venerdì 29 novembre 2013

Pio XII : La leggenda alla prova degli archivi - di Pierre Blet, S.I. - .



Papa Pio XII.
 Quando morì il 9 ottobre 1958, Pio XII fu oggetto di omaggi unanimi di ammirazione e di gratitudine: "Il mondo - dichiarò il presidente Eisenhower - è ora più povero dopo la morte del Papa Pio XII". E Golda Meir, ministro degli Esteri dello Stato di Israele: "La vita del nostro tempo è stata arricchita da una voce che esprimeva le grandi verità morali al di sopra del tumulto dei conflitti quotidiani. Noi piangiamo un grande servitore della pace" (1). Pochi anni dopo, a partire dal 1963, egli era diventato l'eroe di una leggenda nera: durante la guerra, per calcolo politico o pusillanimità, egli sarebbe rimasto impassibile e silenzioso di fronte ai crimini contro l'umanità, che invece un suo intervento avrebbe bloccato.
Quando le accuse si fondano su documenti, è possibile discutere l'interpretazione dei testi, verificare se essi sono stati fraintesi, recepiti acriticamente, mutilati o selezionati in un certo senso.
Quando invece una leggenda viene costruita con elementi disparati e con un lavoro di immaginazione, la discussione non ha senso. L'unica cosa possibile è opporre al mito la realtà storica provata da documenti incontestabili. A tal fine sin dal 1964 il Papa Paolo VI, che, come Sostituto della Segreteria di Stato, era stato uno dei più stretti collaboratori di Pio XII, autorizzò la pubblicazione dei documenti della Santa Sede relativi alla seconda guerra mondiale.
L'impostazione di "Actes et Documents"
L'archivio della Segreteria di Stato conserva infatti i dossier nei quali è possibile seguire spesso di giorno in giorno, a volte di ora in ora, l'attività del Papa e dei suoi uffici. Vi si trovano i messaggi e i discorsi di Pio XII, le lettere scambiate tra il Papa e le autorità civili ed ecclesiastiche, note della Segreteria di Stato, note di servizio dei subalterni ai superiori per comunicare informazioni e proposte e, inoltre, note private (in particolare quelle di Mons. Tardini, che aveva l'abitudine, felicissima per gli storici, di riflettere penna alla mano), la corrispondenza della Segreteria di Stato con i rappresentanti esterni della Santa Sede (Nunzi, Internunzi e Delegati apostolici) e le note diplomatiche scambiate tra la Segreteria di Stato e gli ambasciatori o i ministri accreditati presso la Santa Sede. Questi documenti sono, per lo più, spediti con il nome e la firma del Segretario di Stato o del Segretario della prima Sezione della stessa Segreteria: ciò non toglie che essi traducano le intenzioni del Papa.
Partendo da tali documenti sarebbe stato possibile scrivere un'opera che descrivesse quali erano stati l'atteggiamento e la politica del Papa durante la seconda guerra mondiale. Oppure si sarebbe potuto comporre un libro bianco, per dimostrare l'infondatezza delle accuse contro Pio XII. Tanto più che, essendo l'addebito principale quello del silenzio, era facile, partendo dai documenti, porre in luce l'azione della Santa Sede in favore delle vittime della guerra e, in particolare, delle vittime delle persecuzioni razziali. Sembrò più conveniente intraprendere una pubblicazione completa dei documenti relativi alla guerra.
Esistevano già diverse collane di documenti diplomatici, di cui molti volumi riguardavano la seconda guerra mondiale: Documenti diplomatici italiani, Documents on British Foreign Policy: 1919-1939, Foreign Relations of the United States, Diplomatic Papers, Akten zur deutschen auswärtigen Politik 1918-1945. Di fronte a tali collane, e su tali modelli, era utile permettere agli storici di studiare sui documenti il ruolo e l'attività della Santa Sede durante la guerra. In questa prospettiva fu iniziata la pubblicazione della collana degli Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale (2).
La difficoltà risiedeva nel fatto che per questo periodo gli archivi - sia quello del Vaticano sia quelli degli altri Stati - erano chiusi al pubblico e anche agli storici. L'interesse particolare rivolto agli avvenimenti della seconda guerra mondiale, il desiderio di farne la storia partendo dai documenti, e non soltanto da racconti o testimonianze più o meno indiretti, avevano indotto gli Stati coinvolti nel conflitto a pubblicare i documenti ancora inaccessibili al pubblico. Le persone di fiducia incaricate di un tale compito sono soggette ad alcune regole: non pubblicare documenti che chiamino in causa persone ancora in vita o che, rivelati, ostacolerebbero negoziati in atto. In base a tali criteri furono pubblicati i volumi relativi agli anni Quaranta dei Foreign Relations of the United States, e gli stessi criteri furono seguiti nella pubblicazione dei documenti della Santa Sede.
Il compito di pubblicare i documenti della Santa Sede relativi alla guerra venne affidato dalla Segreteria di Stato a tre padri gesuiti: Angelo Martini, redattore di questa rivista, che aveva già avuto accesso agli archivi riservati del Vaticano, Burkhart Schneider e lo scrivente, entrambi docenti nella Facoltà di Storia della Chiesa presso la Pontificia Università Gregoriana. Il lavoro ebbe inizio sin dai primi giorni del gennaio 1965, in un ufficio vicino al deposito dell'archivio dell'allora Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari e Prima Sezione della Segreteria di Stato; là erano normalmente custoditi i documenti relativi alla guerra.
In quelle condizioni il lavoro comportava facilitazioni e difficoltà particolari. La difficoltà era che, trattandosi di un archivio non aperto al pubblico, non esistevano inventari sistematici finalizzati alla ricerca; i documenti non erano classificati né in ordine strettamente cronologico, né in ordine strettamente geografico; quelli di carattere politico, quindi relativi alla guerra, si trovavano talora insieme a documenti di carattere religioso, canonico o anche personale, rinchiusi in scatole abbastanza maneggevoli, ma talvolta dal contenuto molto disparato. Informazioni relative alla Gran Bretagna potevano trovarsi in dossiers sulla Francia, se l'informazione era stata inviata tramite il Nunzio in Francia, e naturalmente interventi in favore di ostaggi belgi nelle scatole del Nunzio a Berlino. Era necessario quindi esaminare ogni scatola e scorrerne tutto il contenuto per identificare i documenti relativi alla guerra. La ricerca era tuttavia resa più semplice grazie a una vecchia regola della Segreteria di Stato in vigore dal tempo di Urbano VIII, la quale prescriveva ai Nunzi di trattare un solo argomento per lettera.
Di fronte a tali difficoltà, avevamo notevoli facilitazioni.
Lavorando in un ufficio della Segreteria di Stato e su commissione, non eravamo soggetti ai vincoli dei ricercatori ammessi nelle sale di consultazione dei depositi pubblici; uno di noi prendeva direttamente dagli scaffali del deposito le scatole di documenti. Altra considerevole facilitazione era che si trattava di documenti per lo più dattiloscritti e rimasti allo stato di documenti separati (i manoscritti da dattiloscrivere per la tipografia costituirono un'eccezione); cosicché, non appena riconosciuto un documento come relativo alla guerra, bastava estrarlo, fotocopiarlo e consegnare in tipografia la fotocopia correlata delle note, come esige un lavoro scientifico.
Benché nell'inverno del 1965 il lavoro procedesse abbastanza rapidamente, pensammo di chiedere l'aiuto del p. Robert Leiber, che si era ritirato nel Collegio Germanico, dopo essere stato per oltre 30 anni segretario privato di Pacelli, prima Nunzio, poi Segretario di Stato e infine Papa Pio XII. Egli aveva seguito molto da vicino gli affari della Germania e fu lui a rivelarci l'esistenza delle minute delle lettere di Pio XII ai vescovi tedeschi; esse furono materia del secondo volume della collana e sono i documenti che meglio rivelano il pensiero del Papa.
I singoli volumi
Il primo volume, che ricopre i primi 17 mesi del pontificato (marzo 1939-luglio 1940) e che rivela gli sforzi di Pio XII per scongiurare la guerra, uscì nel dicembre 1965 ottenendo in genere buona accoglienza. Nel corso del 1966, mentre il p. Schneider preparava attivamente il volume delle lettere ai vescovi tedeschi, il p. Robert A. Graham, un gesuita americano della rivista America, il quale aveva già pubblicato un'opera sulla diplomazia della Santa Sede (Vatican Diplomacy), chiese informazioni sul periodo che costituiva l'oggetto del nostro lavoro. Come risposta egli fu invitato e aggregato al nostro gruppo, tanto più che già avevamo preso conoscenza dei contatti sempre più frequenti di Pio XII con Roosevelt e dei documenti in lingua inglese, nei quali ci imbattevamo piuttosto di frequente. Egli lavorò immediatamente alla preparazione del terzo volume, dedicato alla Polonia e concepito sul modello del secondo, concernente i rapporti della Santa Sede con gli episcopati. Ma gli scambi epistolari diretti con gli altri episcopati si rivelarono molto meno intensi, sicché il volume 2° e il 3° (in due tomi) rimasero gli unici nel loro genere. Così decidemmo di dividere i documenti in due sezioni: una, che continuava il primo volume, per le questioni di carattere prevalentemente diplomatico, contraddistinte dal loro titolo Le Saint-Siège et la guerre en Europe, Le Saint-Siège et la guerre mondiale: furono i volumi 4°, 5°, 7° e 11°, mentre i voll. 6°, 8°, 9° e 10°, intitolati Le Saint-Siège et les victimes de la guerre riuniscono in ordine cronologico i documenti relativi agli sforzi della Santa Sede per soccorrere tutti quelli che la guerra faceva soffrire nel corpo o nello spirito, prigionieri separati dalla famiglia ed esiliati lontano dai loro cari, popolazioni sottoposte alle devastazioni della guerra, vittime di persecuzioni razziali.
Il lavoro durò oltre 15 anni; il gruppo si divise i compiti secondo i volumi progettati e secondo il tempo che ognuno aveva a disposizione. E p. Leiber, il cui aiuto ci era stato così prezioso, ci venne tolto dalla morte il 18 febbraio 1967. E p. Schneider, pur continuando a insegnare Storia moderna alla Gregoriana, dopo aver pubblicato le lettere ai vescovi tedeschi, si era dedicato alla sezione delle vittime della guerra e preparò, con il concorso del p. Graham, i voll. 6°, 8° e 9°, terminati a Natale del 1975; ma nell'estate dello stesso anno era stato colpito dalla malattia di cui sarebbe morto nel maggio seguente. E p. Martini, che a tempo pieno si era dedicato a questo lavoro e aveva in qualche modo lavorato a tutti i volumi, non ebbe la soddisfazione di vedere l'opera interamente compiuta: poté soltanto, all'inizio dell'estate del 1981, vedere le bozze dell'ultimo volume, prima di lasciarci a sua volta. Il vol. 11° (ultimo della collana) uscì verso la fine del 1981, sotto la responsabilità del p. Graham e mia.
Benché fosse il più anziano tra noi, il p. Graham aveva dunque potuto lavorare sino al compimento dell'opera e anche proseguire, in quei 15 anni, ricerche e pubblicazioni complementari, uscite per lo più come articoli su La Civiltà Cattolica, e che costituiscono anche una fonte di informazioni, che gli storici della seconda guerra mondiale potranno consultare con profitto. Egli lasciò Roma il 24 luglio 1996 per fare ritorno nella natia California, dove chiuse i suoi giorni l'11 febbraio 1997.
Sin dall'inizio del 1982 avevo da parte mia ripreso le mie ricerche sul XVII secolo francese e sulla diplomazia vaticana. Ma vedendo che, dopo 15 anni, i nostri volumi rimanevano sconosciuti anche a molti storici, dedicai gli anni 1996-97 a riprenderne l'essenziale e le conclusioni in un volume di modeste dimensioni, ma denso per quanto possibile (3). Una consultazione serena di tale documentazione fa apparire nella sua realtà concreta l'atteggiamento e la condotta del Papa Pio XII durante il confitto mondiale e, di conseguenza, l'infondatezza delle accuse rivolte contro la sua memoria. I documenti pongono in evidenza come gli sforzi della sua diplomazia per evitare la guerra, per dissuadere la Germania dall'aggredire la Polonia, per convincere l'Italia di Mussolini a dissociarsi da Hitler siano stati al limite delle sue possibilità. Non si trova nessuna traccia della pretesa parzialità filotedesca che egli avrebbe assorbito nel periodo trascorso nella nunziatura in Germania. I suoi sforzi, associati a quelli di Roosevelt, per mantenere l'Italia fuori dal conflitto, i telegrammi di solidarietà del 10 maggio 1940 ai Sovrani di Belgio, Olanda e Lussemburgo dopo l'invasione della Wehrmacht, i suoi consigli coraggiosi a Mussolini e al re Vittorio Emanuele III per suggerire una pace separata non vanno certamente in tale direzione.
Sarebbe illusorio pensare che con le alabarde della guardia svizzera, o anche con una minaccia di scomunica, egli avrebbe fermato i carri armati della Wehrmacht.
Ma l'accusa spesso ripresa è di essere rimasto silenzioso di fronte alle persecuzioni razziali contro gli ebrei sino alle loro estreme conseguenze e di aver lasciato così libero corso alla barbarie nazista. Ora i documenti manifestano gli sforzi tenaci e continui del Papa per opporsi alle deportazioni, sull'esito delle quali il sospetto cresceva sempre più. Il silenzio apparente nascondeva un'azione segreta attraverso le nunziature e gli episcopati per evitare, o perlomeno limitare, le deportazioni, le violenze, le persecuzioni. Le ragioni di tale discrezione sono chiaramente spiegate dallo stesso Papa in diversi discorsi, nelle lettere agli episcopati tedeschi, o nelle delibere della Segreteria di Stato: le dichiarazioni pubbliche non sarebbero servite a nulla, non avrebbero fatto che aggravare la sorte delle vittime e moltiplicarne il numero.
Accuse ricorrenti
Nell'intento di offuscare tali evidenze, i detrattori di Pio XII hanno messo in dubbio la serietà della nostra pubblicazione. Molto singolare al riguardo è un articolo apparso su un quotidiano parigino della sera il 3 dicembre 1997:, "Quei quattro gesuiti hanno prodotto [!] negli Actes et Documents testi che hanno scagionato Pio XII dalle omissioni di cui egli è accusato [...]. Ma quegli Actes et Documents sono lontani dall'essere completi". Si voleva dare a intendere che avevamo tralasciato documenti scomodi per la memoria di Pio XII e per la Santa Sede.
In primo luogo, non si vede bene come l'omissione di alcuni documenti aiuterebbe a scagionare Pio XII dalle omissioni che gli vengono rinfacciate. D'altra parte, dire con tono perentorio che la nostra pubblicazione non sia completa equivale a fare un'affermazione che non si può provare: a tal fine bisognerebbe confrontare la nostra pubblicazione con il fondo di archivio e mostrare i documenti presenti nel fondo e mancanti nella nostra pubblicazione. Benché il fondo di archivio corrispondente sia ancora inaccessibile al pubblico, alcuni si sono spinti sino a pretendere di fornire prove di tali lacune degli Actes et Documents. Facendo questo, essi hanno dimostrato la loro scarsa visione circa l'esplorazione di fondi di archivio, di alcuni dei quali reclamano l'apertura.
Riprendendo l'identica affermazione di un quotidiano romano dell'11 settembre 1997, il citato articolo del 3 dicembre menziona come assente nella nostra pubblicazione la corrispondenza di Pio XII con Hitler. Osserviamo anzitutto che la lettera con la quale il Papa notificò la propria elezione al Capo di Stato del Reich è l'ultimo documento pubblicato nel secondo volume degli Actes et Documents. Per il resto, se non abbiamo pubblicato la corrispondenza di Pio XII con Hitler, è perché essa esiste unicamente nella fantasia del giornalista. Costui invoca i contatti di Pacelli, Nunzio in Germania, con Hitler, ma avrebbe dovuto verificare le date: Hitler giunge al potere nel 1933 e quindi avrebbe avuto occasione di incontrare il Nunzio apostolico soltanto da quella data. Ma Mons. Pacelli era rientrato a Roma nel dicembre 1929, e Pio XI lo aveva creato Cardinale il 16 dicembre e Segretario di Stato il 16 gennaio 1930. E soprattutto, se quella corrispondenza fosse esistita, le lettere del Papa sarebbero conservate negli archivi tedeschi e ve ne sarebbe normalmente traccia negli archivi del Ministero degli Esteri del Reich. Le lettere di Hitler sarebbero finite in Vaticano, ma se ne troverebbe menzione nelle istruzioni agli ambasciatori di Germania, Bergen e poi Weizsäcker, incaricati di consegnarle, e nei dispacci di quei diplomatici, che rendono conto di averle rimesse al Papa o al Segretario di Stato. Nessuna traccia di tutto ciò. In mancanza di tali riferimenti, si deve dire che la serietà della nostra pubblicazione è stata messa in dubbio senza l'ombra di una prova.
Queste osservazioni circa la presunta corrispondenza tra il Papa e il Führer valgono per gli altri documenti reali. Spessissimo i documenti del Vaticano sono attestati da altri archivi, ad esempio le note scambiate con gli ambasciatori. Si può pensare che molti telegrammi del Vaticano siano stati intercettati e decifrati dai servizi di informazione delle potenze belligeranti, e che se ne trovino copia nei loro archivi, e quindi, se avessimo tentato di nascondere alcuni documenti, sarebbe possibile conoscerne l'esistenza e avere allora un fondamento per mettere in dubbio la serietà del nostro lavoro.
Lo stesso articolo del quotidiano parigino, dopo avere immaginato relazioni tra Hitler e il nunzio Pacelli, ricorda un articolo del Sunday Telegraph del luglio 1997, che accusa la Santa Sede di avere utilizzato l'oro nazista per aiutare criminali di guerra a fuggire verso l'America Latina, soprattutto il croato Ante Pavelic: "Alcuni studi accreditano tale tesi (!)". È ammirevole la disinvoltura con cui i giornalisti possono accontentarsi di documentare le proprie affermazioni. Ne saranno gelosi gli storici, che spesso faticano ore per verificare i loro riferimenti. Si capisce che un giornalista si fidi di un collega soprattutto quando il titolo inglese del giornale gli dà un'apparenza di rispettabilità.
Ma ci sono ancora due affermazioni che meritano di essere esaminate separatamente, e cioè l'arrivo nelle casse del Vaticano dell'oro nazista, o più esattamente l'oro degli ebrei sottratto dai nazisti, e il suo uso per facilitare la fuga di criminali di guerra nazisti verso l'America Latina.
Alcuni quotidiani americani, infatti, avevano prodotto un documento del Dipartimento del Tesoro con il quale lo stesso Dipartimento era informato che il Vaticano avrebbe ricevuto attraverso la Croazia oro nazista di provenienza ebraica. Il "documento del Dipartimento del Tesoro" può fare impressione; ma occorre leggere ciò che si trova sotto il titolo e allora si scopre che si tratta di una nota proveniente dalla "comunicazione di un informatore romano degno di fede". Chi prendesse per oro colato simili affermazioni dovrebbe leggere quanto ha scritto il p. Graham sulle prodezze dell'informatore Scattolini, che viveva delle informazioni tratte dalla sua fantasia, che egli passava a tutte le ambasciate, compresa quella degli USA, la quale le trasmetteva fedelmente al Dipartimento di Stato (4). Nelle nostre ricerche nell'archivio della Segreteria di Stato, non abbiamo trovato menzione del supposto arrivo nelle casse del Vaticano dell'oro sottratto agli ebrei. Spetta ovviamente a chi sostiene tali asserzioni fornire le prove documentate, ad esempio una ricevuta, che non sarebbe rimasta negli archivi del Vaticano, come le lettere di Pio XII a Hitler. Vi è invece riportato il sollecito intervento di Pio XII, quando le comunità ebraiche di Roma furono oggetto di un ricatto da parte delle SS, che esigevano da loro 50 kg di oro; allora il Gran Rabbino si rivolse al Papa per chiedergli i 15 kg mancanti, e Pio XII diede immediatamente ordine ai suoi uffici di fare il necessario (5).
Recenti verifiche non hanno trovato di più.
La notizia poi relativa alla fuga di criminali nazisti verso l'America Latina che sarebbero stati aiutati dal Vaticano non è una novità. Non possiamo ovviamente escludere l'ingenuità di un ecclesiastico romano che si serva della propria posizione per facilitare la fuga di un nazista. Le simpatie del vescovo Hudal, rettore della chiesa nazionale tedesca, per il Grande Reich, sono note; ma da qui a immaginare che il Vaticano organizzasse su vasta scala la fuga di nazisti verso l'America Latina, significa comunque attribuire agli ecclesiastici romani una carità eroica. A Roma erano noti i piani nazisti concernenti la Chiesa e la Santa Sede. Pio XII vi ha accennato nell'allocuzione concistoriale del 2 giugno 1945, ricordando come la persecuzione del regime contro la Chiesa si fosse ancora aggravata con la guerra, "quando i suoi seguaci si lusingavano ancora, appena riportata la vittoria militare, di farla finita per sempre con la Chiesa" (6). Tuttavia gli autori, cui si rifà il nostro giornalista, hanno un'idea piuttosto elevata del perdono delle ingiurie praticato nell'ambiente del Papa per immaginare una quantità di nazisti accolti in Vaticano e di là condotti in Argentina, protetti dalla dittatura di Perón, e di lì in Brasile, Cile, Paraguay, per salvare ciò che poteva essere salvato del Terzo Reich: un "Quarto Reich" sarebbe nato nelle pampas.
Si tratta di notizie nelle quali è difficile distinguere tra storia e finzione. Agli appassionati di romanzi possiamo consigliare la lettura di Ladislao Farago A la recherche de Martin Bormann et des rescapés nazis d'Amérigue du sud (in inglese Aftermath. Martin Bormann and the fourth Reich). Con il titolo inglese "Il Quarto Reich" è detto tutto. L'Autore ci conduce da Roma e dal Vaticano in Argentina, Paraguay, Cile, sulla pista del Reichsleiter e degli altri capi nazisti in fuga. Con la precisione di un'Agatha Christie, descrive la posizione esatta di ogni personaggio al momento del crimine, indica il numero delle camere d'albergo occupate dai nazisti in fuga o dai cacciatori di nazisti, lanciati sulle loro tracce, fa vedere la Volkswagen verde che li trasporta.
Si rimane colpiti dalla modestia dell'Autore che presenta il proprio libro come "un'inchiesta alla francese, studio serio, ma senza pretesa di pura erudizione" (!).
Conclusione
Il lettore penserà bene che l'archivio del Vaticano non racchiuda nulla di tutto ciò, anche in quello che ci sarebbe di reale. Se il vescovo Hudal ha fatto fuggire qualche pezzo grosso nazista, non sarà certamente andato a chiedere il permesso al Papa. E se a cose fatte glielo avesse confidato, non ne sapremmo di più.
Tra le cose che l'archivio non rivelerà mai, occorre ricordare i colloqui intercorsi tra il Papa e i suoi visitatori, salvo che con gli ambasciatori che ne hanno riferito ai loro Governi o con un De Gaulle che ne parla nelle sue Memorie.
Ciò non significa che, quando gli storici seri desiderano verificare personalmente l'archivio da cui sono stati presi i documenti pubblicati, il loro desiderio non sia legittimo e lodevole: anche dopo una pubblicazione per quanto possibile accurata, la consultazione degli archivi e il contatto diretto con i documenti giovano alla comprensione storica. Altro è mettere in dubbio la serietà della nostra ricerca, altro è chiedersi se nulla ci sia sfuggito. Non abbiamo deliberatamente tralasciato nessun documento significativo, perché ci sarebbe sembrato nuocere all'immagine del Papa e alla reputazione della Santa Sede. Ma in un'impresa del genere chi lavora è il primo a domandarsi se non abbia dimenticato nulla. Senza il p. Leiber, l'esistenza delle minute delle lettere di Pio XII ai vescovi tedeschi ci sarebbe sfuggita e la collana sarebbe stata privata dei testi forse più preziosi per comprendere il pensiero del Papa (7). Tuttavia
quell'intero blocco non contraddice in nulla ciò che ci dicono le note e le corrispondenze diplomatiche. In queste lettere scorgiamo meglio la preoccupazione di Pio XII di ricorrere all'insegnamento dei vescovi per mettere i cattolici tedeschi in guardia contro le lusinghe perverse del nazionalsocialismo, più pericolose che mai in tempo di guerra. Tale corrispondenza pubblicata nel secondo volume degli Actes et Documents conferma dunque l'opposizione tenace della Chiesa al nazionalsocialismo; ma già si conoscevano le prime messe in guardia dei vescovi tedeschi, come Faulhaber e von Galen, di molti religiosi e di sacerdoti e, infine, l'enciclica Mit brennender Sorge, letta in tutte le Chiese della Germania la domenica delle Palme del 1937 a dispetto della Gestapo.
Non possiamo dunque considerare che come pura e semplice menzogna l'affermazione che la Chiesa abbia sostenuto il nazismo, come ha scritto un quotidiano milanese del 6 gennaio 1998. Inoltre i testi pubblicati nel quinto volume degli Actes et Documents smentiscono in maniera perentoria l'idea che la Santa Sede avrebbe sostenuto il Terzo Reich per timore della Russia sovietica. Quando Roosevelt chiese il concorso del Vaticano per vincere l'opposizione di cattolici americani al suo disegno di estendere alla Russia in guerra contro il Reich l'appoggio già concesso alla Gran Bretagna, egli fu ascoltato. La Segreteria di Stato incaricò il Delegato apostolico a Washington di affidare a un vescovo americano il compito di spiegare che l'enciclica Divini Redemptoris - che ingiungeva ai cattolici di rifiutare la mano tesa dai partiti comunisti - non si applicava alla situazione presente e non vietava agli USA di andare in aiuto allo sforzo bellico della Russia sovietica contro il Terzo Reich. Sono, queste, conclusioni inoppugnabili.
Perciò, senza voler scoraggiare i ricercatori futuri, dubito molto che l'apertura dell'archivio vaticano del periodo bellico modificherà la nostra conoscenza di tale periodo. In quell'archivio, come abbiamo spiegato prima, i documenti diplomatici e amministrativi stanno insieme a documenti di carattere strettamente personale; e ciò esige una proroga
maggiore che negli archivi dei Ministeri degli Affari Esteri degli Stati. Chi, senza attendere, desidera approfondire la storia di quel periodo di sconvolgimenti può già lavorare con frutto negli archivi del Foreign Office, del Quai d'Orsay, del Département d'Etat e degli altri Stati che avevano rappresentanti presso la Santa Sede. I dispacci del ministro inglese Osborne fanno rivivere, meglio delle note del Segretario di Stato vaticano, la situazione della Santa Sede, accerchiata nella Roma fascista, poi caduta sotto il controllo dell'esercito e della polizia tedesca (8).
E dedicandosi a tali ricerche, senza reclamare un'apertura prematura dell'archivio del Vaticano, che essi mostreranno di ricercare proprio la verità.
[Questo articolo è apparso in apertura del numero 3546 - 21 marzo 1998 - de "La Civiltà Cattolica"].

Note(1) In Oss. Rom., 9 ottobre 1958.
(2) Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, édités par P. Blet - A. Martini - R. A. Graham [dal 3° vol.] - B. Schneider, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 11 vol. in 12 tomi [due tomi per il 3° vol.], 1965-1981.
(3) Cfr P. Blet, Pie XII et la seconde guerre mondiale d'après les archives du Vatican, Paris, Perrin 1997.
(4) Cfr. R. A. Graham, "Il vaticanista falsario. L'incredibile successo di Virgilio Scattolini", in Civ. Catt. 1973 III 467-478.
(5) Cfr. Actes et Documents, vol. 9, cit., 491 e 494.
(6) Pio XII, "Allocuzione concistoriale" (2 giugno 1945), in AAS 37 (1945) 159-168.
(7) Così quando abbiamo preparato il primo volume, ci era rimasto sconosciuto il redattore dell'appello di Pio XII per la pace del 24 agosto 1939, opportunamente corretto e approvato dal Papa. Solamente ricerche ulteriori ci hanno permesso di scoprire che il redattore era stato Mons. Montini (cfr B. Schneider, "Der Friedensappel Papst Pius' XII vom 24 August 1939" in Archivum Historiae Pontificiae 6 [1968] 415424), anche se è difficile attribuire ai due autori le singole parti.
(8) Cfr. O. Chadwick, Britain and the Vatican during the Second World War, Cambridge, 1986.
Tratto da L'OSSERVATORE ROMANO, 27 marzo 1998

I libri deuterocanonici nel Nuovo Testamento


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Qualche giorno fa, passeggiando tranquillo, mi sono imbattuto in due testimoni di Geova. Loro mi chiamano, io mi fermo, sapendo già come sarebbe andata a finire, cioè male. Neanche a dirlo, si mise a piovere, di una pioggia fitta e gelata. Loro erano senza ombrello, io ne avevo uno, sebbene piccolo, e così per cristiana carità lo aprii e ci mettemmo tutti e tre sotto. Il più giovane, approfittando dell’occasione, mise fuori la sua brava traduzione del nuovo mondo e cominciò a leggere i soliti passi che, secondo loro, smonterebbero la dottrina cattolica. Di tutta quella conversazione, sinceramente non ricordo più nulla.
O quasi. A una certa, il giovane geovista mi fa: “Ma perché voi cattolici non credete alla vostra Bibbia? Sta scritto anche nella CEI che i morti risorgeranno nella carne e voi non ci credete!" Al che ribatto: "Ma guardi che noi nel Credo diciamo: Credo la risurrezione della carne...". E lui: "Molti cattolici mi hanno detto che si va in paradiso e basta, si vede che nemmeno voi sapete in cosa credete, e volete convincere gli altri di essere nella Verità?". Come spiegare a quei geovisti della crisi massonico-conciliare della Chiesa Cattolica? Impossibile, ho potuto solo sorridere e tacere. Effettivamente, come possiamo noi cattolici donare al mondo la gioia del vangelo, se noi siamo i primi a non conoscerlo per davvero?
Ma non è questo il punto. Scrivo questo articolo per smontare una grande bufala che circola nelle sette protestanti e quelle che da esse hanno avuto origine, fino ad arrivare quindi a Mormoni, Avventisti e Geovisti, e che spiega il motivo per cui tutti questi hanno una versione della Bibbia differente da quella unica della Chiesa Cattolica. Loro mi chiedono prove bibliche sul Purgatorio (a cui loro ovviamente non credono), ed appena mi sentono nominare il libro dei Maccabei il più anziano quasi si irrita, dicendo: “Cosa!? Ma i libri dei Maccabei non sono canonici, sono eretici per gli stessi ebrei!” e, strano ma vero, quasi mandandomi a quel paese, mi saluta e se ne va, trascinando con sé il giovane, e lasciandomi solo sotto quella pioggia ghiacciata.
Tornai a casa. Mi misi a fare ricerche sui cosiddetti libri deuterocanonici (e non eretici) della Scrittura, questo articolo ne è il sunto. Mentre il canone cattolico è composto di 73 libri, quello protestante è composto di soli 66 libri.
Vediamo allora perché Martin Lutero, padre della Riforma protestante, decise di cancellare alcuni libri dal canone veterotestamentario.
Elenco dei Libri rimossi:

  • Giuditta
  • Tobia
  • 1Maccabei
  • 2Maccabei
  • Sapienza
  • Siracide
  • Baruc
  • Ester
  • Supplementi a Daniele e Geremia
L’edizione dei Settanta è la più antica della Tanakh ebraica (Antico Testamento). Essa fu scritta da 72 rabbini ad Alessandria d’Egitto nel III secolo a.C. ed in questa edizione sono inclusi i libri cosiddetti deuterocanonici. Nel I secolo d.C., però, qualche cosa cambiò. La scuola dei masoreti, di ispirazione farisaica, decise di togliere questi libri dalla Tanakh. Cosa era accaduto? Semplicemente questi libri rischiavano di dare credito alla nuova religione che si stava diffondendo nell’Impero romano, il Cristianesimo, il quale minava le fondamenta del potere del Sinedrio. Da qui il termine deuterocanonici, ossia considerati sì ispirati da Dio, ma non “degni” di far parte del canone ufficiale. Per la nascente Chiesa, invece, questi libri facevano ovviamente parte a pieno titolo del canone biblico.
E’ preoccupante constatare come Lutero si affidò alla tradizione biblica dei Farisei, coloro che condannarono Gesù Cristo a morte, piuttosto che attenersi alla tradizione apostolica rifacentesi proprio alla versione biblica dei Settanta.
Infatti il Nuovo Testamento è pieno di riferimenti agli scritti deuterocanonici, smontando vergognosamente l’eresia luterana e, più in generale, protestante o riformata. Analizziamo questi passaggi.
  1. La strage degli innocenti compiuta per mano di Erode e narrata in Matteo 2,16 è profetizzata in Sapienza 11,7:
    “Invece della corrente di un fiume perenne, sconvolto da putrido sangue in punizione di un decreto infanticida, tu desti loro inaspettatamente acqua abbondante, mostrando per la sete di allora, come avevi punito i loro avversari”
    L’acqua abbondante a cui il libro fa riferimento è, ovviamente, Gesù Cristo, in risposta a quella inutile strage. Il Cristo stesso infatti si definì sorgente di acqua viva (Giovanni 4,10; Apocalisse 22,17).
  2. L’insegnamento di Gesù in Matteo 6,19-20, dove è scritto di accumulare tesori in Cielo, è il chiarimento di quanto scritto in Siracide 29,11: “Sfrutta le ricchezze secondo i comandi dell'Altissimo; ti saranno più utili dell'oro”
  3. La regola d’oro di Gesù in Matteo 7,12 – “fa’ agli altri quel che vuoi sia fatto a te” – era già anticipata in Tobia 4,15: “Non fare a nessuno ciò che non piace a te”
  4. In Matteo 7,16-20, Gesù insegna a riconoscere gli alberi dai frutti, così come in Siracide 27,6 è scritto: “Il frutto dimostra come è coltivato l'albero, così la parola rivela il sentimento dell'uomo”
  5. Le persone descritte come pecore senza pastore in Matteo 9,36 sono le stesse di Giuditta 11,19: “Tu li potrai condurre via come pecore senza pastore e nemmeno un cane abbaierà davanti a te”
  6. In Matteo 12,42, Gesù stesso fa riferimento alla Sapienza di Salomone: “La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è più di Salomone!”
  7. In Matteo 22,25; Marco 12,20; Luca 20,29, alcuni sadducei decidono di mettere alla prova Gesù chiedendogli a quale di sette fratelli morti senza eredi andrebbe in moglie una donna che li sposò tutti nella speranza di un figlio. Interessante notare quanto scritto in Tobia 3,8: “Bisogna sapere che essa era stata data in moglie a sette uomini e che Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli. A lei appunto disse la serva: 'Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti. Ecco, sei già stata data a sette mariti e neppure di uno hai potuto godere'”. I sadducei si rifanno evidentemente a questo episodio e gli evangelisti ne riconoscono la canonicità. E’ interessante anzi notare che gli avversari di Cristo si rifanno proprio ad uno stratagemma satanico per tentare di mettere in difficoltà il Signore.
  8. L’abominio della desolazione profetizzato da Cristo in Matteo 24,15 è anche presente in 1Maccabei 1,54 e in 2Maccabei 8,17. In particolare, il primo dei versetti citati dà un’ulteriore idea di ciò che l’Anticristo farà nel compiere tale abominio, ossia l’edificazione di una statua idolatrica: “Nell'anno centoquarantacinque, il quindici di Casleu il re innalzò sull'altare un idolo. Anche nelle città vicine di Giuda eressero altari”
  9. La beffa dei capi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani in Matteo 27,43 è profetizzata in Sapienza 2,18: “Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari”.
  10. Una frase di Maria nel Magnificat (Luca 1,52) è tratta da Siracide 10,14: “Il Signore ha abbattuto il trono dei potenti, al loro posto ha fatto sedere gli umili”
  11. Gesù che chiama Dio Suo Padre (Giovanni 5,18) segue quanto scritto in Sapienza 2,16, dove sono profetizzate le parole dei calunniatori del Cristo: “Moneta falsa siam da lui considerati, schiva le nostre abitudini come immondezze. Proclama beata la fine dei giusti e si vanta di aver Dio per padre”
  12. La festa ebraica della Dedicazione, Channukah in ebraico, citata in Giovanni 10,22, fu istituita da 1Maccabei 4,59: “Poi Giuda e i suoi fratelli e tutta l'assemblea d'Israele stabilirono che si celebrassero i giorni della dedicazione dell'altare nella loro ricorrenza, ogni anno, per otto giorni, cominciando dal venticinque del mese di Casleu, con gioia e letizia”
  13. La citazione di San Paolo in 1Corinzi 2,16 riprende il versetto di Sapienza 9,13: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?”. Ricordiamo che San Paolo fu formato alla scuola di Gamaliele, rabbino e fariseo (cfr. Atti 22,3), a dimostrazione che i farisei, prima dell’avvento di Gesù, credevano nella canonicità dei libri cosiddetti deuterocanonici.
  14. L’affermazione di Paolo in 1Corinzi 15,29, la quale dice che se non c’è resurrezione non avrebbe senso battezzare i nostri corpi corrotti, segue 2Maccabei 12,43-44: “Poi fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d'argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti”
  15. L’armatura della Fede descritta da San Paolo in Efesini 6,13-17 si rifà in parte a Sapienza 5,17-20: “Egli prenderà per armatura il suo zelo e armerà il creato per castigare i nemici; indosserà la giustizia come corazza e si metterà come elmo un giudizio infallibile; prenderà come scudo una santità inespugnabile; affilerà la sua collera inesorabile come spada e il mondo combatterà con lui contro gli insensati”
  16. I sette spiriti che sono dinanzi al trono di Dio, ossia i sette Arcangeli, di Apocalisse 1,4 sono citati anche in Tobia 12,15 per bocca del santo Arcangelo Raffaele: “Io sono Raffaele, uno dei sette angeli che sono sempre pronti ad entrare alla presenza della maestà del Signore”
Cari fratelli protestanti, abbandonate l’eresia che vi inganna e tornate nella Chiesa di Cristo, quella Cattolica!
Gaetano Masciullo [per altri articoli cliccare qui] (http://radiospada.org/)

Conoscete un vegetariano? Mostrategli questa immagine. Come la soia distrugge l'ecosistema dell'Amazzonia


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Se l'immagine non basta, fategli leggere questo articolo del sito ambientalista Peacelink.it:

La soia minaccia l'Amazzonia

La produzione di semi di soia, che suscita le ire degli ambientalisti per via della rapida diffusione delle varietà transgeniche, è oggetto di un'altra critica: un aumento della pressione sulla foresta amazzonica del Brasile.
2 novembre 2004 - Mario Osava
Amazzonia La produzione di semi di soia, che suscita le ire degli ambientalisti per via della rapida diffusione delle varietà transgeniche, è oggetto di un'altra critica: un aumento della pressione sulla foresta amazzonica del Brasile.
Sebbene i campi di soia non rimpiazzino direttamente le aree di foresta dell'Amazzonia, la loro diffusione nelle aree circostanti provoca un aumento dei prezzi della terra, spingendo altre pratiche agricole meno profittevoli, come l'allevamento, nelle foreste, spiega Roberto Smeraldi, coordinatore della Ong Friends of the Earth-Brasile.
Inoltre, la soia -- oggigiorno la principale fonte di esportazioni del Brasile -- sta avanzando grazie anche alla creazione di infrastrutture di trasporto, che contribuisce ulteriormente alla deforestazione migliorando l'accesso alla vasta regione amazzonica.
Ogni anno l'Amazzonica perde circa 25 mila metri quadri di foresta. Le colture di soia sono state introdotte nelle negli anni '60 nelle pampas meridionali del Brasile, dove il clima più simile a quello della Cina, da dove proviene la soia.
La produzione di soia ha cominciato poi a espandersi verso nord, e l'agenzia brasiliana per la ricerca agricola, EMBRAPA, ha sviluppato delle varietà più adatte ai climi tropicali. EMBRAPA, una rete di 40 centri di ricerca specializzati, ha svolto un ruolo chiave nello sviluppo agricolo del paese negli ultimi trent'anni.
La Ong denuncia l'espansione delle coltivazioni di soia nell'area di transizione fra il cosiddetto Cerrado - un ecosistema a savana - e l'Amazzonia, dove la deforestazione sta avendo un impatto negativo sul clima e la biodiversità dei due biomi.
In alcuni punti dell'Amazzonia, come la regione Santarém, nella parte occidentale dello stato settentrionale del Pará, c'è stata una "crescita esplosiva" delle colture di soai, dice Ane Alencar, una ricercatrice dell'Amazonian Environmental Research Institute.
Alcune aree di Santarém, circondata da foreste secondarie, sono state disboscate circa tre scoli fa, vicino un porto adibito all'esportazione di soia, ed è una "sacca di siccità", con una topografia ideale per le colture agricole su scala indusrtiale, sostiene la Alencar.
L'area coltivata è ancora relativamente piccola -- circa 30 mila ettari lo scorso anno -- ma è probabile che quest'anno aumenti di altre 20 mila ettari, "avanzando dentro la foresta tropicale... e ancora non sappiamo che impatto le monoculture di soia avranno sull'ecosistema", continua Ane Alencar.
Friends of the Earth ha individuato altre otto zone di espansione delle colture all'interno dell'Amazzonia o lungo i suoi confini, per di più nelle zone di savana, ma che minacciano la foresta tropicale.
L'esportazione di soia ha fatto aumentare il valore della terra lungo l'autostrada fra Cuiabá, capitale del Mato Grosso, e Santarém, incentivando l'appropriazione illegale di terre pubbliche. Le foreste vengono rase al suolo per dimostrare la proprietà, mentre i residenti di vecchia data vengono costretti ad andarsene.
Ma Homero Pereira, presidente della Federazione agricola dello stato centro-occidentale di Mato Grosso, nega che la produzione di soia sia dannosa.
Aggiunge inoltre che i coltivatori di soia sono "i migliori aziendalisti" e mettono "in pratica la conservazione", perché le colture crescono in aree precedentemente disboscate o adibite a pastorizia, la cui qualità viene migliorata fissando il nitrogeno alla terra, che viene così fertilizzata.
Quasi tutti gli agricoltori di soia praticano "la piantagione diretta", senza arare la terra, una tecnica sviluppata in Brasile per ridurre l'erosione del terreno e mantenere l'umidità della terra. La soia "non è una monocultura" perché viene alternata a cotone, granturco e rice, dice Pereira.
Lo stato del Mato Grosso, che è ricoperto da foresta amazzonica nella parte settentrionale, è oggi il principale produttore di soia del Brasile. Quest'anno il raccolto è arrivato a 15 milioni di tonnellate, il 30 per cento del totale nazionale. Dieci anni fa se ne producevano solo 5 milioni di tonnellate.
A partire dagli anni '80, la coltivazione di soia si è allargata rapidamente nel Cerrado, la savana di alberi di piccole dimensioni che copre un'ampia area del Brasile centrale, e alcune "isole" di terra dell'Amazzonia.
A causa del terreno acido e relativamente poco fertile, è stato necessario più tempo per trasformarlo in una regione agricola prospera.
Oggi è un'area molto ambita, perché grazie ai fertilizzanti il profilo produttivo è migliorato. Un altro dei vantaggi del Cerrado è un "periodo delle piogge ben definito" e un assetto geografico che facilita l'automazione agricola, ha detto a Tierramérica Paulo Roberto Galerani, un esperto di colture di soia della EMBRAPA.
L'ecosistema del Cerrado e il suo clima favorevole permettono agli agricoltori del Mato Grosso di raccogliere "fra 3100 e 3200 chili di soia per ettaro", una produttività che eccede la media nazionale di 2500 chili per ettaro, ha detto il presidente della Federazione agricola Pereira.
Le coltivazioni di soia si estendono attualmente su 5 milioni di ettari, un'area che potrebbe raddoppiare "semplicemente recuperando le terre adibite a pastorizia e ormai degradate"; in tal modo, non sarebbe necessario avanzare dentro l'Amazzonia, dove "la soia non cresce" a causa del terreno debole e dell'eccesso di umidità, ha detto.
Geraldo Eugenio de França, sovrintendente della ricerca e sviluppo di EMBRAPA, ha detto che il paese potrebbe usare razionalmente 60 milioni di ettari di aree degradate, raddoppiando così le aree coltivate del Brasile.
Sarebbe possibile in tal modo raddoppiare la produzione di cibo, fibre e altri prodotti agricoli senza distruggere le foreste dell'Amazzonia, ha sostenuto.
EMBRAPA è "il braccio dello sviluppo sostenibile", ha aggiunto, e rifiuta decisamente "sia il business agricolo incontrollato sia l'ambientalismo radicale".

«ERO MASSONE. Dalle tenebre della loggia alla luce di Cristo», disponibile in tutte le librerie

«ERO MASSONE. Dalle tenebre della loggia alla luce di Cristo», disponibile in tutte le librerie

Edito da EFFEDIEFFE,  e disponibile da oggi in tutte le librerie, il testo da non perdere «ERO MASSONE. Dalle tenebre della loggia alla luce di Cristo», 208 pagine, è un saggio scritto nel 2008 dal medico francese Maurice Caillet; narra della «sua conversione» al Cattolicesimo in un ambiente certamente nemico della vera Fede, ostile a quel «vincolo che unisce l’uomo a Dio» e che, «spezzato o alterato dalla creatura», secondo sant’Agostino, è stato «riparato mediante l’opera di Gesù Cristo»; Lui, «schiacciato dai nostri delitti», ci «risana con i Suoi lividi»[1]. Specializzato in chirurgia ginecologica, non battezzato, abortista ed anticlericale, il Caillet fu in un certo senso «malvagio ed impostore»[2], vittima e nel contempo interprete di un mondo probabilmente illecito ma certamente immorale e blasfemo, quello della «consorteria» e della «muratoria», un retroterra di «persecutori di tutti quelli che vogliono vivere pienamente in Cristo Gesù», formazione in cui l’uomo va «sempre di male in peggio» divenendo pertanto «ingannatore e ingannato nello stesso tempo»[3].
***
L'Editore (EFFEDIEFFE). L’ex-massone Maurice Caillet, chirurgo francese che ha militato nel partito socialista all’epoca di Mitterand, da abortista nella pratica medica, ateo ed affascinato dall’esoterismo e dall’occultismo, narra qui le sue confessioni e la sua miracolosa conversione al cattolicesimo. Dopo aver fatto parte per quindici anni di una influente loggia massonica (Grande Oriente di Francia), apprendendone i segreti (qui denunciati con sorprendente coraggio), gli intrecci corrotti tra potere politico ed amministrazioni sindacali e nazionali e le devastazioni sociali operate dai massoni in seno al governo di Valéry Giscard d’Estaing, Caillet rompe con la massoneria dopo una folgorante conversione avvenuta un freddo mattino di inizio febbraio al santuario di Lourdes. Da quella decisione, che progressivamente gli farà prendere coscienza di tutto il male da lui operato e gli farà scoprire la terrificante influenza satanica che agisce in quegli ambienti (che falsamente si ammantano di umanesimo e tolleranza), la sua vita personale e professionale verrà completamente stravolta e per lui inizierà una vera persecuzione: minacce di morte, licenziamento ed impedimento a continuare la carriera medica. Solo la Fede verrà in suo soccorso nella lotta che dovrà combattere contro i suoi nemici. Questa è la sua storia.
***
L'Autore (MAURICE CAILLET). … (1933, Bordeaux) chirurgo ginecologico, ha ricoperto numerosi incarichi nell’amministrazione sanitaria nazionale francese. I suoi libri (Niente è impossibile a Dio, Cattolico e massone: possibile?), pubblicati prima in Spagna e poi in Francia, documentano la totale incompatibilità tra pratica esoterica e cristianesimo.
***
Il curatore (CARLO DI PIETRO). La «Fede»! Quando pronunciamo questa parola «insorgono gli increduli e gli uomini moderni», sorridono, talvolta offendono, certamente discriminano e poi dicono: «Avanzo del medioevo»; il padre Agostino da Montefeltro, in una delle sue celebri omelie[4], si interroga anche su questo aspetto della «mentalità moderna, tutta materiale ed immanente», e risponde alla provocazione:  «Oh, insensati vittime del secolo!».
Leggendo il testo «ERO MASSONE» traspare, comunque e sin dall’inizio, una certa velata propensione al bene nell’intimo del soggetto e credo davvero che questi sia stato fortemente condizionato dal contesto sociale e dalle «cattive amicizie», tuttavia ciò non mi meraviglia, poiché ogni uomo nel suo intimo avverte che c’è «qualcosa che non va», benché egli stia operando «male», la sua coscienza lo «spinge verso la Verità», a guisa del rispetto della «Legge naturale», eppure questi continua a servire «mammona»[5] ed «ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio»[6]. Dio, principio e fine di tutte le cose, «può essere conosciuto con certezza dal lume naturale della ragione umana attraverso le cose che da Lui sono state fatte»[7], tuttavia il Caillet «toccò la verità con la sola mano sinistra» mentre la sua «destra» guardò ad altro, volle accrescere la conoscenza ma secondo «la via larga della porta spaziosa che conduce alla perdizione»[8] e tutto il suo concetto di «essere in sé» venne sintetizzato nel cosiddetto «testamento filosofico» riportato qui nello scritto, che è la tomba della retta ragione e l’esaltazione dell’uomo massone che vive, si legge, «conservando la stima di sé, sbarazzandosi dei sensi di colpa legati all’educazione ricevuta e agli antichi tabù».
Per me non è stato affatto facile curare l’edizione italiana di questo saggio per conto di «EDDEDIEFFE» e non poche volte mi sono dovuto confrontare con il dott. De Vita della Redazione, il quale a sua volta ha intrattenuto i rapporti con lo stimato Autore, poiché si è reso necessario un lavoro di attenta analisi dello scritto, cercando di assicurare che il materiale ricevuto fosse assolutamente conforme alle aspettative dapprima dell’Editore, dell’Autore ed infine luogo del lettore; evidenziandone le carenze e proponendo «aggiustamenti» in prospettiva teologica integra. Ho cercato, studiando e pregando, di rendere il manoscritto il più coerente possibile, cautelando all’Autore che la sua denuncia sociale contro la massoneria ed il suo messaggio di conversione, fossero il più caritatevoli possibili, presupponendo che «la carità non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità»[9].
[…] Risulta azzardato se non del tutto impossibile a qualsiasi commentatore comparare i singolari e complessi percorsi di conversione nella vita della moltitudine umana, dati soprattutto i particolari trascorsi di ogni soggetto e le vicende della vita, ciò nonostante vi sono alcuni «elementi», o «fasi», che prescindono la singolarità del caso e proiettano le attenzione comuni verso l’universalità del messaggio cristiano; tutte le «reali conversioni» comportano la chiamata di Dio e la Sua offerta come stimolo al bene nelle circostanze più varie della vita; l’uomo quindi accetta il dono della grazia nel modo che si apprende della parola di Gesù Cristo, quando Egli enuncia la parabola del seminatore [10]. […] andiamo avanti, tenendo sempre presente che il demonio è molto bugiardo, più astuto di noi, non smette mai di cercare «chi divorare» [11], e come la sua coda trascinò nel baratro «un terzo delle stelle» [12], così egli agisce nei confronti dell’uomo, per odio immenso, scagliandosi con prepotenza contro i «convertiti» per trascinarci nella «vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli».[13]
BUONA LETTURA, e ringraziamo MAURICE CAILLET (pregando anche per lui) per il coraggio dimostrato!
Pubblicazione a cura di Carlo Di Pietro (clicca qui per leggere altri studi pubblicati)
Per info e acquisti clicca qui.

[1] Cf. «Miserentissimus Redemptor», papa Pio XI, 8.05.1928
[2] Prov 14,25
[3] 2 Tm 3,12-14
[4] Raccolta dei riassunti a dispense delle «Prediche di Agostino da Montefeltro», Edizioni «Deposito in Torino», Tonino,1888, p. 329
[5] Lc 16,13
[6] 1Gv 4,3
[7] Concilio Vaticano I, papa Pio IX, Costituzione dogmatica «Dei Filius», 24.04.1870
[8] Mt 7,13
[9] 1Cor 13,6
[10] Cf. Lc 8,4-18
[11] Cf. 1Pt 5,8
[12] Cf. Apoc 12,4
[13] Eb 10,7

[Quello che non avete ancora visto e letto] Chi è Kotleba, il nuovo "Duce" dalla Slovacchia?

Ha vinto, in base alle sue dichiarazioni, senza cartelloni pubblicitari, senza apparizioni in tv, e spendendo circa 5.000 euro in campagna elettorale.
Ora è governatore della regione di Banská Bystrica. Area afflitta dalla disoccupazione, con alcuni distretti (Revuca, Rimavska Sobota) dove i senza lavoro arrivano praticamente al 30%, con vecchi problemi di coesistenza tra slovacchi e rom. Kotleba ha raccolto questo malumore e in diverse città e villaggi ha avuto davvero una valanga di voti – per esempio a Polomka (un villaggio di 3mila persone nel distretto di Brezno), dove haraggiunto l’82% dei consensi.
Il nuovo governatore sostiene che la Nato sia un’organizzazione terroristica e che la Slovacchia debba uscire dall’euro. Il partito non ha mancato di dimostrare in modo energico questa sua opposizione:
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Kotleba si fa chiamare “Vudce” (duce). Nel 2003 aveva fondato un altro partito che quattro anni più tardi fu dichiarato fuorilegge dal ministero degli Interni, tanto era antagonista. Anche nel corso di quell’esperienza si contraddistinse per le polemiche anti-rom. Elogiò inoltre l’operato di Mons. Josef Tiso, il prelato cattolico che ai tempi della Seconda guerra mondiale istituì a Bratislava, resa indipendente dalla Germania, un governo clericale vicino all'Asse . 
Dal sito del movimento, la commemorazione del Monsignore:
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Kotleba onora la tomba di Tiso:
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Altri onori resi alla tomba:
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Il partito pare essere coinvolto nella lotta per la difesa della famiglia tradizionale. Questa foto è stata scattataquest'anno in occasione dell'anniversario dell'arrivo dei Santi Cirillo e Metodio. Alciuni iscritti e simpatizzanti sono scesi in piazza insieme ad altre associazioni, l'evento è stato caratterizzato dal motto: "Restauro della famiglia - la resurrezione della nazione!":
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Negli ultimi giorni la pagina Facebook di Kotleba ha acquistato di ora in ora sempre più “Like” sull’onda del successo elettorale. Questa mattina siamo a 25.555 “Mi piace”, qualche giorno fa erano 18.000. Ammontavano a 5.000 poco dopo il primo turno elettorale del 9 novembre.
Una vignetta significativa: "Non è un neonazista, è un normale elettore frustrato perché nessuno si occupa dei suoi problemi".
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Stamattina sul quotidiano Europa si può incontrare una riflessione interessante: un fattore che spiega l’exploit del “principe nero” sta nel fatto che l’elettorato slovacco, periodicamente, dimostra una certa attrazione per gli uomini forti. Questa tendenza è stata confermata dall’ascesa al potere di Vladimir Meciar negli anni ’90. Volle il divorzio con la Cecoslovacchia, mise la museruola alla stampa e puntò sull’autarchia culturale, portando l’Ue e la Nato a congelare il processo di integrazione della Slovacchia.
Più recentemente c’è stato il caso del Partito nazionale slovacco di Jan Slota, abile a cavalcare i risentimenti storici nei confronti dell’Ungheria e il fastidio – pure lui – verso i rom. Slota, assieme al redivivo Meciar, fu partner di governo di Robert Fico in quella che, tra il 2006 e il 2010, fu l’inedita coalizione “rosso-bruna” slovacca. L’elettorato la bocciò, spingendo fuori dal parlamento sia Slota che Meciar, che era già stato punito nel 1998, quando uscì dal palazzo del governo. Insomma, se è vero che gli slovacchi prendono delle sbandate, è altrettanto vero che poi dimostrano di avere gli anticorpi. Ne conseguirebbe che anche Kotleba è destinato a essere una parentesi. Ma intanto, vuoi per la crisi economica e vuoi per la sfiducia verso i partiti tradizionali, robusta anche dalle parti di Bratislava, è stato eletto governatore di Banska Bystrica e da lì, in vista delle elezioni del 2016, intende giocarsi le sue carte e sfondare anche a livello nazionale.

Fonte: http://radiospada.org/

giovedì 28 novembre 2013

La Repubblica Romana del 1849 : oscuro preludio dell'ora presente - 2° ed ultima parte - .



La Repubblica Romana



La proclamazione della Repubblica.


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Bandiera della rivoluzionaria
Repubblica Romana.

L'illegale , e illegittima, "Assemblea Costituente", che aveva come presidente carbonaro  Giuseppe Galletti e vicepresidenti i settari Aurelio Saffi e Luigi Masi, venne inaugurata il 5 febbraio 1849 dittatoriamente e votò la proclamazione della repubblica (contrario il liberal-conservatore Mamiani che era filo-sabaudo). La base della Costituzione della Repubblica Romana, copia delle atee e anticlericali costituzioni giacobine,  era invece nell'ordine del giorno elaborato da Quirico Filopanti che l'"Assemblea Costituente" ordinò e approvò il 9 febbraio 1849 con 118 voti favorevoli, 8 contrari e 12 astenuti.
Fu pubblicato il giorno seguente nei seguenti articoli:
« Decreto fondamentale della Repubblica Romana
  • Art. 1: Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano.
  • Art. 2: Il Pontefice Romano avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale.
  • Art. 3: La forma del governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana.
  • Art. 4: La Repubblica Romana avrà col resto d'Italia le relazioni che esige la nazionalità comune. »
(Assemblea Costituente Romana. Roma, 9 febbraio 1849. Un'ora del mattino. Il Presidente dell'Assemblea G. Galletti.)
Il decreto, che sanciva il nulla data la sua totale natura illegale ed illegittima, portava le firme del presidente dell'"Assemblea Costituente" Giuseppe Galletti (Bolognese) e dei segretari Giovanni Pennacchi, Ariodante Fabretti (Perugino), Antonio Zambianchi e Quirico Filopanti (di Burdio).

Giuseppe Mazzini
(1846).

Nello scritto redatto per la proclamazione della Repubblica Romana, Mazzini proclamava: "Roma, la Santa, l’Eterna Roma, ha parlato". Cosa disse Roma per bocca di Mazzini, suo profeta? Che era ora che il potere non spettasse più ai papi ma appartenesse per intero ai migliori: "Noi vogliamo porre a capo del nostro edifizio sociale i migliori per senno e per core, il Genio e la Virtù". Va da sé che Mazzini riteneva sé stesso il migliore dei migliori. E infatti: "Mazzini era tutto, regolava tutto. Egli era in trono; papa, re, negoziatore, legislatore, cospiratore supremo, e tutto e tutti ai suoi ordini obbedivano", racconta lo storico romano contemporaneo Paolo Mencacci.
I rivoluzionari dell’Ottocento erano assolutamente certi, proprio come i loro successori del XX secolo, di avere ragione. Scrivendo nel lontano 1832 Mazzini espresse bene questa convinzione: "Le rivoluzioni, generalmente parlando, non si difendono che assalendo [...] se non è guerra d’eccidio, se non è guerra rivoluzionaria, guerra disperata, cittadina, popolare, energica, forte di tutti i mezzi, che la natura somministra allo schiavo del cannone al pugnale, cadrete e vilmente!". La follia dilagava nella Città Eterna.
Il 12 dicembre del 1848 giunse a Roma Giuseppe Garibaldi accompagnato da pochissimi seguaci: entrò in città portato in spalla dal suo fedelissimo Ignazio Bueno , la cui forza fisica rimediava ai sempre più frequenti attacchi di artrite del "Generale". Giunto in città Garibaldi riesce ad ottenere che la sua "Legione" ( che riunisce circa 400 uomini) venisse assunta tra i corpi stipendiati (mercenari) ma senza riuscire a farla trasferire nel Lazio: il governo Rivoluzionario non si fidava di quell'accozzaglia di inaffidabili personaggi e decide di confinarla a Fermo: i suoi seguaci erano un misto di rissosi idealisti volti ad un'"Italia unita". Pochi erano liguri , e non cera quasi nessun piemontese o duosiciliano. Una compagnia era composta da ragazzi tra i dodici e i quindici anni. La maggior parte era gente che , per ragioni politiche o altrimenti, doveva condurre un'esistenza vagabonda , con nulla da perdere e tutto da guadagnare nella violenza. Alcuni erano stati con lui in America e indossavano costumi da gaucho; prendevano al laccio gli animali erranti e se li arrostivano all'aperto. Quasi nessuno portava la camicia rossa, perchè disprezzavano qualsiasi tipo di uniforme, il segno delle truppe regolari. 



Giuseppe Garibaldi.


Che non si trattasse di una comitiva propriamente inappuntabile lo riconobbe lo stesso Garibaldi che scrisse: "(...) ben si conosce che tra i corpi volontari , ch'ebbi l'onore di comandare in Italia, l'elemento contadino è mancato sempre, per cura dei reverendi ministri della menzogna. I miei militi appartenevano quasi tutti a famiglie distinte delle diverse provincie italiane. E' vero che non mancarono tra i miei volontari alcuni malandrini in tutte le epoche , intrusi furtivamente , o tra noi mandati dalle polizie o dai preti per suscitarvi dei disordini e delitti , e così screditare il corpo". Insomma, per il "ladrone dei due mondi", era sempre colpa degli altri arrivando a muovere accuse assurde.

Indignato per le disposizioni riguardanti i suoi uomini, Garibaldi fece avere al governo repubblicano una lettera che magnificava, con un grandissimo eccesso di baldanza , fantasia , e indulgenza, le proprie doti militari e lo scarso rispetto per la statistica: "Io, in cento combattimenti non conto una sola sconfitta". Tornato fra i suoi e - dopo aver girovagato con essi tra l'Umbria e le Marche fra la disperazione degli abitanti che subivano furti e violenze - si trasferì prima a Macerata e poi a Rieti. Alle elezioni della rivoluzionaria "Assemblea Costituente" del 21 gennaio 1849 Garibaldi venne eletto (non troppo brillantemente e non per merito suo) a Macerata, grazie al voto dei suoi legionari e nonostante che una norma vietasse  esplicitamente l'eleggibilità di chi non fosse cittadino degli Stati Pontifici.
Garibaldi lasciò la sua "Legione" a Rieti al comando del fedele Nino Bixio e il 5 febbraio partecipò a Roma alla riunione innaugurale dell'Assemblea dove, grazie alla propaganda , viene accolto con entusiasmo dalla cricca al potere.


Come mai rivoluzionari di tutta Italia, ed anche moltissimi stranieri, chiamarono romana la repubblica che proclamarono? Il perché lo spiegò Giuseppe Mazzini, anima di quel tentativo totalitario, condotto, manco a dirlo, nel nome dell'astrazione dettata dalla follia , della "libertà e della costituzione". A chi dice «Roma è dei Romani», scrive Mazzini, bisogna rispondere: «No; Roma non è dei Romani: Roma è dell’Italia». E la popolazione romana sbigottita dalla violenza rivoluzionaria? «I Romani che non lo intendono non sono degni del nome». I romani non degni del nome erano, come ovvio, in primo luogo i Cattolici: praticamente tutta la popolazione. La gnosi, nelle sue varie incarnazioni settarie, era , ed è, convinta di saperla molto più lunga della Rivelazione e del Magistero che la interpreta. Mazzini, e con lui tutte le società segrete, si ripropongono di farla finita con la Chiesa cattolica: è un ostacolo al progresso incarnato dalle loro scientifiche convinzioni politiche. Il mito della Terza Roma, che prepotentemente si afferma durante l’Ottocento, persegue proprio questo obiettivo: mettere la parola fine alla Roma cristiana che ha oscurato (così quelle menti folli ritenevano e ancora ritengono) la bellezza e la forza di quella pagana, riportando l’orologio della storia indietro di millecinquecento anni e tornando ai fasti del paganesimo. Terza Roma, per l’appunto. Questa è l’IDEA – come si diceva allora scrivendola in maiuscolo ed idolatrando il pensiero di chi tanto ideale aveva concepito – che trionfa a Roma nel 1849. Ebbri di gioia per la fine del potere temporale, i rivoluzionari governavano da ubriachi, commettendo crimini ad oltranza , ovvero da veri e propri delinquenti.

Papa Pio IX.

Non solo il Papa Pio IX , costretto a rifugiarsi a Gaeta dove era ospite di Ferdinando II di Borbone,  denunciò tali nefandezza, ma anche le stesse fonti liberali dell’epoca che descrissero  le gesta del potere rivoluzionario. Varrà la pena di citare qualche testimonianza, a cominciare, come ovvio, dal Papa. Il 20 aprile 1849 da Gaeta, nell’allocuzione Quibus, quantisque malorum, Pio IX descrisse in una lunga lettera cosa succedeva a Roma "in nome della libertà e della costituzione".
I liberali affermavano di agire per il bene della Chiesa che volevano  purificata dall’incombenza del potere temporale? I liberali desideravano che la Chiesa diventasse più aderente ai voleri di Cristo e, quindi, più povera, pura e libera? Analizziamo i fatti, suggeriva il Papa, e vediamo se erano davvero queste le intenzioni dei rivoluzionari. I fatti sono i seguenti: "è impedita qualsiasi comunicazione del Papa con i vescovi, il clero, i fedeli; Roma si riempie di uomini (apostati, eretici, comunisti e socialisti, come si definiscono) provenienti da tutto il mondo, pieni di odio nei confronti della Chiesa; i liberali si impossessano di tutti i beni, redditi e possedimenti ecclesiastici; le chiese sono spogliate dei loro ornamenti; gli edifici religiosi dedicati ad altri usi; le monache maltrattate; i religiosi assaliti, imprigionati ed uccisi; i pastori separati dal proprio gregge ed incarcerati".
La conclusione che Pio IX trae dall’analisi delle imprese del potere rivoluzionario è inequivocabile. La "mitica" Repubblica Romana aveva un unico, vero, obiettivo: il fine delle società segrete (che non esitarono ad utilizzare a questo scopo lo stesso nome di Cristo) era , ed è, la totale distruzione della Chiesa cattolica. Proprio come convintamente sostenuto dai gran maestri e dalla rivista della la massoneria.
Gli agitatori di popolo calati a Roma nel 1849 agirono da delinquenti non solo nei confronti della Chiesa e delle sue proprietà ma dell'intera società e del popolo. Pio IX documentò come i liberali misero  in pericolo l’ordine e la prosperità dell’intera società civile: "l’erario pubblico è dissipato e ridotto a nulla; il commercio interrotto e quasi inesistente; i privati derubati dei loro beni da coloro che si definiscono guide della popolazione; la libertà e la stessa vita di tutti i sudditi fedeli messa in pericolo".
Pio IX prima di lasciare Roma nel manifesto da lui voluto rivolgendosi ai suoi sudditi disse: «Comandiamo ai nostri buoni e fedeli sudditi dl non resistere, per non moltiplicare quegli odi civili, a estinguere i quali daremmo volentieri la vita in olocausto. Quando a Dio piaccia, ben potrà Egli sen’alcuna forza umana riedificare mediante l’amore dei popoli questo temporale dominio della Santa Sede, che dall’amore dei popoli ebbe origine».
File:Litografia ballagny, fine XIX sec. luigi carlo farini.JPG
Luigi Carlo Farini.


Nemmeno le fonti liberali si discostano dalle affermazioni del Papa. Luigi Carlo Farini, futuro presidente del Consiglio del "Regno d’Italia", ne "Lo stato romano dall’anno 1814 al 1850", scrisse: «Fra gli inni di libertà, e gli augurii di fratellanza erano violati i domicilii, violate le proprietà; qual cittadino nella persona, qual era nella roba offeso, e le requisizioni dei metalli preziosi divenivano esca a ladronecci, e pretesto a rapinerie». Quanto al "ladrone dei due mondi",  Garibaldi, nelle sue Memorie, così raccontò cosa capitava – e cosa facevano – i "bravi garibaldini": «mossomi da Tivoli verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche e suscitarne il patriottismo, non solo non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte [...] disertavano coloro che mi avean seguito da Roma». Cosa facevano i disertori? «I gruppi dì disertori si scioglievan sfrenati per le campagne e commettevano violenze d’ogni specie».
Roma era immersa nell'oscurità e devastata da orde di criminali che si definirono "liberatori".





Le potenze Cattoliche e la liberazione di Roma.


Le potenze Cattoliche si organizzano.




Leopoldo II di Toscana
(1840).
 
 A Gaeta giunse anche Leopoldo II di Toscana , costretto anch'egli all'esilio, che richiese (e accettò) l'offerta di protezione che gli venne dal giovane Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe I . Era stato di poco preceduto dal Segretario di Stato di Pio IX, cardinale Antonelli, il quale, il 18 febbraio, inviò ad Austria, Francia, Regno delle Due Sicilie e Spagna una nota diplomatica: «avendo il Santo Padre esauriti tutti i mezzi che erano in suo potere, spinto dal dovere che ha al cospetto di tutto il mondo cattolico di conservare integro il patrimonio della Chiesa e la sovranità che vi è annessa, così indispensabile a mantenere, come Capo Supremo della Chiesa stessa … si rivolge di nuovo a quelle stesse potenze, e specialmente a quelle cattoliche … nella certezza che vorranno con ogni sollecitudine concorrere … rendendosi così benemerite dell'ordine pubblico e della Religione».
Lo stesso giorno, Radetzky fece partire da Verona un piccolo corpo di spedizione di 6 000 uomini, che entrò nello  Stato Pontificio. Ma essi si limitarono a prendere posizione a  Ferrara, in attesa degli ordini . La liberazione di Roma dalla "Repubblica Romana" e della Toscana dalla "Repubblica Toscana", infatti, richiedeva una accurata e ben strutturata spedizione militare che, pendente il provvisiorio armistizio di Salasco, né l'Impero d'Austria né il Regno di Sardegna potevano permettersi di impiegare. Mentre il Regno delle Due Sicilie era impegnato nella liberazione della Sicilia dal governo rivoluzionario e del sovversivo Parlamento napoletano.



Il Feldmaresciallo Radetzky.

Occorreva, quindi, che una guerra controrivoluzionaria decidesse, definitivamente, la sorte della Lombardia. Il momento venne il 12 marzo, quando l'inviato di Carlo Alberto comunicò al Radetzky il recesso dell'Armistizio di Salasco. La guerra si concluse rapidamente, il 22-23 marzo con la sconfitta sardo-piemontese di Novara e l'armistizio del 24.
A quel punto il nuovo sovrano , assai peggiore del precedente, Vittorio Emanuele II, dovette concentrarsi sulla caotica situazione politica interna (30 marzo scioglimento delle camere e nuove elezioni, governo d'Azeglio 1º-5 aprile repressione dei moti di Genova, arresisi il 10, 18 giugno sgombero Imperiale da Alessandria, 6 agosto Pace di Milano, sollevazioni popolari contro il governo liberale, cannoneggiamento di Genova e massacri di civili).
Nelle giornate successive a Novara, Radetzky chiuse anche la partita con gli sparuti sovversivi lombardi, arrestando sul nascere, con l'appoggio della popolazione tornata nella retta via, alcuni tentativi di ribellione (Como) e arrestandone  altri (Brescia). Mentre continuava unicamente l'assedio per liberare  Venezia dal governo rivoluzionario.

Le operazioni dell'esercito Imperial-Regio.


Costantino d'Aspre.

A riportare l'ordine legittimo  il feldmaresciallo inviò il suo uomo migliore: il luogotenente-feldmaresciallo Costantino d'Aspre (reduce dalle brillanti vittorie di Volta Mantovana, Mortara e Novara), che, all'inizio di aprile, procedette alla liberazione di Parma, con il titolo di "Governatore supremo degli Stati di Parma". Dopodiché il d'Aspre si presentò sotto l'Appennino con 18 000 uomini, cento cannoni, genio ed un po' tutto il necessario ad una vera e propria campagna militare. Il 5 maggio liberava Lucca, il 6 Pisa. Livorno in mano ai rivoluzionari chiuse le porte attaccando dalle mura le truppe Imperiali che vennero costrette a bombardare e venne le mura della città il 10 maggio, assalendo i rivoluzionari, e prendendola  l'11 (fonti di propaganda risorgimentalista anti-austriaca sparsero la voce che furono eseguite  317 fucilazioni ed 800 morti; cosa mai dimostrata e smentita).
La la Repubblica rivoluzionaria del Guerrazzi era stata rovesciata già il 12 aprile dai moderati del municipio di Firenze, i quali aveva subito richiamato il Granduca e trasferito i propri poteri ad un suo plenipotenziario, Serristori, tornato a Firenze il 4 maggio. Per assicurare l'ordine, il 25 maggio d'Aspre entrò in Firenze,  sottopose alla giurisdizione dei tribunali militari imperiali anche il giudizio dei reati comuni. Leopoldo II rientrò a Firenze solo il 28, accolto da una gran folla festante , e sancì la presenza militare Imperial-Regia con apposita convenzione militare, firmata nel 1850.
La primaria liberazione della Toscana era necessaria all'esercito Imperiale per ristabilire l'ordine legittimo  sull'Italia centrale, in vista del prossimo sbarco di un corpo di spedizione francese, inviato da Luigi Napoleone , non ancora "Imperatore",  a liberare Roma dalla sovversiva  "Repubblica Romana" guidata dal Mazzini.



Generale Wimpffen.


Parallelamente all'azione del d'Aspre, infatti, il Generale Wimpffen si presentò dinnanzi a Bologna. Questi   rispetto a Welden  non agivano più per solo ordine imperiale  ma in alleanza con il legittimo governo pontificio in esilio ed in nome del Papa Re , e il corpo di spedizione era formato da ben 16 000 uomini, dal momento che Radetzky non aveva più necessità di tenere guarnito il confine del Ticino. L'assalto per liberare la città, difesa da meno di 4 000 rivoluzionari , cominciò l'8 maggio. Wimpffen venne rinforzato da Karl von Gorzkowski, giunto il 14 maggio da Mantova con truppa e cannoni d'assedio. Il 15 le difese della città vennero bombardate e  il 16 maggio la stessa città venne liberata dal giogo rivoluzionario.

Wimpffen proseguì allora per la munita piazzaforte di Ancona, raggiunta il 25 maggio. La città era una piazzaforte ben munita, guidata da un esagitato sgherro rivoluzionario di nome Livio Zambeccari, e difesa da appena quattromila soldati stranieri e alcuni provenienti da alcuni Stati d'Italia. L'attacco da terra e da mare cominciò il 27. Il 6 giugno Wimpffen ricevette il parco d'assedio di Gorzkowski, cinquemila Toscani inviati da Leopoldo II e condotti dal Liechtenstein. Dopo due settimane di bombardamenti e vari episodi di eroismo specie da parte delle forze di liberazione  , il 17 giugno Zambeccari accettò la proposta di resa avanzata dal Wimpffen, firmata il 19. Il 21 consegnò la Cittadella ed i forti; i difensori della città furono salutati dai vincitori con l'onore delle armi. Seguì una presenza militare per ristabilire saldamente l'ordine durante la quale fu fucilato un pericoloso e fanatico sovversivo, tale Antonio Elia, mente e braccio della resistenza rivoluzionaria agli Imperial-Regi.


La reazione del Triunvirato, lo sbarco a Civitavecchia dei francesi e lo sbarco dei Bersaglieri ad Anzio.



Luigi Napoleone
(1848).


Nel frattempo, anche nella  Roma devastata dalla Rivoluzione, alla notizia della disfatta di Novara venne nominato un triumvirato plenipotenziario, composto da Aurelio Saffi, deputato di Forlì, Carlo Armellini, deputato di Roma, e da Giuseppe Mazzini, deputato eletto, dalla stessa cricca al potere, nei collegi di Ferrara e Roma: era evidente lo sforzo della cricca di tenere unite le due principali province dello Stato della Chiesa.
Nel frattempo, i circa 7 000 uomini del corpo di spedizione francese, guidati dal generale Oudinot, Duca di Reggio, che stazionavano su dieci navi da guerra salpate da Tolone il 22 aprile al comando del contrammiraglio Tréhouart, sbarcarono a Civitavecchia il giorno 24.
 Le disposizioni del ministro degli Esteri francese Édouard Drouyn de Lhuys a Oudinot di marciare, il 28 aprile, con circa 6 000 uomini e senza cannoni su Roma furono un pò avventate. Il generale proclamò ai propri soldati: "non troveremo nemici … ci considereranno come liberatori". In effetti il popolo di Roma , nel senso stretto del termine, considerava i soldati francesi che combattevano in favore del governo legittimo come veri liberatori che li avrebbero sottratti dal giogo del  governo Rivoluzionario; la stessa considerazione, come ovvio che sia, non era condivisa dalla cricca al potere e dai mercenari al suo servizio.
Il 27 aprile giunsero in porto a Civitavecchia due battelli, il "Colombo" ed il "Giulio II", salpati da Chiavari. Essi trasportavano 600 bersaglieri della disciolta 'Divisione Lombarda' dell'esercito sardo-piemontese: tale divisione era stata costituita nel corso della campagna del 1848 con reclute e volontari di bassa lega provenienti dalle province occupate del Lombardo-Veneto. Rimasta inquadrata nell'armata di Carlo Alberto dopo l'Armistizio di Salasco, la divisione non partecipò alla battaglia di Novara a causa di una decisione del suo comandante, il generale Ramorino; dopodiché venne assegnata al Fanti e trasferita in Liguria, ove diede ad intendere di voler supportare i rivoltosi nel corso della repressione sabauda di Genova dove i loro colleghi si distinsero per stupri e massacri. Le conseguenze furono pari alle attese: Ramorino venne fucilato, Fanti allontanato dall'esercito (per alcuni anni), la divisione sciolta. Questo rese liberi quelli che volevano combattere (peraltro impossibilitati a rientrare nel Lombardo-Veneto) di andare ove ancora regnava il caos della Rivoluzione.
I 600 bersaglieri rappresentavano una forza significativa, in quanto la loro composizione sostanzialmente rispecchiava quelle già sperimentata nella 'Divisione Lombarda', probabilmente grazie alla particolare personalità del loro comandante, il convinto e fanatico nazionalista Luciano Manara.

Giunti a Civitavecchia, essi furono sorpresi dalla presenza delle truppe francesi di Oudinot, che cercò di impedirne lo sbarco. Dopodiché, insicuro della città appena liberata e certo di chiudere la partita entro pochi giorni, preferì temporeggiare, permettendo di farli proseguire per Porto d'Anzio, dove sbarcarono il 27 aprile, in cambio dell'impegno di Manara a non combattere prima del 4 maggio.
Giunsero, così, a Roma, il 28, con marcia forzata, ove avrebbero offerto un contributo assai significativo alla difesa della sovversiva Repubblica.

Il fallito tentativo francese del 30 aprile.

La Roma in mano alla Rivoluzione  era difesa da circa 10 000 soldati al soldo della Repubblica (l'altra metà dei 20 000 che componevano l'esercito era dislocata in altre zone della Repubblica stessa). Le truppe erano suddivise in quattro brigate: la prima, comandata da Garibaldi, presidiava il Gianicolo tra Porta Portese e Porta San Pancrazio, la seconda, agli ordini del colonnello Luigi Masi stazionava sulle mura tra porta Angelica e porta Cavalleggeri, la terza, con i dragoni del colonnello Savini controllava le mura della riva sinistra del Tevere mentre la quarta, al comando del colonnello Galletti, rappresentava un reparto di riserva dislocato tra la Chiese Nuove e largo Argentina. L'attacco francese giunse il 30 aprile e il corpo di spedizione si presentò di fronte a Porta Cavalleggeri e Porta Angelica con 5 000 soldati. Lo sprovveduto e sparuto contingente di Oudinot venne preso a cannonate e a fucilate e fu ignominiosamente respinto dai militi della Guardia Civica mobilizzata, denominata anche Guardia Nazionale per l'aggiunta dei Corpi Civici provenienti da altre città degli Stati Romani, comandata da Ignazio Palazzi che aveva ricevuto il compito di difendere le Mura Vaticane. Nei combattimenti, durati sino a sera, venne fuori il Garibaldi, il quale, uscito quando i francesi stavano già per desistere, da Porta San Pancrazio (sul Gianicolo) con il Battaglione Universitario Romano e con la sua "Legione" , con un attacco alla baionetta sorprese alle spalle i francesi in ritirata  a Villa Doria-Pamphili, provocandone facilmente la rotta. In serata Oudinot ordinò la ritirata su Civitavecchia, lasciando dietro di sé oltre 500 morti e 365 prigionieri. Al termine della giornata, la rivoluzionaria Repubblica aveva ottenuto un trionfo fittizio.

La tregua con i francesi


Garibaldi con Bixio e l'attendente Andrea Aguyar,
durante la difesa della Repubblica Romana.

 Mazzini, dato il totale isolamento della Repubblica Romana che non era stata riconosciuta da alcuna potenza internazionale, ordinò a Garibaldi di non rischiare inseguendo inseguire i francesi in ritirata inducendolo a liberare i prigionieri in suo possesso in vista di un possibile accomodamento politico-diplomatico con la Repubblica francese. Tali scelte furono in seguito molto criticate, alla luce del successivo indurirsi della posizione francese. E certamente pesò un generale pregiudizio favorevole alla patria  della "grande rivoluzione". Tuttavia esso contribuì fortemente ad "abbellire" l'immagine della Repubblica alle fazioni liberali d'Europa.
Verificate le intenzioni del Mazzini, Oudinot contraccambiò, mandando libero un battaglione di bersaglieri che aveva catturato a Civitavecchia, e pseudo pretucolo Ugo Bassi mentre impartiva l'estrema unzione (?) ad un ferito francese.
Informato degli avvenimenti, il settario Luigi Napoleone, presidente della Repubblica francese, non mostrò alcuna esitazione: già il 7 maggio accolse per iscritto tutte le richieste di rinforzo avanzate dall'Oudinot, e il 9, a Tolone, si imbarcava in tutta fretta, un nuovo ambasciatore plenipotenziario, il barone di Lesseps, con l'incarico di pattuire una tregua d'armi. Si tratta di due reazioni prese rapidissimamente, se si considerano i tempi necessari per le comunicazioni da Roma a Parigi. Tanta fretta era giustificata dall'approssimarsi delle elezioni legislative francesi, fissate per il 13 maggio: la restaurazione del Papa Re costituiva uno dei principali temi del dibattito e la maggioranza del corpo votante era senz'altro a favore dell'integrale restaurazione del potere legittimo di Pio IX. Né v'era in Italia alcuna potenza capace di opporvisi. Mentre l'Inghilterra anglicana e antipapista giocava, come di consueto nell'Ottocento italiano (nonostante quanto da molti sostenuto) un ruolo assai preminente: la questione italiana  rappresentava già nel 48  una priorità per Londra e la presenza di navi inglesi a Venezia ne era la prova tangibile.
Se v'era ancora qualche dubbio, esso fu spazzato via dall'esito delle elezioni, che diedero ai candidati monarchici e moderati una maggioranza di 450 seggi su 750, confinando  i democratici (come il Ledru-Rollin) ad un ruolo di puri spettatori.



Luigi Napoleone e l'intervento dell'esercito duosiciliano e spagnolo.

Oltre che dalle necessità elettorali, Luigi Napoleone (ed il presidente del consiglio Barrot) era spinto alla massima celerità anche dalla concorrenza delle altre potenze desiderose di liberare Roma e restituirla al Sommo Pontefice: in particolare, come abbiamo visto, il Wimpffen aveva liberato Bologna fra l'8 ed il 16 maggio. E si accingeva a marciare su Ancona e liberarla.

S.M. Ferdinando II di Borbone delle Due Sicilie.

 Ferdinando II, Re delle Due Sicilie, nei mesi precedenti  era stato alle prese con l'insurrezione siciliana (che proprio in quei giorni andava spegnendosi, con l'avanzata del generale Filangieri sino a Bagheria, il 5 maggio, e la capitolazione e liberazione di Palermo, il 14 maggio) e con la repressione delle sovversive libertà costituzionali a Napoli (le camere vennero sciolte una prima volta il 14 giugno 1848 e poi ancora il 12 marzo 1849, dopodiché venne restaurato diligentemente  il potere assoluto del sovrano). La ristabilizzazione dell'ordine  stava perfezionandosi e il Re godeva  sull'indubbio prestigio che gli derivava dall'ospitare (sin dal 25 novembre 1848) Pio IX nella munitissima fortezza di Gaeta. Ferdinando II , decise di difendere materialmente i diritti legittimi del Pontefice  ed inviò a liberare Roma  il generale Winspeare, alla testa di un corpo di spedizione forte di 8 500 uomini, con cinquantadue cannoni e cavalleria.
Si fece loro incontro Garibaldi, con 2 300 uomini, che condusse il 9 maggio fuori Palestrina dove presero posizione trincerandosi. Qui si scontrò con l'avanguardia napoletane del generale Ferdinando Lanza che avanzava sulla cittadina. Garibaldi che tra le sue forze contava anche il battaglione bersaglieri lombardi, al comando di Luciano Manara, l'unico battagliano disciplinato, contrattaccarono e spinsero Lanza a ripiegare. Fu una  vittoria irrisoria dal momento che il grosso dell'esercito duosiciliano  non era stato minimamente impegnato in battaglia.
Alcuni giorni più tardi, il 16 maggio, il nuovo comandante dell'esercito rivoluzionario romano, il generale Roselli (che era affiancato dal disertore napoletano  Pisacane, quale suo capo di Stato Maggiore) mosse i suoi 10 000 uomini verso i quartieri del Lanza su Velletri ed Albano. Qui il Lanza, pessimo personaggio che mostrerà la sua vera indole marcia e corrotta durante i fatti del 1860, era stato nel frattempo raggiunto da Ferdinando II in persona e, messo di fronte ad una nuova battaglia, preferì ordinare ai suoi 16 000 soldati di ripiegare verso Terracina. Garibaldi pensò di impedirlo e, il 19, con appena 2 000 uomini tentò un'imboscata. La sproporzione di forza  era eccessiva e venne facilmente respinto dai Regi, che completarono ordinatamente il proprio ripiegamento.
Nei giorni successivi si presentò la quarta potenza Cattolica: un corpo di spedizione spagnolo di discrete dimensioni (9 000 uomini) giunse  a Gaeta verso la fine di maggio e venne passato in rivista e benedetto da Pio IX, il 29 maggio, ed uscì da Gaeta per Terracina.
Si comprende bene, quindi, perché il diabolico Mazzini tenesse particolarmente ad esplorare ogni possibile compromesso con la Francia, principalmente per guadagnare tempo.

Ennesimo tentativo di accomodamento con la Francia.



Ferdinand Lesseps.

L'occasione al Mazzini gli venne il 15, quando giunse a Roma il plenipotenziario di Lesseps, col quale venne subito pattuita una tregua d'armi di 20 giorni. Dopodiché Mazzini e Lesseps presero a negoziare per un accordo duraturo. Si accordarono e, il 31 sottoscrissero un testo di trattato che val la pena di riportare integralmente:
« Art. 1. L'appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni degli Stati romani. Esse considerano l'armata francese come un'armata amica che viene a concorrere alla difesa del loro territorio.
Art. 2. D'accordo col governo romano e senza per nulla ingerire nell'amministrazione del paese, l'armata francese prenderà gli accantonamenti esterni, convenevoli per la difesa del paese che per la salubrità delle truppe. Le comunicazioni saranno libere.
Art. 3. La Repubblica francese garantisce contro ogni invasione straniera il territorio occupato dalle sue truppe.
Art. 4. Resta inteso che la presente convenzione dovrà essere sottomessa alla ratifica del governo della Repubblica francese.
Art. 5. In nessun caso gli effetti della presente convenzione potranno cessare che 15 giorni dopo la comunicazione ufficiale della non ratifica. »

Come si vede, entrambe le parti avevano furbescamente , ma anche con un certo controsenso,  negoziato: Mazzini aveva ottenuto ciò che più gli importava: l'impegno alla non-ingerenza negli affari interni della sovversiva Repubblica Romana. Oltre, naturalmente, ad un impegno alla difesa del Lazio di fronte alle truppe Imperial-Regie e napoletane e spagnole, molto più sincere e coerenti nelle azioni e nello spirito rispetto a quelle francesi. Ma si trattava di una concessione scontata, dal momento che il primario interesse francese nell'operazione era proprio "mantenere la sua [della Francia] "legittima" influenza", cosa che Mazzini ben volentieri (dato che gli faceva comodo) accettava. L'ultima clausola, infine, assicurava un ulteriore prolungamento della tregua di almeno 15 giorni: assai preziosi, nelle circostanze date. Ugualmente soddisfatto dovette dirsi il Lesseps, il quale otteneva la sanzione alla permanenza del corpo di spedizione che, anzi, diveniva una “armata amica”.

Roselli in una cartolina
 risorgimentalista di inizio 900.

Nell'attesa della ratifica, ed a scanso di incomprensioni, tuttavia, il 27 Roselli prese la saggia decisione di richiamare a Roma le colonne dei "volontari". Questi, dopo la battaglia del 19, avevano proseguito verso sud: Garibaldi era entrato in Rocca d'Arce, Manara il 24 in Frosinone ed il 25 in Ripi saccheggiando e commettendo ogni sorta di crimine. In effetti, ritiratisi i Napoletani, la resistenza era costituita unicamente da bande contadine  di  volontari , affrettatamente organizzate dal generale Zucchi (l'ultimo ministro della guerra di Pio IX). Conseguentemente, il comandante generale Roselli era rientrato in Roma, per effettuare i possibili preparativi sul fronte principale.
Garibaldi e Manara rientrarono in Roma, il 1º giugno.

La Francia torna all'attacco.

Mazzini e Lesseps, infatti, avevano fatto i conti senza l'oste: sulla scorta del risultato elettorale, infatti, Luigi Napoleone era ormai ben deciso ad ottenere il massimo risultato ed a consolidare il proprio potere lavando l'onta della pessima figura del 30 aprile. Egli, quindi, il 29 maggio inviò due lettere: una all'Oudinot, comandandogli di procedere con l'assedio della città e una al Lesseps, con il quale gli ingiungeva di considerare esaurita la sua missione e di rientrare in Francia (dove diede le dimissioni dal servizio diplomatico). Cosicché, non appena informato degli accordi del 31 maggio, il generale poté mutare l'operato del plenipotenziario e darne conseguente comunicazione ai propri ufficiali.
Ciò consentì all'Oudinot di mettere insieme 30 000 uomini ed un possente parco d'assedio. Dopodiché, denunciò la tregua ed annunziò la ripresa dei combattimenti, a decorrere dal 4 giugno.


Generale d'Angely.

Un buon indizio della determinazione con cui Luigi Napoleone impose i suoi obiettivi, viene dal destino del corpo di spedizione spagnolo di Fernández da Córdoba che, nel frattempo, si era presentato dinnanzi a Terracina. Ove non incontrò l'esercito di Roselli, poiché esso era stato, nel frattempo, per precauzione ritirato su Roma . Da qui, tuttavia, gli spagnoli non proseguirono su Roma, ma fecero una deviazione, portandosi in Umbria (rimasta sguarnita, ma non presieduta dagli Imperial-Regi ). Evidentemente, Parigi non gradiva la loro presenza nella prossima battaglia, che doveva essere esclusivamente francese.
Il 1º giugno Oudinot comunicò a Roselli la ripresa delle ostilità, fissata (come si usava allora) al 4 giugno.
Ai soldati del 30 aprile, si erano aggiunti altri 24 000 soldati, per un totale di 30 000 uomini e circa 75 cannoni:  si consideri che l'intera prima fase della Prima guerra di espansionismo sabaudo era stata condotta da Carlo Alberto di Savoia con, appunto, 30 000 soldati (un'enormità per le dimensioni del suo Stato). Essi vennero organizzati in tre divisioni, al comando dei generali d'Angely, Louis de Rostolan e Philippe-Antoine Gueswiller.
Ma alla straordinaria preponderanza numerica, Oudinot aggiunse una piccola scorrettezza : pur essendosi impegnato per la data del 4 in una lettera da lui firmata e pervenuta a Roselli, fece muovere le truppe con un giorno di anticipo, la mattina del 3: evidentemente, Luigi Napoleone premeva affinchè la questione si risolvesse in breve tempo.


Assedio e liberazione di Roma.

Il 31 maggio, il generale francese Oudinot ritenne nullo  il trattato di alleanza negoziato da Lesseps (che lo negozio senza il consenso di Parigi) ed annunciò la ripresa delle ostilità: egli ora disponeva di 30 000 soldati ed un possente parco d'assedio.

Assalto francese ai bastioni repubblicani.

La Roma della Rivoluzione  venne assaltata all'alba del 3 giugno. Il primo obiettivo era la conquista del Gianicolo, monte sopra Trastevere dal quale si dominava la città. Esso venne parzialmente conquistato solo dopo una sanguinosa battaglia, nella quale  i "volontari" del Garibaldi si comportarono assai male. Quel giorno durante il tentativo di contrattacco a Villa Corsini, alle pendici del Gianicolo, venne ferito il "cantastorie della massoneria" Goffredo Mameli che morirà un mese dopo a causa delle conseguenze della ferita.
Seguirono molti giorni di bombardamento, durati sino al 20. Quella notte i francesi presero un tratto dei bastioni di Trastevere. Il governo della Repubblica Romana guidato dal Mazzini rifiutò, ancora una volta, di arrendersi nonostante la situazione e le ingenti perdite, e Oudinot riprese con più veemenza il bombardamento: al contrario del precedente, però, esso venne rivolto  direttamente alle difese principali della città volti ad indurre alla resa. Nel frattempo, le truppe francesi erano riuscite ad oltrepassare il Tevere presso Ponte Milvio, nonostante la tenue resistenza del Battaglione Universitario Romano. Diversi furono gli studenti romani di estrazione nobile ed alto-borghese  caduti nelle giornate di giugno, compresi i Fratelli Archibugi.

Gernerale Medici.

Dopo altri sei giorni di cannonate, il 26, venne comandato un nuovo assalto al caposaldo dei difensori sul Gianicolo, la Villa del Vascello, fortunosamente respinto da Medici ed i suoi volontari.
Il 30 Oudinot comandò un assalto generale e si impossessò di tutti i capisaldi fuori le mura aureliane. Sul Gianicolo si combatté l'ultima battaglia della storia della sovversiva Repubblica Romana. Il generale Garibaldi difese, al sicuro in posizione a lui favorevole,   il Vascello ed i suoi "volontari" attaccarono i francesi alla baionetta in modo disordinato, ci saranno 3 000 uomini fra morti e feriti dalla parte garibaldina. Caddero circa 2 000 francesi, ma la battaglia per i rivoluzionari era comunque perduta.
A mezzogiorno del 1º luglio fu stipulata una breve tregua per raccogliere i morti e i feriti. All'"Assemblea Costituente" Mazzini dichiarò tra le sue farneticazioni che l'alternativa era tra capitolazione totale e battaglia in città (cosa che avrebbe voluto se non fosse rimasto praticamente da solo) . Dopo la battaglia del 30 giugno era giunto in fretta e furia Garibaldi, che confermò che oramai era impossibile continuare a resistere. Durante un discorso pomposo  e tragicomico all'"Assemblea Costituente", Garibaldi aveva proposto la ritirata da Roma e aveva detto "Dovunque saremo, colà sarà Roma."

Vi furono anche dei ridicoli battibecchi tra il Garibaldi che dava la colpa al Mazzini perchè non lo aveva nominato dittatore.  La questione  segnò la formale rottura fra Garibaldi ed il suo antico "maestro".  Garibaldi se ne ricordò  bene ed alla prima occasione utile, nel 1860 a Palermo, non mancò di proclamarsi “dittatore”.


Garibaldi fugge da Roma.




Garibaldi con Anita fugge da Roma con i suoi seguaci.

  La mattina del 2 luglio Garibaldi tenne, in piazza San Pietro, il famosissimo e pomposissimo discorso: "io esco da Roma: chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me … non prometto paghe, non ozi molli. Acqua e pane quando se ne avrà". Diede appuntamento per le 18.00 in piazza San Giovanni, trovò circa 4 000 armati desiderosi di abbandonare il più presto possibile la città ,con ottocento cavalli e un cannone e, alle 20.00, si mise in marcia. Cominciò così una lunga marcia che vide la quasi totalità dei suoi uomini disertare: essi si macchiarono di violenze inaudite nei confronti delle popolazioni che incontravano; furti , saccheggi , stupri e omicidi vennero perpetrati. Lungo il percorso Garibaldi si rende nuovamente conto che la popolazione non era dalla sua parte e vide venire meno il fantasioso progetto  di sollevare le province e decise di tentare di raggiungere Venezia ancora in mano alla Rivoluzione.
Il  Generale d'Aspre, che si trovava comandante delle truppe di liberazione in Toscana e dell'esercito toscano, in via di riorganizzazione dedicò alla caccia dei pochi rimasti al seguito del Garibaldi  un'armata di circa 25 000 fanti, 30 cannoni e 500 cavalli finché non costrinse il nizzardo a trovare rifugio, il 31 luglio nella neutrale e massonica  Repubblica di San Marino. Da qui Garibaldi tentò l'ultima marcia, scendendo a Cesenatico, ove arraffò una flottiglia di battelli da pesca e si imbarcò per Venezia. Intercettati dalla flotta Imperiale i fuggitivi si dispersero: molti fuggitivi, fra i quali Basilio Bellotti, Ciceruacchio con il figlio Lorenzo, appena tredicenne e già dedito al pugnale, Ugo Bassi e Giovanni Livraghi, vennero catturati e fucilati dagli Imperiali come sovversivi, cosa che erano a tutti gli effetti. Durante la fuga, favorita dall'aiuto di famiglie liberali Garibaldi si sbarazzò della moglie Anita divenuta un peso per la fuga dal momento che ella era malata ed incintà: la strangolò e seppellì i resti frettolosamente.  assistito da pochissimi seguaci da Comacchio, attraverso Forlì, Prato e la Maremma giunse nei pressi di Follonica. Da qui si imbarcò per la Liguria, parte del Regno di Sardegna, ove poté far salva la pelle.

La resa del Governo Repubblicano.

Aurelio Saffi
(membro del Triumvirato a capo
 della Repubblica Romana)


Stabilito quanto concerne alla resa , restava da trovare un modo di cessare le ostilità che salvasse la faccia della cricca  Repubblicana. Tra le condizioni chieste dall'Oudinot, infatti, non v'era la rinuncia della "Assemblea Costituente" alla avvenuta proclamazione della repubblica. Pio IX, d'altra parte, non l'aveva mai riconosciuta e, dunque, non era necessario ottenerne alcuna concessione, diversa dalla semplice resa militare.
Si poteva, quindi, procedere alla resa senza che gli sgherri della Rivoluzione rinunciassero alla loro astratta Repubblica.
La "Repubblica Romana" dunque, essendo stata un artificiosa creazione dei rivoluzionari , e non avendo il Pontefice riconosciuto tale scempio istituzionale,  non poteva  vantare alcun tipo di legittimazione (tanto meno l'astratta "legittimazione popolare" che , oltretutto, non ci fu mai , e anzi, fu il popolo a essere ostile ad essa fin dal principio).



I francesi entrano nella  Roma liberata dalla Rivoluzione.


Ingresso delle truppe francesi a Roma.

I francesi entrarono a Roma  il giorno successivo: verso mezzogiorno presero posizione a Trastevere, Castel Sant'Angelo, il Pincio e Porta del Popolo, acclamati dalla popolazione; Oudinot venne solo in serata, con 12 000 soldati e pubblicò un comunicato in cui divideva la popolazione fra "veri amici della libertà" (il 95% della popolazione) e "pochi faziosi e traviati", definiti "una fazione straniera" (cosa che in effetti erano), "responsabile di un'empia guerra". E proclamava la legge marziale, eleggendo Governatore di Roma Rostolan, generale di divisione, coadiuvato da Sauvan, generale di brigata.
Il legittimo governo del Sommo Pontefice venne ristabilito per il bene del popolo e per la sua prosperità dopo lunghi mesi di miseria e privazioni.
Mazzini fuggi come un coniglio con nome e documenti falsi imbarcandosi su una nave dei suoi amici inglesi e abbandonando la penisola.

Conclusione

Stando così le cose – e le cose stanno così – viene spontaneo domandarsi come mai, caduti tanti miti, infrante tante ideologie, nessuno, ma proprio nessuno, fatta eccezione per pochi revisionisti e onesti intellettuali, abbia neppur lontanamente cominciato a mettere in discussione la leggenda creata intorno alla Repubblica Romana. Da destra come da sinistra tutti danno per scontato che l’esperimento ideato da Mazzini abbia costituito un effettivo passo in avanti verso le altisonanti e vuote parole che loro vanno spargendo come veleno, perchè prive della Verità,  tra cui libertà,  costituzione,  progresso, e giustizia. Basti ricordare che all’epoca della giunta guidata da Storace, solo pochi anni fa, la Regione Lazio spese parecchio denaro per diffondere capillarmente in tutte le scuole un opuscolo a fumetti dal titolo "Mazzini e il Risorgimento". In una delle vignette comparivano tre personaggi, all’apparenza contadini (erano accompagnati da vanghe e cazzuole), contadini che però indossavano una bella coccarda tricolore. Il primo gridava: «Hanno confiscato le terre del clero»; il secondo ribatteva: «e ora le distribuiscono ai contadini». Il terzo tirava le conclusioni: «Viva la repubblica». Soltanto trista e mera propaganda.
La verità è che, a destra come a sinistra, entrambi  frutti avvelenati della Rivoluzione,più o meno mascherata, più o meno avvertita, è sempre viva un’incrollabile ostilità, che in alcuni casi è più esatto definire odio, verso la Chiesa Cattolica. Teniamo comunque presente che l'attuale "Repubblica Italiana" non è altro che la trasfigurazione , non più di tanto moderata , della mazziniana "Repubblica Romana".


Fine....

Fonte:

Wikipedia (immagini).

L'IPERITALIANO (di Gilberto Oneto).

IL TIMONE n.88 – Dicembre 2009

Scritto da:

Redazione A.L.T.A.