mercoledì 24 aprile 2013

La Chiesa stava con gli Indios in America Latina

Bartolome De Las Casasdi Paolo Simoncelli*
*da Il Tempo, 27/03/13

 

Vaticanisti, opinionisti, aruspici intenti a dedurre dai segni materiali o dai primi gesti di papa Francesco la sua “linea” di pontificato, hanno in buona parte trascurato il portato storico della Chiesa dell’America latina, le sue radici profonde, il suo operante Dna.

Francescani e domenicani operarono subito non a fianco dei “conquistadores”, ma a fianco degli “indios” contro i “conquistadores”. Mentre le missioni francescane, stanziate nell’attuale Messico, con la cultura della povertà evangelica sviluppavano l’immagine della nuova Chiesa primitiva dove i fedeli del Nuovo Mondo potevano attendere la Parusia (il ritorno del Cristo sulla terra), i domenicani battagliavano dommaticamente in difesa dei diritti degli “indios” ridotti in schiavitù dai “conquistadores”.

Immediate le denunce di Antonio de Montesinos, Pietro de Cordoba, e dell’apostolo degli “indios”, Bartolomé de La Casas, vescovo del Chiapas (1544), che tornò dal Sud America per incontrare nel 1542, l’imperatore Carlo V e ottenerne le Leyes Novas contro ogni forma di schiavitù dei colonizzati. Dieci anni dopo Las Casa sarebbe tornato ancora per difendere a Valladolid, contro i dotti della corte imperiale, la dignità personale e i diritti fondamentali di ogni individuo indipendentemente dalla sua adesione alla fede cristiana e negando la liceità dell’uso della forza per la propagazione della fede cristiana.

I gesuiti furono autorizzati dal competente Consiglio imperiale delle Indie ad avviare la loro attività missionaria più tardi: a Lima nel 1568, a Città del Messico nel ’72…, dopo che la struttura diocesana della Chiesa d’America era stata completata. Ma la Compagnia vi sviluppò nel tempo un sistema d’organizzazione che impaurì l’ipocrita Europa illuminista che gridò alla scandalo, che fece finire nel sangue (dei poveri “indios”) la vita in comune dello “Stato del Paraguay”. A partire dal primo ’600, nella provincia gesuita del Paraguay (molto più estesa dell’odierno Stato) erano state progressivamente organizzate “riduzioni” (raggruppamenti territoriali di popolazioni indigene presso “case” gesuite) che 150 anni dopo raccoglievano circa 100.000 indigeni ormai stanziali in un’organizzazione politico-sociale “comunista”: vita in comune, istruzione comune, produzione in comune dei beni poi ripartiti secondo i bisogni, amministrazione affidata a “corregidores” indigeni elettivi…

Un modello straordinario di vita, osteggiato dalla cultura illuminista europea, antireligiosa, antigesuitica, dedita all’astrattezza del pensiero e al disprezzo del popolo. Una cultura che (a seguito di definizioni territoriali tra Spagna e Portogallo che assegnarono il territorio paraguayano alla sovranità portoghese) portò prima alla chiusura di quel modello d’organizzazione, poi alla soppressione, nel 1773, della Compagnia di Gesù. Una vittoria completa della cultura europea illuminista, elitaria, cortigiana. Ecco, quei francescani, quei domenicani, quei gesuiti… in America latina stavano, “dall’altra parte”; non solo geograficamente. Fermi nel guardare in faccia i poteri regi, i politici di corte (vecchi e nuovi), affrontarli sul piano etico-morale e giuridico, accusarli, chiederne leggi giuste; sempre dalla parte degli “indios” (vecchi e nuovi).

Per un ulteriore approfondimento consultare questo dossier (http://associazione-legittimista-italica.blogspot.it/2013/04/chiesa-e-colonialismo.html.)

 
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