell'ambito stesso della rappresentanza regale. Non solo il regno è del re, ma sono del re anche i prelati, i magnati e le città. I singoli mercanti, d'altra parte, non sono inclusi nel simbolismo rappresentativo: essi non sono del re, ma sempre "del regno" o "della città", cioè del complesso o di una sua articolata suddivisione. (Writ of Summons to a "Colloquium" a of Merchants (1303), in STUBBS, Select Charters, 8a ed., p. 500) I singoli membri della società sono puri e semplici "abitanti" o "concittadini del regno". (Summons of the Archbishop and Clergy to Parliament (1295), in Stubbs cit., p. 485) Il simbolo "popolo" non appare ancora come un grado dell'articolazione e della rappresentanza; esso è usato soltanto come sinonimo di regno in espressioni come "il bene del regno". (Summons to the Parliament of Lincoln (1301), in Stubbs cit., p. 499)
Perché questa gerarchia di rappresentanza confluisse e si fondesse al vertice in un solo rappresentante, il re in Parlamento, ci volle parecchio tempo; inoltre, lo sviluppo di questo processo di fusione cominciò a rivelarsi sotto il profilo teorico soltanto secoli più tardi, come risulta da un famoso passo dell'allocuzione di Enrico VIII al Parlamento nel caso dei Ferrers. In tale circostanza, nel 1543, il re disse: "I nostri Giudici ci fanno presente che in nessun'epoca ci siamo trovati così in alto nel nostro potere regale come nell'epoca del Parlamento, nella quale io come capo e Voi come membri siamo congiunti e saldati insieme in un solo corpo politico, sicché qualsivoglia offesa o ingiuria (in quest'epoca) sia fatta al più piccolo membro della Camera dev'essere considerata offesa o ingiuria fatta alla nostra persona e all'intera Corte del Parlamento". La differenza di rango fra re e Parlamento è ancora mantenuta, ma trova ora la sua espressione simbolica nel rapporto fra testa e membra dì un corpo; l'organo rappresentativo composito è diventato "un corpo politico", dove il potere regale risulta accresciuto dalla sua partecipazione alla rappresentanza parlamentare e il Parlamento si sente valorizzato dalla sua partecipazione alla regalità.
La direzione nella quale si evolvono i simboli risulta evidente dal passo citato: quanto si estende l'articolazione della società, altrettanto si allarga la rappresentanza, finché si giunge al punto che l'insieme dei membri diventa politicamente articolato fino all'ultimo individuo e la società diventa rappresentante di se stessa. Simbolicamente, questo limite è espresso nella magistrale e dialettica sintesi di Lincoln: "Governo del popolo, dal popolo, per il popolo". Il simbolo "popolo" in questa formula significa successivamente la società politica articolata, chi la rappresenta e l'insieme dei membri vincolati dagli atti di chi li rappresenta. Il segreto dell'efficacia di questa formula sta nella perfetta fusione del simbolismo democratico con il contenuto teorico.
Il processo storico per cui si giunge al limite estremo dell'articolazione, espresso dal simbolismo del "popolo", sarà analizzato con maggiori dettagli in un capitolo successivo. Per il momento basterà segnalare che il passaggio in campo dialettico presuppone un'articolazione della società giù giù fino all'individuo come un'unità rappresentabile. Questo particolare tipo di articolazione non si realizza dovunque; di fatto, esso è realizzato solo nelle società occidentali. Lungi dall'essere una caratteristica della natura dell'uomo, la sua realizzazione è condizionata da certe condizioni storione che si sono verificate solo in Occidente. In Oriente, dove queste condizioni storiche specifiche non si sono verificate storicamente, questo tipo di articolazione non esiste; e l'Oriente rappresenta la parte più numerosa del genere umano.

6.
L'articolazione è, dunque, la condizione perché esista rappresentanza. Per esistere, una società deve articolarsi, facendo emergere un rappresentante che agisca a suo nome. Passiamo ora a chiarire meglio questi concetti. Con il simbolo "articolazione" si intende quel processo storico per cui le società politiche, le nazioni, gli imperi sorgono e cadono, come pure le evoluzioni e rivoluzioni che hanno luogo fra i due estremi della nascita e della caduta. Questo processo storicamente non è così individualizzato da impedire dì ricondurne la molteplice varietà a pochi tipi generali. Ma si tratta di un lavoro gigantesco (Toynbee ha già pubblicato sei volumi sull'argomento) che non possiamo qui affrontare. Ciò che ci interessa, in questa sede, è di stabilire se le implicazioni del concetto di articolazione possono essere precisate meglio. Ciò in realtà è possibile ed esistono molti e interessanti tentativi di ulteriore teorizzazione. Di solito, tali tentativi si hanno quando l'articolazione di una società è giunta a un punto di svolta critico: in genere, il problema attira l'attenzione quando una società sta per nascere, quando sta per disintegrarsi o quando giunge a una fase decisiva della sua esistenza. Una fase decisiva nella crescita delle società occidentali si verificò intorno alla metà del secolo decimoquinto con il consolidarsi dei regni nazionali occidentali dopo la guerra dei cento anni. In quest'epoca critica, uno dei più acuti pensatori politici inglesi, sir John Fortescue, tentò di teorizzare il problema dell'articolazione. È interessante esaminare il suo tentativo.
La realtà politica che soprattutto interessava Fortescue era costituita dai regni d'Inghilterra e di Francia. La sua cara Inghilterra era per lui un dominium politicum et regale, quello che oggi si direbbe un regime costituzionale; l'odiata Francia di Luigi XI era un dominium tantum regale, qualcosa insomma di molto simile a una tirannide - buono solo per l'esilio quando il paradiso costituzionale divenne troppo inospitale. (FORTESCUE, The Governance of England, ed. Flummer, Oxford 1885, cc. I e II)
Gran merito di Fortescue è stato quello di non limitarsi a una descrizione statica dei due tipi di regime. Certo, egli ricorreva all'analogia statica dell'organismo quando sosteneva che un regno deve avere un capo come il corpo ha la testa, ma poi, in una brillante pagina dell'opera De Laudibus legum Anglie, rese dinamica l'analogia paragonando la creazione di un regno alla trasformazione dell'embrione in un corpo articolato. (FORTESCUE, De Laudibus legum Anglie, ed. S.B. Chrimes, Cambridge 1942, c. XIII) Uno stato sociale politicamente inarticolato nell'articolazione del regno, ex populo erumpit regnum. Fortescue comò il termine tecnico di "eruzione" per indicare la prima articolazione di una società e coniò poi anche il termine di "proruzione" per indicare i successivi sviluppi di questa articolazione, come ad esempio la transizione da un regime meramente regale a un regime politico. Questa teoria dell'"eruzione" non dice che il popolo per via di contratto passi da uno stato di natura ad uno stato di ordine regolato dalla legge. Fortescue era perfettamente conscio della differenza.
Per chiarire meglio questo punto, egli criticò la definizione che sant'Agostino diede del popolo quale moltitudine associata per via di consenso in un ordine giusto e in una unione di interessi. Un popolo siffatto, rilevò Fortescue, sarebbe acephalus, senza capo, mero tronco di un corpo senza testa; un regno esiste effettivamente solo quando è dotato di un capo - rex erectus est - capace di reggere il corpo.
La creazione dei concetti di eruzione e proruzione costituisce una conquista teorica di notevole portata, perché rende possibile distinguere nella rappresentanza quella componente che andò poi quasi smarrita quando, nei secoli successivi, nell'interpretazione della realtà politica ebbe il sopravvento il simbolismo giuridico. Ma Fortescue andò anche oltre. Egli si rese conto che l'analogia organica, se poteva servire di base al suo concetto dell'eruzione, era tuttavia di scarsa utilità conoscitiva. In un regno articolato c'era qualcosa, un'intima sostanza, che assicurava coesione alla società, e di questo qualcosa non ci si poteva rendere conto col semplice ricorso all'analogia organica. Al fine di penetrare più intimamente questa misteriosa sostanza, egli applicò al regno il simbolo cristiano del corpus mysticum. Si trattò di un passo innanzi decisivo nella sua analisi, per più rispetti interessante. In primo luogo, il fatto che quel simbolo potesse essere così trasposto, era un sintomo del declino della società cristiana, articolata nella Chiesa e nell'impero; ed era, parallelamente, un sintomo del crescente consolidarsi dei regni nazionali, del loro chiudersi in se stessi come società autocentriche. In secondo luogo, quella trasposizione stava ad indicare che i regni avevano acquisito un qualcosa di definitivo nel loro significato. Nella trasposizione del simbolo cristiano del corpus mysticum al regno si può già intravedere l'evoluzione verso un tipo di società politica destinata a succedere non solo all'impero, ma anche alla Chiesa. Certo, queste implicazioni non furono previste neppure vagamente da Fortescue, ma ciò nonostante la trasposizione preannunciava in qualche modo l'emergenza di un tipo di rappresentante che rappresenti la società in tutti gli aspetti dell'umana esistenza, compresa la dimensione spirituale. Invece Fortescue era convinto che il regno potesse dirsi corpus mysticum solo analogicamente. Il tertium comparationis doveva essere il vincolo sacramentale della comunità, ma il vincolo sacramentale non doveva essere né il Logos di Cristo che vive nei membri del corpus mysticum cristiano né il Logos pervertito che vive nelle moderne comunità totalitarie. Benché non avesse ben chiare le implicazioni della sua ricerca di un Logos immanente alla società, nondimeno Fortescue gli diede un nome e lo chiamò intencio populi. Questa intencio populi è il centro del corpo mistico del regno; ricorrendo ancora una volta ad una analogia organica, Fortescue parlò di essa come del cuore, che trasmette al capo e alle membra del corpo, come sua corrente sanguigna nutritiva, le provviste per la prosperità del popolo. Si faccia attenzione, in questo contesto, alla funzione dell'analogia organica: essa non serve a identificare un dato membro di una società con un corrispondente organo del corpo, ma, al contrario, essa tende a sottolineare che il centro animatore di un corpo sociale non è individuabile in alcuno dei suoi membri umani. La intencio populi non è localizzata né nel rappresentante regale, né nel popolo come moltitudine di soggetti, ma è l'intangibile centro vivificante del regno nel suo complesso. La parola "popolo" in questa formula non significa una moltitudine fisica di esseri umani, ma la sostanza mistica che "erompe" nell'articolazione; e la parola intencio sta a indicare l'urgenza o la spinta di questa sostanza a erompere e a mantenersi in un'esistenza articolata come entità che attraverso la sua articolazione può provvedere alla propria prosperità.
Quando Fortescue applicò in concreto la sua concezione, in The Governance of England, chiarì ulteriormente la sua idea del rappresentante legale contrapponendola alla concezione feudale e gerarchica del potere regale. Nella concezione feudale il re era "il più alto potere temporale sulla terra", inferiore al potere ecclesiastico, ma superiore ai feudatari del regno. (Op. cit., C. VIII) Fortescue accettò l'ordine dei poteri nella christianitas ed era ben lontano dal concepire uno stato sovrano chiuso; ma inserì il nuovo corpus mysticum nel corpo mistico di Cristo attribuendo una duplice funzione al rappresentante regale.
Nell'ordine della christianitas il re restava il più alto potere temporale, ma nello stesso tempo il potere regale doveva servire a procurare difesa e giustizia al regno. Fortescue cita san Tommaso: "Il re è per il regno, non il regno per il re", e quindi giunge alla conclusione: il re è nel suo regno ciò che il papa è nella Chiesa, un servus servorum Dei; e, di conseguenza, "ogni atto del re dev'essere riferito al suo regno": abbiamo qui la più sintetica formulazione del problema della rappresentanza. (Ibid.)

7.
L'elaborazione di questo simbolismo fu una conquista personale di Fortescue come teorico. I regni d'Inghilterra e di Francia impressionarono l'epoca con la forza persuasiva della loro esistenza come entità di potere, dopo che la guerra dei cent'anni aveva disgregato il potere feudale e portato alla costituzione dei grandi regni territoriali. Fortescue cercò di chiarire che cosa in realtà fossero i regni, queste nuove singolari entità; e la sua teoria fu la soluzione originale di un problema proposto dalla realtà delle cose. Nella sua soluzione, tuttavia, egli fu aiutato da una tradizione di articolazione politica sopravvissuta fino ai suoi tempi dal periodo della Grande Migrazione anteriore alla fondazione dell'impero occidentale. In un passo della sua Governance of England, al quale non si è dato il peso che merita, egli usò come modello di articolazione politica una delle numerose versioni della fondazione dei regni della migrazione ad opera di un gruppo di fuggiaschi troiani. Il mito della fondazione di regni occidentali da parte di una schiera di troiani guidati da un figlio o nipote di Enea era largamente diffuso; e, nei primi secoli dell'Occidente, esso servì a conferire ai nuovi governi una nobiltà di fondazione che uguagliasse quella romana. Nel modello di Fortescue troviamo una schiera siffatta agli ordini di Bruto, l'eponimo dei brettoni, alle origini stesse dell'Inghilterra. Quando "una grande schiera", egli scrive, "quale quella formata dagli uomini che giunsero con Bruto in questa terra, volle unirsi in un corpo politico chiamato regno, dotato di un capo che lo governasse..., essi scelsero come loro capo e re lo stesso Bruto. Ed essi e lui stesso, in séguito a questa loro costituzione, istituzione e unificazione in un regno, decretarono che codesto regno fosse retto e legittimato da leggi che riscuotessero il consenso di tutti".( Ibid., c. III; cfr. pure De Laudibus, c. XIII)
La componente troiana del mito, la rivalità con Roma, è di secondario interesse ai nostri fini; ma al di là del travestimento mitico si rivela la concreta articolazione di schiere di invasori in una società politica. Il mito richiama la fase iniziale di questa articolazione in società e induce a soffermarsi sui racconti originali di tali fondazioni e sulla terminologia con cui essi descrivono l'articolazione. A questo fine citerò alcuni passi dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, scritta nella seconda metà del secolo ottavo.
Nel racconto di Paolo Diacono la storia attiva del Longobardi comincia quando, dopo la morte di due duchi, il popolo decise di non più vivere in piccoli gruppi sotto i duchi e "si diede un re come le altre nazioni".(12) La terminologia qui richiama il desiderio degli israeliti, nel Libro di Samuele, di avere un re come le altre nazioni, ma il concreto articolarsi delle tribù in regno è indicato con chiarezza. Quando, nel corso della migrazione, la libera federazione tribale risultò troppo debole, venne eletto un re in vista di una più efficace condotta militare e amministrativa degli affari; e questo re fu scelto da una famiglia "che era considerata particolarmente nobile fra essi". Il racconto ci riporta così all'articolazione iniziale storicamente concreta. In questa situazione troviamo quella che si può chiamare una materia prima sociale, composta di gruppi a livello tribale, sufficientemente omogenei per articolarsi in una società più vasta. Inoltre, il racconto fa riferimento alla pressione delle circostanze, che ha spinto ad articolarsi e, infine, all'esistenza in seno al gruppo di membri che eccellevano sugli altri per carisma di sangue e per carisma personale, in misura sufficiente per essere elevati al ruolo di rappresentanti.
Procediamo oltre nel racconto dello storico dei Longobardi. Subito dopo l'elezione di un re ha inizio una serie di guerre vittoriose. Dapprima furono sconfitti gli Eruli, al punto che "essi non ebbero più un re".( Pauli Historia Langobardorum, 1, 14, Hanover 1878) Poi seguì la guerra con i Gepidi, l'evento decisivo della quale fu la morte del figlio del re Gepido "che aveva avuto parte decisiva nel provocare la guerra".( Ibid.. p. 20) Dopo la morte del giovane principe, i Gepidi fuggirono e anch'essi "alla fine caddero così in basso che non ebbero più un re". Passi analoghi sono numerosi negli altri storici del periodo delle migrazioni. Ci limitiamo a citare un solo esempio particolarmente interessante; Isidoro ricorda che gli Alani e gli Svevi persero l'indipendenza del loro regno per mano dei Goti ma, cosa piuttosto singolare, mantennero a lungo il loro regno in Spagna, "benché non ne avessero alcun bisogno nella loro indisturbata quiete". Nella storiografia delle migrazioni barbariche, dal secolo quinto all'ottavo, l'esistenza storica di una società politica fu sempre espressa in termini di acquisizione, possesso o perdita del rex, del rappresentante regale. Essere articolata significava, per una comunità, avere un re; perdere il re significava perdere la capacità di agire; quando un gruppo non era attivo, non aveva bisogno di un re. [Per un esame del problema, cfr. ALFRED DOVE, Der Wiederintritt des nationaien Princips in die Weltgeschichte (1890) (in Ausgewahlte Schriften, 1898)].

8.
Le sintesi teoriche or ora esaminate appartengono al periodo della fondazione e del consolidamento delle società politiche occidentali nel tardo Medioevo. Il problema dell'articolazione rappresentativa tornerà in primo piano quando una società correrà pericolo di disintegrazione. Le difficoltà della Terza Repubblica furono il clima in cui Maurice Hauriou elaborò la sua teoria della rappresentanza. Fornirò qui un breve sommario della teoria che Hauriou sviluppò nel suo Précis de droit constitutionnel. (MAURICE HAURIOU, Précis de droit constitutionnel, 2a ed., 1929)
Il potere di un governo è legittimo, secondo Hauriou, quando rappresenta un'istituzione, in particolare Io stato. Lo stato è una comunità nazionale in cui il potere dirigente conduce gli affari della res publica. Il primo compito di un potere dirigente è di creare una nazione politicamente unificata, trasformando la preesistente, disorganica molteplicità in un corpo organizzato per l'azione. Il centro attivo di un'istituzione siffatta è l'idea, l’idèe directrice, di realizzarla, di espanderla e di accrescerne il potere; e la specifica funzione di un capo è quella di concepire quest'idea e di realizzarla storicamente. L'istituzione giunge al suo culmine quando il capo risulta subordinato all'idea e quando, nello stesso tempo, si consegue il consentement coutumier dei membri. Essere un rappresentante significa guidare, in una posizione dirigente, lo sforzo di realizzare l'idea incarnandola in un'istituzione; e un capo ha autorità nella misura in cui egli è in grado di rappresentare l'idea attraverso il suo potere di fatto.
Da questa concezione Hauriou deduce una serie di asserzioni sui rapporti fra potere e diritto: 1) l'autorità di un potere rappresentativo precede esistenzialmente la regolazione di questo potere da parte del diritto positivo; 2) il potere stesso è un fenomeno di diritto perché ha la sua base nell'istituzione; nella misura in cui un potere ha autorità rappresentativa, esso può produrre il diritto positivo; 3) l'origine del diritto non si può trovare nelle regolazioni giuridiche, ma dev'essere cercata nella decisione per cui un potere ordinato subentra a una situazione di contesa.
La teoria che abbiamo qui riassunta, e la serie delle deduzioni, avevano a proprio bersaglio polemico certe ben note debolezze della Terza Repubblica; la lezione di Hauriou può essere sintetizzata così: per essere rappresentativo, non basta che un governo sia tale in senso costituzionale (il nostro tipo elementare di istituzioni rappresentative); esso deve essere rappresentativo anche nel senso esistenziale di realizzare l'idea dell'istituzione. E il monito implicito in tutto ciò può essere esplicitato così: se un governo è rappresentativo soltanto in senso costituzionale, sarà spazzato via, presto o tardi, da un capo rappresentativo in senso esistenziale; e molto probabilmente il nuovo capo esistenziale non sarà neppure rappresentativo in senso costituzionale.

9.
La nostra analisi della rappresentanza a questo livello è giunta a conclusione e possiamo sintetizzarne in breve i risultati.
Abbiamo trattato della rappresentanza in senso elementare e in senso esistenziale. Il passaggio dal primo al secondo tipo era necessario, perché la pura e semplice descrizione della realizzazione esterna di una società politica non toccava la fondamentale questione della sua esistenza. L'indagine sulle condizioni dell'esistenza, quindi, ha fatto nascere i problemi dell'articolazione e della comprensione della stretta corrispondenza fra tipi di articolazione e rappresentanza. Il risultato di questa analisi può compendiarsi così: una società politica comincia ad esistere quando si articola e produce un rappresentante. Se questo è vero, ne segue che il tipo elementare di istituzioni rappresentative riguarda soltanto la realizzazione esterna di un particolare tipo di articolazione e di rappresentanza. In sede critica sarà quindi opportuno limitare l'uso del termine "rappresentanza" al suo senso esistenziale. Solo così l'articolazione sociale apparirà in piena evidenza come il problema esistenzialmente preminente; e solo allora si avrà una chiara visione delle particolarissime condizioni storiche in cui possono svilupparsi quelle che convenzionalmente si dicono istituzioni rappresentative. È già stato sottolineato che tali condizioni si sono verificate solo nelle civiltà greco-romana e occidentale, e la condizione del loro sviluppo fu indicata, in via preliminare, nell'articolazione dell'individuo quale unità rappresentabile. In via incidentale, nel corso dell'analisi, è emersa una serie di problemi la cui indagine non può essere ulteriormente sviluppata per il momento; problemi come quello del simbolo "popolo", quello dell’intencio populi di Fortescue con le sue implicazioni immanentistiche, e quello del rapporto fra un siffatto regno chiuso e la rappresentanza spirituale dell'uomo nella Chiesa. Tutti questi elementi saranno ricondotti a unità nei prossimi capitoli.
Si è constatato, tuttavia, che un'adeguata differenziazione dei concetti non è necessaria soltanto per esigenze teoriche. L'insufficiente distinzione fra problemi elementari ed esistenziali trova riscontro concreto nella realtà politica. Questa confusione, per il solo fatto della sua presenza nella realtà, costituisce un problema. La persistente attribuzione del simbolo "rappresentanza" a uno speciale tipo di articolazione è sintomo di provincialismo politico e culturale. E questi provincialismi, quando oscurano la struttura della realtà, possono diventare pericolosi. Hauriou ha indicato con molta energia come la rappresentanza in senso elementare non costituisca una garanzia contro la disintegrazione e riarticolazione esistenziale di una società. Quando un rappresentante non adempie al suo compito esistenziale, la legalità costituzionale della sua posizione non può salvarlo; quando una minoranza creativa, per usare la terminologia di Toynbee, diventa una minoranza di dominio, corre il pericolo di essere sostituita da una nuova minoranza creativa. L'ignoranza pratica di questo problema ha contribuito in misura notevole, nel nostro tempo, a provocare Ì gravi sconvolgimenti interni delle società politiche occidentali, con le loro vaste ripercussioni internazionali. Con la nostra stessa politica estera abbiamo cooperato ad aggravare il disordine internazionale, con i nostri sinceri ingenui tentativi di curare i mali del mondo promuovendo la diffusione delle istituzioni rappresentative nel senso elementare in aree nelle quali ancora non esistevano le condizioni esistenziali per il loro funzionamento. Codesto provincialismo, che persiste nonostante l'esperienza delle sue conseguenze, costituisce anch'esso un problema interessante per lo studioso. Non si può spiegare la strana politica seguita dalle potenze democratiche occidentali, che hanno portato a continue guerre, accusando le debolezze di singoli statisti, anche se tali debolezze sono di per sé evidentissime. Quella politica è piuttosto il sintomo di un generale rifiuto a guardare in faccia la realtà, rifiuto radicato profondamente nei sentimenti e nell'opinione delle grandi masse della nostra società occidentale. Solo perché essa è sintomo di un fenomeno di massa è legittimo parlare di una crisi della civiltà occidentale. Le cause di questo fenomeno saranno attentamente esaminate nel corso dei prossimi capitoli; ma il loro esame critico presuppone una più chiara comprensione del rapporto fra teoria e realtà. Perciò noi dobbiamo, a questo punto, riprendere la descrizione della situazione teorica che abbiamo lasciato incompiuta all'inizio di questo capitolo.