domenica 16 giugno 2013

Marcel De Corte: L'idealismo filosofico e le sue conseguenze (II parte).

 

 

Marcel De Corte

Da: L’intelligence en péril de mort, cap. I: Gli intellettuali e l'utopia.

[L'idealismo filosofico e le sue conseguenze (II parte)]

Siamo entrati nell'era del pragmatismo anglosassone e della prassi rivoluzionaria, russa o cinese, inaugurata dal cartesianismo («per saggezza s'intende... una perfetta conoscenza  di tutte le cose che l'uomo può avere... per la conservazione della salute e l'invenzione di tutte le arti»), instaurata dalla borghesia trionfante e coronata dal comunismo; l'intelligenza ne è minacciata fino alle sue opere vive, ed i costumi fino alla loro radice.
Di fatto, se l'intelligenza non è più misurata da ciò che è e che non dipende da essa, da principî immutabili, da nature che non mutano, non vi è più verità; ostracizzare la saggezza speculativa equivale a bandire rigorosamente ogni certezza oggettiva. Ma se non vi è più verità, non vi è più moralità, perchè l'azione morale presuppone che si conosca la natura dell'uomo che occorre dirigere e la natura del fine al quale è necessario che egli si diriga. Nihil volitum nisi praecognitum. Senza saggezza speculativa previa, almeno implicita, è impossibile distinguere tra il vero bene, il bene apparente ed il male; ogni comportamento è relativizzato: ciò che ieri era buono diventa cattivo oggi e viceversa. L'uomo, immerso in un mondo in cui nulla più è, ove tutto diviene, non ha più alcun punto di riferimento con cui orientarsi; tutte le direzioni si equivalgono. Senza stelle e senza bussola, egli è ridotto a navigare a caso; non obbedendo più ad alcuna realtà, neppure alla sua propria, non ricevendo più dagli oggetti alcuna indicazione, non gli rimane altro che la propria soggettività, che egli proietta fuori di sè e di cui esteriorizza le rappresentazioni nella materia che va trasformando; il mondo è il risultato dell'oggettivazione della soggettività dell'uomo, è opera di una intelligenza che nulla più vincola, la cui indipendenza è totale, che non si sottomette ad alcuna legge, ad alcun principio, che fa solo a modo proprio, che non ha altra linea di condotta che l'arbitrio puro e semplice del soggetto. «Sera-t-il dieu, table ou cuvette?» [«Sarà dio, tavola o catino?» Da: Jean de La Fontaine Le statuaire et la statue de Jupiter, VI favola del libro IX, [1] N.d.T.] Qui non è l'intelligenza ad essere decisiva, essa fornisce solo la gamma delle rappresentazioni da imprimersi nella materia; ma ad emanare una decisione arbitraria è la sola volontà, attirata e guidata unicamente dal proprio slancio, dalla propria spinta, dalla propria potenza cieca ed irresistibile, salvo se essa incontra un ostacolo più forte di sè. Sit pro ratione voluntas. In ogni forma di attività poetica o di tecnica che proscrive e soppianta la contemplazione e l'azione morale, l'intelligenza, considerata come facoltà del reale, si trova eliminata a profitto della volontà irrazionale di potenza. L'intelligenza cede alla forza, alla mera forza, che può bensì mimetizzarsi tra i fumi più diversi, più seducenti e più eccessivi al punto di non sembrare più quello che è, ma che, rigettando l'homo sapiens a livello dell'homo faber, nondimeno rimane forza bruta, potere di conquista e di dominio che, in un mondo retto da rapporti di forza, si fa servo del potere nel senso più elementare del termine.
E come del resto potrebbe essa sfuggire al fascino del potere, visto che si percepisce e si definisce come potenza di rottura di qualsiasi legame che l'incatenasse? Rifugiarsi, come Sartre, nel sotterfugio del tradimento che nausea l'osservatore e storna la sua attenzione è un qualcosa che non resiste un solo istante alla vigilanza di chiunque abbia buon naso: «Sono diventato un traditore e sono rimasto tale, pretende Sartre mascherandosi, ho un bel mettermi interamente in ciò che intraprendo, dedicarmi senza riserve al lavoro, all'ira, all'amicizia, fra un istante mi rinnegherò, lo so, lo voglio e mi tradisco già nel pieno della passione, col lieto presentimento del mio futuro tradimento.» Egli in tal modo può ingannare solo i sempliciotti: le sue debolezze successive pongono la candidatura alla giurisdizione dell'universo del suo sè libero da tutto. L'intellettuale che si pretende essere insubordinato è ormai il Sorvegliante il cui bastone si fa scettro di giustizia; l'«Imputato, alzatevi» al comico tribunale di Stoccolma è la trasposizione appena imbellettata dell'«Allievo Tizio, vi ho pescato, mi copierete dieci pagine della Critica della ragion dialettica!» Una tale volontà di potenza è evidentemente impotente e non può sussistere che a rimorchio dei poteri politici reali che muovono il pianeta; il Sorvegliante ha bisogno di ricevere da altri l'autorità di cui si vanta, e perciò chiunque faccia investimenti psicologici nell'intellettuale moderno è certo di manovrarlo come vuole. Non è Sartre a condurre il gioco, egli è mosso da altri, ed ecco perchè tutti gli intellettuali avidi di potere l'hanno preso come modello e maestro: egli è condannato a «far finta» d'essere dio, in altre parole ad essere un idolo, un'apparenza, un'illusione, costrettovi, lui ed i suoi imitatori, dal proprio idealismo da adolescente che non ha mai potuto divenire adulto.
In un mondo siffatto l'intelligenza è spogliata del suo oggetto proprio, cioè dell'essere e di tutte quelle realtà che ci sono superiori e da cui dipendiamo; ma siccome essa necessita tuttavia di un oggetto, lo rimpiazza con l'immaginario al quale la volontà di potenza si sforza di conferire uno statuto di realtà ed una forma razionale; in mancanza di tordi, si prendono merli, è una legge universale che vale non solamente nell'ambito del pensiero.
È chiaro: poichè l'attività intellettuale non può essere esercitata senza oggetto, richiede un surrogato; per uscire dalla propria solitudine e sorpassare il cerchio della propria soggettività è fondamentale che essa converta le proprie rappresentazioni interne in presenze esterne a sè. A tal fine deve ricorrere all'immaginazione, fabbricatrice di un'opera che assumerà il ruolo di oggetto «reale». Per fare qualunque cosa è allora necessario fare appello all'immaginazione; si deve elaborare all'interno di sé un'immagine, un modello, un piano, uno schema qualunque della cosa da fare. Da principio l'opera esiste in maniera immaginaria nello spirito, poi passerà a quell'esistenza che la tecnica le conferirà nella realtà. E così il rifiuto di sottomettersi alla realtà costringe l'intelligenza ad abbandonare i suoi diritti, la sua priorità, le sue pretese nel momento stesso in cui le proclama e vuole verificarle, il tutto a favore della facoltà immaginativa: l'intelligenza diviene la serva dell'immaginazione, si sottomette al suo giogo proprio quando si dice padrona dell'universo; la realtà, smantellata dall'analisi intellettuale, è ricomposta e riarticolata secondo altre configurazioni in una rappresentazione immaginaria, di cui la volontà di potenza s'impadronisce per costruire un mondo che dominerà. Di più ancora: tutta l'attività intellettuale propriamente detta (intuizione, giudizio, ragionamento, domanda, ricerca, calcolo, misura, valutazione, euristica, invenzione ecc.) è posta a servizio della produzione di modelli proposti dall'immaginazione alla volontà di potenza la quale tenterà di tradurli in realtà.
Noi viviamo così, o piuttosto facciamo finta di vivere ed esistere in un mondo di apparenze che si fa e si disfa perpetuamente, perchè il proprio di ciò che si fa è di disfarsi, il proprio dell'artifizio è di consumarsi e far posto ad altri artifizi che avranno la stessa sorte; solo ciò che non cambia non si muta in qualcos'altro. Così il conato di sostituire al mondo delle nature e delle essenze un mondo creato dall'uomo è votato ad un perpetuo ricominciare; l'immaginario appena realizzato va in frantumi al rude contatto con le realtà permanenti che l'uomo invano millanta di modificare. L'immaginazione si rimette subito all'opera e l'esclamazione del Favolista
Il me faut du nouveau, n'en fût-il point au monde, [2]
diviene il motto e la parola d'ordine dell'uomo contemporaneo; il culto della novità, del cambiamento, del progresso, della rivoluzione, che imperversa da due secoli a questa parte non ha altra origine che questo asservimento della nostra attività intellettuale operata dall'immaginazione e dalla volontà di potenza. Privata del suo oggetto proprio, l'intelligenza non è mai sazia dei vuoti alimenti che le si offrono: ne reclama altri e si esaurisce in questa immersione in un mondo immaginario, come un naufrago torturato dalla sete sul «mare che non finisce mai» [«mer toujours recommencée»N.d.T.]  L'immaginazione è estenuata a sua volta in un tale perpetuo rinnovamento della sua supplenza. Al termine dell'avventura, come canta con amarezza Baudelaire,                       
l'imagination qui dresse son orgie
ne trouve qu’un récif aux clartés du matin. [3]
Accade però che quest'alba non spunta per noi; «la diffusione dei lumi» termina in un crepuscolo della civiltà umana in cui la volontà di potenza si dispiega giungendo a tutti gli azimut ma l'intelligenza declina. Per poco che ci si rammenti «che uno sciocco dotto è più sciocco di uno sciocco ignorante», mai l'uomo è stato più potente e più insensato; la cecità progressiva che colpisce l'intelligenza ne è testimone. Ed in effetti è manifesto che non siamo più posti un un mondo reale, ma in un mondo d'apparenze in cui l'unica verità che l'uomo apprende è quella che lui stesso ha fatto e proiettato fuori di sè come un ectoplasma dalla bocca di un medium in trance. Il lavoro umano non si somma più alla natura per portarla alla perfezione, ma la rimaneggia e la ricrea da cima a fondo. La grande consonanza ed amicizia dell'uomo con la natura di cui parla Montaigne è sul punto di scomparire; più esattamente non vi è più natura, le creazioni della tecnica l'hanno rimpiazzata; ma tali creazioni sono le immagini della nostra soggettività che noi secerniamo, per così dire, da noi stessi, che eiettiamo fuori di noi riconoscendoci perpetuamente in esse, pur non uscendo mai dalla nostra soggettività, così che l'uomo si trova in questo mondo come di fronte ad uno specchio ove ritrova la propria immagine, solo la propria immagine.
Marx ha perfettamente ragione di dire che, per mezzo del lavoro, della tecnica, dell'attività poetica, l'uomo si rimira in un mondo da lui creato e che non è più un mondo di esseri e di cose indipendenti dal suo pensiero e dalla sua coscienza. Il mondo moderno, dominato dal primato dell'attività fabbricatrice dello spirito umano, è un mondo fittizio nel pieno significato del termine; Mundus est fabula, diceva Cartesio. E l'uomo è talmente incapace di uscire dalla propria soggettività e di prendere le distanze da sè e dalle proprie produzioni da non accorgersene; questo mondo immaginario, che assume un'effimera consistenza grazie alla tecnica, è per lui più reale del mondo reale. Narciso vede solo Narciso, ma non vede che la sua immagine non ha altra realtà che quella che lui stesso le conferisce; il mondo è l'alter ego dell'uomo, è rappresentazione dell'uomo, gli somiglia, è sua effige, suo simulacro, suo riflesso, sua riproduzione, suo doppione, la sua copia, il suo fac-simile; il mondo è l'allucinazione che l'uomo ha di se stesso, è l'immenso specchio, sempre ingrandito, che gli rimanda la smisurata immagine che egli ha di sè, immagine eclatante, sul punto di esplodere.
Così occorre dire, senza preoccuparsi minimamente delle proteste che una tale affermazione può suscitare, che il mondo, malato di scienze moderne, ed in particolare della scienza psico-matematica la quale costituisce l'ideale di tutte le altre, è un mondo immaginario: i migliori fisici matematici non ne dubitano. Riflettendo sul loro sapere costoro s'accorgono che il loro pensiero non si dirige su un oggetto reale, ma che la conoscenza che ne hanno è una costruzione del loro spirito, la quale è talmente mescolata ai dati dell'esperienza da incorporarli per così dire alla propria organizzazione logica rendendo impossibile ormai la distinzione tra finzione e realtà. «L'esperienza oggettiva non esiste, scrive uno di essi. I dati sperimentali non sono dati, ma esperienze frutto della nostra attività, esse portano il nostro marchio. Sono astrazioni fabbricate da noi. Lo sperimentatore crea l'esperimento, come il chimico crea l'elemento puro» — «Le leggi naturali che formuliamo matematicamente nella teoria dei quanta, afferma Heisenberg, non riguardano più le particelle elementari propriamente dette, ma la conoscenza che ne abbiamo.» La teoria fisica contemporanea non riguarda il mondo dei fenomeni fisici in quanto tali, ma quali appaiono nelle costruzioni matematiche che ne fanno le veci. Per i fisici non vi è natura, ma un'immagine della natura; ogni conoscenza fisica è metaforica: essa porta su un oggetto che non possiede un'esistenza indipendente dal soggetto che l'osserva.
Lo si è notato parecchie volte: la concezione moderna della natura, le cui origini risalgono a Galileo, ricusa la testimonianza dei nostri sensi e la loro attitudine a percepire la realtà. L'universo fisico è quello che fa muovere gli strumenti costruiti dall'esperto, che può così misurarlo; ma i suoi aspetti propriamente qualitativi. opportunamente attestati dai nostri sensi. sfuggono alla scienza. Come afferma Eddington, «conosciamo i rilievi [ciò che viene rilevato, N.d.T.], non le qualità, ed i primi somigliano alle seconde come un numero di telefono ad un abbonato.» Se non vi è esperienza oggettiva e se i dati sperimentali non sono veramente dati, ma prodotti della nostra attività fabbricatrice di strumenti che li misurano e fanno inseparabilmente parte di tale attività, è assai evidente che le vittorie della fisica moderna sono riportate solo a condizione di una rinuncia a conoscere il reale. Matematizzando tali «dati», riducendoli a simboli matematici, è chiaro che lo studioso li piega alle condizioni del proprio intelletto dopo averli piegati alle condizioni della sperimentazione, sicché egli non scopre altro nella natura che gli schemi del proprio spirito.
È ciò che Max Planck formula nei seguenti termini: «Un esperimento non è nient'altro che una domanda fatta alla natura, la misurazione ed il rilievo della risposta. Ma prima di effettuare l'esperimento, lo si deve pensare, cioè formulare la domanda che si intende fare alla natura, e prima di trarre una conclusione dalla misurazione, la si deve interpretare, ovvero comprendere la risposta della natura. Questi due compiti appartengono al teorico... Di più ancora, le misure devono innanzitutto essere ordinate secondo una certa prospettiva, perché ogni modo di ordinarle rappresenta una maniera particolare d'interrogare la natura. Ma non si otterrà una risposta sensata che con l'ausilio di una teoria sensata. Non bisogna credere che in fisica si possa formulare un giudizio sul senso di una questione senza far ricorso ad alcuna teoria.»
Dunque la teoria fisica è previa all'esperienza ed alla sua matematizzazione, ed allora essa, poiché è anteriore ad ogni conoscenza sperimentale e matematica di questo mondo, non può essere che opera dell'immaginazione la quale si costruisce un modello razionale del mondo. Il fisico deve fabbricarsi nell'immaginazione un modello dell'universo, in modo surrettizio o cosciente, prima d'intraprendere il benché minimo procedimento scientifico; in altri termini la sua scienza è in stretta e costante dipendenza dall'immaginazione.
Si capisce allora perché la natura è conosciuta solo come una sconosciuta di cui ci si fa un'immagine, e perché l'universo della fisica è non solamente, secondo l'espressione di Schrödinger, «praticamente inaccessibile», ma anche «nemmeno pensabile». Mundus est fabula: il fisico moderno comincia a comprendere la portata di tale misteriosa formula di Cartesio. Si comprende anche perchè le «verità» della fisica contemporanea, ancorché siano matematicamente dimostrabili e tecnicamente verificabili, non possono più esprimersi normalmente col pensiero e tanto meno col linguaggio; se vi si prova, si giunge, secondo l'espressione sarcastica dello stesso Schrödinger, a degli enunciati «forse meno assurdi del cerchio triangolare, ma molto più del leone alato». Il fatto è che qui ci troviamo in un mondo che siamo incapaci di comprendere, cioè di tradurre in idee e termini linguistici coerenti, ma che siamo costretti ad immaginare, in ragione del suo stesso principio, e a fare, in ragione dell'esigenza di realtà che travaglia il nostro spirito. Siccome l'uomo non può più conoscere la natura, può almeno conoscere ciò che ne immagina e ne fa. Il progresso tecnico abbagliante al quale assistiamo da due secoli a questa parte è la compensazione di tale disillusione speculativa latente: abbiamo moltiplicato in modo inaudito i nostri mezzi atti a trasformare la natura, non potendo conoscerla realmente.
Ne consegue che la distinzione tra scienze speculative e scienze pratiche tende a sparire sempre più; la teoria rinvia all'applicazione e l'applicazione alla teoria. Tali due aspetti della ricerca, prima rigorosamente ancora distinti, tendono ora a confondersi in un circolo perfetto: la scienza pura è inseparabile dalla tecnica che ne perfeziona i mezzi d'investigazione, e la tecnica è inseparabile a sua volta dalla scienza pura che la definisce e la calcola con precisione sempre crescente. E manifesto che le scienze e le tecniche contemporanee hanno rinunciato alla contemplazione del mondo e tendono ormai alla sua trasformazione; l'azione efficace si sostituisce alla nozione di verità. Accade tutto come se la seconda tesi di Marx su Feuerbach si verificasse nella metamorfosi del mondo operata dalla scienza moderna: «La questione di sapere se il pensiero umano è oggettivamente vero è una questione pratica, non teorica. È nella prassi che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà, la potenza, la precisione del suo pensiero.»
Per le scienze e le tecniche contemporanee, sprovviste di qualsivoglia metafisica, eradicate dalla concezione speculativa dell'universo che le sottometteva alla realtà, la verità diviene cambiamento, innovazione, riforma, persino capovolgimento e, in ogni caso, storia e rivoluzione permanente. Sempre di nuovo, è impossibile che sia altrimenti. Sisifo, il più astuto e il meno scrupoloso dei mortali secondo la Favola, è definitivamente attaccato alla sua roccia. L'intelligenza umana, per raggiungere il reale da cui ha divorziato,  non ha altra possibilità che di farlo: solo ciò che ha fatto, che fabbrica, che fa con le sue mani, che prepara, che struttura, che costruisce può essere reale ai suoi occhi; poiché è la sola realtà che sia, e poiché rifiuta tutto ciò che la supera: universo o Principio trascendente, c'è bisogno di un mondo che comprenda solo ciò che produce essa stessa, in cui non si ritrovi che in presenza di sé, in cui l'uomo non incontra che se stesso. Che si tratti qui di un mondo immaginario nessuno che sia sensato ne può dubitare. L'intelligenza si sottomette allora docilmente al mito e, giacché la realizzazione del mito è continuamente ricondotta all'avvenire, in quanto che il proprio del mito è di non poter mai essere realtà presente, l'intelligenza è condannata a fare ed a produrre ininterrottamente; è la serva di quel mondo che pretende di dominare e trasformare.
Ecco fino a che punto siamo giunti: l'intelligenza fa naufragio sotto i nostri occhi proprio quando crede di entrare trionfalmente in porto. La nave che non obbedisce al timone, dice un proverbio portoghese — ed il timone è qui la saggezza contemplativa — obbedisce allo scoglio. L'intelligenza è ormai preda delle immagini e della materia che la costringono al nuovo fallimento, battezzato all'uopo evoluzione, dialettica, storia, ed è sacrificata al mito della materia, giacché l'uomo non può creare nulla se non a partire dalla materia. Per aver voluto fare l'angelo, fa la bestia. L'idealismo, malattia dell'intelligenza moderna, subisce il suo avatar terminale: il materialismo. L'idealismo diviene, o piuttosto è il materialismo, non vi è più alcuna differenza tra i due. Per aver ricusato il principio di identità: l'essere è ciò che è e non ciò che ci sembra, l'intelligenza è straziata dalla contraddizione di due posizioni tra le quali il suo agire oscilla e che sono entrambe indifendibili.
Indipendentemente dalle loro rivali di minor rango e minor capacità di camuffarsi, due filosofie (stavo per dire due teologie antropocentriche, se si potesse dire senza far urlare le parole) si sono esercitate, con crescente successo, a mascherare ed accelerare questa decadenza dello spirito: il marxismo ed il theilardismo. Entrambe sono nell'ordine spirituale ciò che sono nell'ordine fisiologico quei prodotti della farmacopea contemporanea i quali combinano in una sola azione l'effetto tranquillante e quello stimolante; sono in pratica l'esempio perfetto della mistificazione che mistifica lo stesso mistificatore assieme alle sue vittime. Tali filosofie comunicano all'impostore l'inamovibile buona coscienza che egli ha della propria causa, e quell'inflessibile convinzione che libera le sue prede proprio nel momento in cui le asservisce.
Come non accorgersi che tali filosofie del divenire sono nello stesso tempo filosofie del circolo quadrato e, come direbbe Maurras, della chimera cornuta e bicornuta? Se tutto è divenire, l'uomo è risucchiato in questo flusso universale. Quando l'uomo sarà? Domani! Queste filosofie sono filosofie della promessa e, poiché devono apparire certe dell'avvenire, filosofie dell'impostura e del tranello per gonzi. Tali filosofie devono fare l'«uomo nuovo», il «mondo nuovo»; ma ogni attività che è effettuata a livello del fare è costretta a calcolare le conseguenze portate da ogni tappa della fabbricazione, ed allora esse devono eliminare dalla storia l'imprevisto: non può succedere nulla d'inatteso. Non vi sarà dunque evento casuale nella vita dell'uomo, né in quella del mondo che costruisce; tutto è previsto in precedenza, e la ragione umana è capace di divinazione: sa fino da ora che il comunismo succederà al socialismo come questo è succeduto al capitalismo, che la «cristosfera» è al termine della «noosfera», come questa lo è stata per la «biosfera». La ragione dell'uomo domina il tempo. Simili filosofie sono perciò ultra-razionaliste; ma il loro razionalismo è irrealista, e come dubitarne, dato che è impossibile non tener conto dell'imprevisto nell'ambito degli affari umani in cui «l’improbabile accade regolarmente». È giocoforza allora che la ragione ricorra ancora una volta all'immaginazione e ed al mito. Queste filosofie sono costrette a delineare sullo schermo dell'avvenire l'immagine speciosa e seduttrice di ciò che sarà l'uomo se obbedirà al flusso del divenire che lo travolge, ed a proporgli al termine della sua corsa lo statuto abbagliante ed infallibile della divinità, se egli accentuerà lo slancio col suo sforzo industrioso. Chi non vede che una tale «realizzazione» dell'uomo è irrazionale?
Eritis sicut dei, sarete come dei, ecco il motto di queste filosofie sataniche; la volontà di potenza che anima i loro adepti si rende conto che la maggioranza degli uomini i quali hanno rinunciato al loro buon senso ed alla loro intelligenza per sguazzare nei paradisi artificiali dell'immaginazione soccomberanno a questo miraggio. Coscientemente o incoscientemente questi filosofi, che si contemplano «nel mondo che hanno creato» e che non è altro che la proiezione della loro soggettività, non possono sfuggire alla tentazione di esercitare sull'umanità un potere assoluto. L'universo nella sua intera storia è il loro stesso io che si mira nella sua creazione, e con ciò stesso si universalizza nello spazio e nel tempo. Come potrebbe il loro io non inebriarsi in una tale visione edificante? Costoro hanno già conquistato in anticipo il loro uditorio, costituito dalla nuova classe degli intellettuali avidi d'esercitare il loro principato terrestre, i quali, incapaci di elaborare un sistema che giustifichi e mascheri la loro volontà di potenza, si precipitano su colui che offre loro una vittoria già pronta, adatta alla loro pretesa di gnomi che si ritengono dei giganti.
Le differenze tra credenti ed increduli si fondono nel crogiolo del totalitarismo; col marxismo siamo in presenza del totalitarismo ateo, mentre col theilardismo siamo davanti alla forma più virulenta del totalitarismo clericale. Questi due totalitarismi vengono a patti fra di loro ed il secondo, il theilardismo, è fatalmente incline a raggiungere il primo nella negazione della trascendenza e nell'esaltazione dell'uomo maiuscolare che professa. Anche se il theilardismo (col cristianesimo al seguito) riuscisse a trionfare mascherandosi da nube divina ed instaurando il Regno di Dio sulla terra, sarebbe la vittoria dell'illusione e della volontà di potenza coniugate; la notte si stenderebbe definitivamente sull'umanità governata dal Grande Inquisitore, la cui suprema truffa sarebbe di farsi venerare come Salvatore degli uomini. Servirebbe un ulteriore libro per denunciare quest'odio larvato dell'intelligenza, questa diffusione massiva di polvere negli occhi, questo prurito di proselitismo, di propaganda e di dominio che caratterizzano il marxismo ed il theilardismo, particolarmente tra gli epigoni di tali sistemi, tra i tecnocrati del nuovo Islam e tra i loro emuli del neocristianesimo.
La proliferazione di settatori e militanti di queste dottrine, la voga straordinaria di queste mitologie, il credito che esse mantengono ed accrescono nell'opinione malgrado le più severe smentite che loro infliggono i fatti non hanno nulla di misterioso. È sufficiente riflettere un solo istante su quell'avvenimento capitale che comanda la storia umana da quasi due secoli e le cui conseguenze giungono oggi al loro punto d'arrivo: la dissoluzione delle comunità naturali. La natura dell'animale ragionevole può espandersi e pervenire alla maturità solo in uno o più ambienti naturali che gli corrispondono e ai quali l'intelligenza pratica dell'uomo aggiunge i prolungamenti istituzionali che ne sostengono ed attivano la vitalità. L'intelligenza umana ha bisogno, per essere intelligenza, di un ambiente appropriato ove il suo slancio verso gli esseri e le cose che aspira naturalmente a conoscere sia confortato e rinvigorito. Di fatto la conoscenza del mondo esteriore nell'uomo non è lasciata alle sole intuizioni dell'istinto come per l'animale; per scoprire tale mondo, bisogna che lo spirito sia educato ad orientarsi verso il reale, e tale educazione è ricevuta, in prima istanza ed essenzialmente, in quell'ambiente sociale originale da cui tutti gli altri derivano, e di cui siamo sul punto di perdere persino il ricordo del nome: la famiglia. Le discipline che la famiglia ci inculca non sono solamente morali, come abitualmente si crede, ma anche intellettuali. Non si ripeterà mai abbastanza che all'interno della famiglia è impossibile abbandonarsi al gioco dell'immaginazione affabulatrice, alle imposture dell'illusione, all'utopia; nella famiglia la menzogna, il sofisma, l'errore, la vanità, la fanfaronata, la furfanteria ecc. di qualcuno non possono sfuggire agli sguardi degli altri e si rivelano in modo pressoché immediato: nessuno può gettar polvere negli occhi degli altri o costruirsi un personaggio; in quell'ambito un comportamento nei confronti degli esseri e delle cose che fosse non conforme alla loro natura avrebbe rapidamente conseguenze disastrose. Ma non è lo stesso nelle società troppo vaste che hanno perduto ogni parentela con la famiglia: il controllo degli sviamenti dello spirito qui è difficile se non impossibile; le conseguenze dell'evasione nell'utopia vi si rivelano solo alla lunga e l'illusione vi si sviluppa senza che nulla ne denunci la nocività.
L'ambiente familiare è quello in cui si forma l'intelligenza in quanto facoltà del reale. È all'interno della famiglia che apprendiamo a conoscere il mondo quale è e che adottiamo le attitudini conformi alla nostra realtà propria, a quella degli altri e a quella degli esseri e delle cose che ci circondano. Gli ambienti connessi alla famiglia e che ci perfezionano si abbeverano per così dire a questa fonte naturale del realismo proprio dell'intelligenza:
O famille, abrégé du monde, [4]
cantava Lamartine. Dunque si capisce per qual motivo tutti gli sradicati siano degli utopisti: la loro intelligenza non è più da nessuna parte, non è esercitata più con l'ausilio degli ambienti naturali propri all'essere umano, ed allora evade fra le nubi dell'immaginario, si costruisce un universo chimerico di cui s'impadronisce la volontà di potenza per dominare il mondo e l'umanità. A questo proposito il prete, che è sradicato a causa della sua vocazione, e che però non si radica nuovamente in tutta umiltà nel soprannaturale, diviene l'agente di dissoluzione e di distruzione per eccellenza del mondo e dell'uomo, l'utopista, il rivoluzionario consumato, l'insuperabile agitatore di popolo matricolato.
La Rivoluzione francese, in una società come la nostra che ne porta il nome e la cui vera denominazione sarebbe dissocietà, non solo ha devastato le comunità naturali, ma ha anche costruito al posto loro delle collettività rigorosamente e strettamente immaginarie, la cui esistenza fittizia dà ogni licenza di abbandonarsi senza freno alle volontà di dominio.
La nostra intelligenza della realtà è a tal punto obnubilata dai giochi di prestigio dell'immaginazione, da convincerci che la più grande innovazione sociale e politica dei tempi moderni, la democrazia, per la quale milioni di esseri umani hanno versato il loro sangue, abbia un'esistenza reale, mentre non è altro che una chimera, la cui esistenza non sorpassa i limiti della nostra scatola cranica o quelli cartacei delle costituzioni e dei discorsi che ne diffondono il nome ai quattro angoli dell'universo. Il governo «del popolo» esiste solo se il popolo governa; ma è chiarissimo che una tale capacità si esercita solamente entri limiti ristrettissimi e su territori relativamente limitati, là ove i cittadini possano essere esperti dei problemi che si pongono e delle soluzioni opportune. La democrazia è un regime che conviene al Comune, se non alla Regione; al di là di un'area geografica ristretta, essa non è altro che un modo di dire e, secondo il detto sarcastico di Valéry, è il regime in cui il cittadino è necessitato a dare una risposta a questioni sulle quali non ha alcuna competenza, ed è impedito a rispondere a quelle di sua competenza. Il secondo principio vi si combina col primo. «In un grande Stato, scrive giustamente Bertrand de Jouvenel, la partecipazione al governo è un'ingannevole illusione, se si eccettua una piccola minoranza. Quando partecipiamo ad un'elezione, il nostro governare non è maggiore di quanto ci operiamo da noi stessi nel momento in cui scegliamo un chirurgo. E per di più quando scelgo un chirurgo, io sono il solo elettore ed il mio chirurgo è proprio colui che ho scelto tra molti altri; ma la cosa è diversa col mio «rappresentante»: il mio voto è una goccia d'acqua in un vaso, e la scelta è limitata tra i candidati possibili.» Non appena il «popolo» è graziosamente dotato di responsabilità che sorpassano il proprio potere di sperimentare e di comprendere, la politica cambia allora di senso. «Il popolo» non governa più di fatto, e nemmeno i suoi delegati: essi si danno e danno l'illusione di governare. Le strutture «democratiche» sussistono, ma non sono ormai altro che un involucro il quale copre un sistema differente la cui denominazione, che va sempre più accreditandosi, è quella di tecnocrazia; è necessaria, e ne percepiamo ogni giorno di più l'ubiquitaria presenza. Nonostante le cataratte di bava ed inchiostro democratici che sono quotidianamente sversati sulle nostre teste, chiunque abbia mantenuto un giudizio obiettivo non può non vedere che la società evolve verso una divisione in due gruppi: «coloro che sanno» e comandano, e «coloro che non sanno» ed obbediscono.
La stessa tecnocrazia si compone di due tipi di tecnici dalle funzioni complementari: i tecnici del condizionamento degli spiriti ed i tecnici del condizionamento delle cose; entrambi sono comparsi mano a mano che si esaurivano le riserve sociali accumulate dall'Ancien Régime nelle comunità naturali che la democrazia lascia incolte, e mano a mano che la «dissocietà» portata così alla luce del sole aveva bisogno d'essere mentalmente e materialmente «ristrutturata». Poiché il regime democratico fondato sulla «dissocietà» era incapace di creare una società nuova, è stato necessario ricorrere alle potenze dell'illusione e cercare con tecniche appropriate di far passare l'immaginario nel reale.
Il ruolo del tecnico del condizionamento degli spiriti è quello di sostituire il regno dell'opinione cosiddetta sovrana all'esercizio dell'intelligenza che non ha alcun ruolo, salvo accidentale, nei regimi democratici a vasto raggio d'azione di cui sono dotati gli Stati moderni, dato che all'intelligenza manca quell'esperienza che farebbe vacillare una tale opinione. E il proprio dell'opinione è di essere estremamente malleabile: i flebili rapporti che essa ha con la realtà ne fanno un'entità duttile, fluida, manipolabile all'estremo, alla quale la volontà di potenza più forte impone la sua forma; nel senso più rigoroso del termine ci si fa un'opinione e si fa l'opinione; l'opinione è il prodotto di un'attività poetica e fabbricatrice ove l'immaginazione del produttore esercita una funzione capitale. Coi mezzi materiali di cui i tecnici dispongono oggi: la stampa, la radio, la televisione ecc., non è eccessivo affermare che l'opinione è fabbricata alla catena di montaggio con un'arte consumata di manipolazione, intrallazzo e falsificazione nelle officine dell'informazione che abbondano sul nostro pianeta. Il nostro secolo è quello dell'informazione deformante; assai verosimilmente ad uno storico futuro sarà impossibile conoscere la verità storica riguardo agli avvenimenti che si svolgono sotto i nostri occhi da cinquant'anni a questa parte.
E da parte dei nostri contemporanei non è solo la conoscenza dei fatti ad essere profondamente alterata, ma anche la concezione dell'uomo e del mondo. La relazione del pensiero col reale è totalmente interrotta dai professionisti del pensiero, dotti, filosofi, teologi, e dai loro innumerevoli accoliti maggiori e minori che remano nella loro scia. L'impasto ed il rimaneggiamento dell'opinione che concerne gli avvenimenti s'accompagnano ad operazioni parallele in tutti gli ambiti dello spirito. Per fare l'opinione occorre che tutti i legami che uniscono l'intelligenza all'essere siano spezzati. L'uomo, ridotto alla propria soggettività, amputato delle proprie radici, privato di tutti i suoi ormeggi, non è altro che una marionetta a  totale discrezione dei suoi manipolatori; la sua mutazione in burattino è ancor più semplice dato che gli resta solo lo slancio informe della propria intelligenza e della propria volontà verso il loro oggetto proprio che è sparito: è ciò che i tecnici dell'opinione chiamano superbamente «le esigenze del pensiero moderno» o «le rivendicazioni della coscienza contemporanea» o « le aspirazioni dell’uomo», ecc. Chiunque si riduca alla propria soggettività diviene il più fragile degli uomini; i tecnici dell'opinione si impadroniscono di una tale entità amorfa imprimendovi dall'esterno, per mezzo di tutte le tecniche di persuasione palese od occulta, l'immagine più affascinante dell'uomo e del mondo futuri che possano elaborare, coronata dalla promessa «haec omnia tibi dabo» (S. Matth., IV, 9); il successo della loro impresa nell'ambito sociale è assicurata. A questo punto del procedimento l'uomo è un animale politico che, in quanto del tutto privato delle proprie comunità naturali, è incitato a costruire delle comunità artificiali assurde come castelli in Spagna.         
Il tecnico del condizionamento degli spiriti eccelle nel rimestare l'opinione in materia politica e sociale, come l'esperienza chiaramente comprova: tenere l'uomo contemporaneo sempre in sospeso presentandogli sullo schermo della sua immaginazione una società futura il cui avvento è differito continuamente ed in cui egli si ritroverà superuomo, semidio o dio è cosa semplicissima. Il mito di una società in cui l'uomo ha tutti i diritti e nessun dovere, ogni libertà e nessuna responsabilità, in cui l'Io coincide col genere umano, secondo la promessa di Marx, in cui l'uomo si scopre simultaneamente «personalista» e «comunitario», secondo il calco che ne fa Mounier, tale mito ha ogni probabilità di trionfare in un regime in cui non vi è più società, in cui lo Stato, in quanto non più limitato da comunità soggiacenti, detiene un potere senza limiti, per cui lo Stato stesso si vede incaricato, dall'opinione pubblica condizionata, dell'incredibile missione di creare un uomo nuovo ed un mondo nuovo. «Fammi dio in un mondo su cui regnerò come dio», ecco il voto, la supplica, la richiesta imperiosamente formulata allo Stato dal cittadino trasformato in macchina dai tecnici della propaganda; e non vi è malattia più eclatante, demenza più omicida che colpisca la ragione umana di questa, che al giorno d'oggi va circolando, le cui onde si spandono di cielo in cielo, e la vescica si enfia fino ad assumer le dimensioni dell'universo.
E proprio qui intervengono i tecnici del condizionamento delle cose o tecnocrati propriamente detti.
Di fatto, per portare a termine una tale impresa e far passare il sogno all'esistenza a cui tende, è necessaria evidentemente un'organizzazione, e dunque degli organizzatori. Perché l'immagine che l'uomo condizionato ha di se stesso e del mondo si possa tradurre nella realtà, bisogna predisporre l'avvenimento, prepararlo disponendo ogni cosa affinché si produca, elaborare un piano, calcolarne le fasi, concentrare gli sforzi, comandare le operazioni, dirigere i comportamenti, detenere un sapere e dei metodi infallibili, disporre di un potere assoluto. Poiché la rappresentazione che l'uomo ha di se stesso e del mondo non procede più dal reale né dall'esperienza, ma è una pura e semplice costruzione dello spirito, bisognerà allora incorporarla alla materia esterna, esattamente come la tecnica, la quale elabora dei modelli matematici rigorosi per poi applicarli ad una materia qualunque che così vanno ad informare. I tecnocrati propriamente detti sono coloro che possiedono questa scienza dell'efficienza; costoro sono elevati al potere supremo non solo dalla perpetua vacanza di potere propria del regime democratico ma anche dall'opinione foggiata dagli intellettuali: essi doppiano i demagoghi ed i politici che ancora sussistono in quei paesi in cui la facciata democratica non è troppo fatiscente, altrove essi occupano le vie di accesso al potere. Il loro segreto è semplice: trattare l'uomo ed il mondo come delle cose, come un materiale da sfruttare, come un insieme di ingranaggi azionati meccanicamente; considerare la società come la risultante di un organigramma e di una pianificazione; sopprimere qualsiasi tentativo di ritorno alle attività contemplative e morali dello spirito; instaurare il primato assoluto dell'attività produttiva; trasformare l'umanità in un'immensa officina di cui costituiranno il consiglio di amministrazione mondiale.
La tecnocrazia, sia quella dello spirito sia quella dello spirito convertito in cosa, comprende chiaramente la socializzazione integrale della vita umana; il pensiero diviene collettivo, giacché tutti i pensieri sono identici, essendo passati per lo stesso stampo e costituiti proprio in quella ineffabile «noosfera» immaginata da Theilard per il nostro condizionamento. Tutte le attività dello spirito collettivizzato divengono collettive allo stesso tempo: l'attività contemplativa o ciò che ne resta, ridotta alla visione narcisistica della ragione, comune a tutti gli uomini, in uno specchio che non è altro che questa stessa ragione; l'attività pratica, in cui il bene è rimpiazzato dall'utile e la felicità è rimpiazzata dal dipendere dalla Previdenza sociale totale, dalla culla alla tomba; soprattutto l'attività poetica e produttrice, la quale celebra il proprio trionfo. I lavoratori sono considerati un solo gigantesco lavoratore che, lavorando sempre più, finirà per liberarsi da ogni lavoro e per avere un'esistenza idillica in un paradiso terrestre ricostruito per l'eternità.
Vi è un solo piccolo difetto di questa socializzazione cosiddetta ineluttabile: e cioè che non esiste, perché non può esistere se non all'interno dell'immaginazione sotto forma di mitologia. Il pensiero collettivo che comanda la socializzazione integrale della vita umana non esiste, per la buona e semplice ragione che esistono solo pensieri individuali, irriducibilmente uniti ad un cervello individuale ed a un corpo individuale. Dietro un tale preteso pensiero collettivo, dietro questo sedicente lavoro collettivo, vi è semplicemente ancora una volta la volontà di potenza di alcuni, i quali si uniscono in ciò che si dice «una direzione collegiale» che prevedibilmente sarà in futuro consegnata nelle mani di un tiranno unico — ouk agathon polykoiranie, heis koiranos estô!  —; vi sono cioè dei capipopolo che pensano ed agiscono, vi è, secondo l'implacabile espressione di Goethe, «il cervello che basta per mille braccia». [Traduzione: C.S.A.B.]

NOTE DEL TRADUTTORE:

[1]  Vale la pena di riportare il testo per esteso:
Le Statuaire et la Statue de Jupiter.


Un bloc de marbre étoit si beau,
Qu’un Statuaire en fit l’emplette.

Qu’en fera, dit-il, mon ciseau?
Sera-t-il Dieu, table, ou cuvette?

Il sera Dieu: même je veux
Qu’il ait en sa main un tonnerre.
Tremblez humains, faites des voeux:
Voila le maître de la terre.

L’artisan exprima si bien
Le caractere de l’Idole,
Qu’on trouva qu’il ne manquoit rien
À Jupiter que la parole.

Même l’on dit que l’Ouvrier
Eut à peine achevé l’Image,
Qu’on le vit frémir le premier,
Et redouter son propre ouvrage.

À la foiblesse du Sculpteur
Le Poëte autrefois n’en dut guère,
Des Dieux dont il fut l’inventeur
Craignant la haine et la colere.

Il étoit enfant en ceci;
Les enfans n’ont l’ame occupée
Que du continuel souci
Qu’on ne fâche point leur poupée.

Le coeur suit aisément l’esprit:
De cette source est descendue
L’erreur payenne qui se vit
Chez tant de peuples répandue.

Ils embrassoient violemment
Les intérêts de leur chimere.
Pygmalion devint amant
De la Venus dont il fut père.

Chacun tourne en réalités
Autant qu’il peut, ses propres songe:
L’homme est de glace aux vérités,
Il est de feu pour les mensonges.
[2] La Fontaine, Clymène
[3] «L'immaginazione che rizza la sua orgia // Non trova altro che scoglio alle luci dell'alba».
[4] «O famiglia, compendio del mondo».
[5] Οὐκ ἀγαθὸν πολυκοιρανίη· εἷς κοίρανος ἔστω Buona cosa non è di molti il Regno; uno solo comandi» Iliade c. II, v. 204.