venerdì 30 agosto 2013

Allocuzione di Benedetto XV al Patriziato e alla nobiltà Romana, del 5 di gennaio 1920 (Estratto dall'opera di Plinio Corrêa de Oliveira "Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana").



Papa Benedetto XV
Papa Benedetto XV.
Nella recente anniversaria commemorazione del Natale di Gesù Cristo risuonò ancora una volta alla nostra Fede il celestiale canto degli Angeli, inneggianti a Dio ed alla Pace. Da quell'avventuroso giorno non hanno poi cessato di risuonare presso di Noi, come in armonioso concerto, le voci di augurio e di affetto, che i lontani Nostri figli, e molto più i vicini, hanno amato far giungere all'umile persona di Colui, nel quale come scorgono perpetuata la missione di Cristo, così desiderano continuare le promesse ed i benefici di Lui.
Ma a quella guisa che, dopo il godimento di un concerto, si apprezza o si gusta anche più la voce di chi ripete e sviluppa da solo le note del coro, così dopo i voti che Ci allietarono nel recente periodo Natalizio, torna a Noi vieppiù gradita la ben nota voce del Patriziato e della Nobiltà Romana, modulata da Lei, signor Principe, con accenti di fede e di calore, tradizionale nelle nobili Case di Roma.
Tristi e gravi ha Ella ravvisato gli anni che si son chiusi, e quelli che vanno ad aprirsi; ma poichè, appunto all'aspetto di tanta tristezza, Ella ha invocata le consolazioni e gli aiuti del Cielo sopra il travagliato corso del Nostro Pontificato, Noi diciamo grazie a Lei, signor Principe, e grazie altresì diciamo a tutti i Patrizi e Nobili della Nostra Roma che, o qui son venuti ad accompagnare i di Lei voti, o a questi voti si associano da lontano, perché impediti di accorrere a questo Trono, cui serbaron fede i loro maggiori e cui fedeli rimangono i loro casati.
Grazie anche Le diciamo per le parole che Le piacque indirizzarCi come Sommo Sacerdote, nel volgere uno sguardo retrospettivo all'opera ardua, contrastata, misconosciuta della Cattolica Chiesa durante il più tremendo degli umani cataclismi. Nel che Ci gode l'animo di rilevare che, mentre il suo atto di ossequio era diretto al Capo del Sacerdozio Cattolico, il suo elogio, assurto ad importanza di manifestazione collettiva di questo nobile ceto, sia stato bellamente ed opportunamente rivolto ai più diretti e fedeli interpreti dei Nostri sentimenti in mezzo alle moltitudini, vogliam dire ai membri del Clero.
Il Clero, o dilettissimi figli, non è una organizzazione di guerra, ma di pace; e non ad opera di guerra, ma solo di pacifiche imprese può attendere. Nondimeno il suo apostolato anche nel mezzo all'urto terribile della guerra, gli dischiude molteplici vie al buon operare ed al buon meritare.
Voi perciò lo vedeste nei campi di battaglia a confortare i tiepidi, consolare i moribondi, accompagnare i feriti. Lo vedeste ricevere negli ospedali gli ultimi aliti, lavare le macchie delle anime, sorreggere nelle trafitte
del dolore, confortare nelle lunghe e pericolose degenze, ravvivare il senso del dovere, preservare dai folli sfruttamenti della sventura. Lo vedeste nelle casupole dei poveri, nei negletti villaggi, in mezzo ai popoli scorati, tra moltitudini di profughi, sostenere, spesso solo e sempre inosservato, l'animo dei più colpiti dal dolore, le sorti delle vedove, l'avvenire dei popoli, la resistenza delle masse. Lo vedeste pure nelle persecuzioni, nelle calunnie, nell'esilio, nelle prigioni, nella povertà, nelle morti, oscuro eroe del grande dramma, paziente banditore del dovere presso ognuna delle parti contendenti, esempio di sacrifici, vittima di odii, segnacolo di invidie, immagine di buon pastore.
Lo vedeste, o diletti figli!... Ma, mentre col degno rappresentante del Patriziato Romano Voi riconoscevate che "il sacerdote, a costo di qualunque sacrificio, dava tutto sè stesso per il bene del suo prossimo", anche Noi, simile al Sacerdozio della Chiesa ravvisammo un altro Sacerdozio: quello della Nobiltà. Accanto al "regale Sacerdotium" di Cristo, voi pure, o nobili, adergeste "gens electum" della società; e l'opera vostra fu quella che sopra ogni altra rassomigliò ed emulò l'opera del Clero. Mentre il sacerdote assisteva, sosteneva, confortava colla parola, coll'esempio, col coraggio, colle promesse di Cristo, la Nobiltà compiva, anche'essa, il suo dovere nei campi di battaglia, nelle ambulanze, nelle città, nelle campagne; e pugnando, assistendo, prodigando e morendo, teneva fede, tra i vecchi e tra i giovani, tra gli uomini e tra le donne, alle tradizioni delle avite glorie, ed agli obblighi che nobiltà vuole imporre.
Se, pertanto a Noi riesce gradito l'elogio fatto ai sacerdoti della nostra Chiesa per l'opera compiuta durante il periodo della guerra, è cosa giusta che da Noi si renda la dovuta lode anche al sacerdozio della nobiltà. L'uno e l'altro sacerdozio apparì ministro del Papa, perché in ora tristissima ne ha interpretato bene i sentimenti; epperò, mentre Ci associamo agli elogi che il Patriziato Romano ha voluto oggi rendere ai sacerdoti della Chiesa, Noi, a nome di questi, tributiamo pari lode all'opera di zelo e di carità compiuta, nello stesso periodo della guerra, dai più illustri membri del Patriziato e della Nobiltà romana.
Vogliamo anzi aprirvi anche meglio l'animo nostro, o dilettissimi figli. La mondiale conflagrazione sembra dare finalmente le ultime vampe, perciò il Clero sta ora ritornando alle opere di pace, più conformi alla indole della sua missione nel mondo. Non avrà termine, invece, nemmeno dopo la firma di qualunque protocollo di pace, l'opera di illuminato zelo e di carità efficace, che i nobili hanno saviamente intrapreso durante il periodo della guerra. E non dovremo Noi dire che il sacerdozio della nobiltà, come quello che proseguirà la sua benemerenza anche in tempo di pace, sarà perciò da Noi riguardato con particolare benevolenza! Ah! dall'ardore dello zelo dispiegato in giorni nefasti piace a Noi argomentare la costanza dei propositi colla quale i Patrizi ed i Nobili di Roma continueranno a compiere, in ore più liete, le sante imprese onde si alimenta il sacerdozio della nobiltà!
L'apostolo San Paolo ammoniva i nobili dei suoi tempi, affinché fossero, o diventassero, quali la loro condizione li richiedeva; imperocché, non pago di aver detto anche per essi che avrebbero dovuto mostrarsi modelli di ben fare, nella dottrina, nella purità dei costumi, nella gravità: "in omnibus te ipsum praebe exemplum bonorum operum in doctrina, in integritate, in gravitate" (Tim. 2,17). San Paolo considerava più direttamente i nobili quando scriveva al suo discepolo Timoteo di ammonire i ricchi, "divitibus huius saeculi praecipe", che facciano il bene e diventino ricchi di buone opere "bene agere, divites fieri in bonis operibus" (I Tim. 6,17).
A ragione si può dire che questi ammonimenti dell'Apostolo convengono in mirabile guisa anche ai nobili dell'età nostra. Anche voi, o dilettissimi figli, quanto più elevata è la vostra condizione sociale tanto maggiore è l'obbligo di andare innanzi agli altri colla luce del buon esempio: "in omnibus te ipsum praebe exemplum bonorum operum".
In ogni tempo strinse i nobili il dovere di agevolare l'insegnamento della verità "in doctrina"; ma oggi, quando la confusione delle idee, compagna alla rivoluzione dei popoli, ha fatto smarrire, in tanti luoghi e in tante persone, le vere nozioni del diritto, della giustizia e della carità, della religione e della patria, oggi è cresciuto anche più l'obbligo dei nobili, di adoperarsi a far tornare nel patrimonio intellettuale dei popoli quelle sante nozioni, che li devono dirigere nella quotidiana attività. In ogni tempo strinse i nobili il dovere di non ammettere nulla di indecente nelle parole e negli atti, affinché la loro licenza non fosse eccitamento al vizio nei subalterni, "in integritate, in gravitate": ma anche questo dovere oh! quanto è diventato più forte e più grave per il malvezzo dell'età nostra! Non solo i cavalieri, ma anche le dame sono obbligate a stringersi in
santa lega contro le esagerazioni e le sconcezze della moda, allontanando da sè, e non tollerando negli altri, ciò che non è consentito dalle leggi della cristiana modestia.
E per venire all'applicazione di ciò che abbiamo detto aver S. Paolo raccomandato più direttamente ai nobili del suo tempo, "divitibus huius saeculi, praecipe... bene agere, divites fieri in bonis operibus", a Noi basta che i Patrizi ed i Nobili di Roma continuino, in tempo di pace, ad informarsi a quello spirito di carità di cui hanno fatto bella prova in tempo di guerra. I bisogni dell'ora in cui si svolgerà la loro azione, e le condizioni particolari dei luoghi potranno determinare varie e differenti forme di carità; ma se voi, o dilettissimi figli, non dimenticherete che la carità è dovuta anche al nemico di ieri che oggi langue in miseria, mostrerete di aver fatto vostro il "bene agere" di San Paolo, vi arricchirete delle dovizie augurate dallo stesso apostolo "divites fieri in boni operibus", continuerete a far apprezzare la sublimità di quello che abbiamo chiamato "sacerdozio della nobiltà".
Oh! Come è dolce, come è soave a Noi il vagheggiare i mirabili effetti di questa continuità. La vostra nobiltà, allora, non sarà ritenuta come sopravvivenza inutile di tempi tramontati, ma come lievito serbato per la risurrezione della corrotta società: sarà faro di luce, sale di preservazione, guida degli erranti; sarà non solo immortale in questa terra, dove tutto, anche la gloria delle più illustri dinastie appassisce e tramonta, ma sarà immortale nel cielo, dove tutto vive e si deifica coll'Autore di ogni cosa bella e nobile.
L'Apostolo S. Paolo chiude gli ammonimenti dati ai nobili del suo tempo, dicendo che i tesori acquistati mercè le opere buone avrebbero dischiuse ad essi le porte di quella Celeste Maggiore dove si gode la vera vita "ut aprehendant veram vitam". E Noi, alla Nostra volta, per ricambiare gli auguri che il Patriziato e la Nobiltà di Roma Ci hanno porto al principio del nuovo anno, preghiamo il Signore di far discendere le sue benedizioni non solo sui membri dell'illustre ceto qui presenti, ma anche sui membri lontani e sulle famiglie dei singoli, affinchè ciascuno cooperi col sacerdozio proprio della sua classe alla elevazione, alla purificazione del mondo e, facendo del bene agli altri, assicuri anche per sè l'accesso al regno dell'eterna vita: "ut aprehendant veram vitam!" (L'Osservatore Romano, 5-6 gennaio 1920).