giovedì 14 marzo 2013

R. P. Matteo Liberatore d.C.d.G. Avvilimento dell'autorità regia prodotto dal naturalismo politico.

 

 

 

R. P. Matteo Liberatore d.C.d.G.

Da: La Chiesa e lo Stato (2a ed.) Napoli 1872, cap. II, pag. 142-149.

CAPO II. — DEL NATURALISMO POLITICO.

ARTICOLO III.

Avvilimento dell'autorità regia prodotto dal naturalismo politico.

Studiando la storia e le Origini delle nazioni, un fatto luculentissimo salta subito agli occhi, ed è l'antichità e la universalità della istituzione monarchica. I primi governi a comparire negli annali del mondo sono i governi dei re. Sia che ti volgi alla Bibbia, sia che agli scrittori profani, con ammirabile accordo tu scorgi attestato un tal vero. Abramo scende nella Cananitide, vi trova re; passa in Egitto, è accolto da un re; viene alle mani coll'esercito federato dei popoli di Sennaar, del Ponto, di Elam, delle Genti, alla testa vi scontra i singoli re di quelle diverse nazioni [1]. Da re son rette le genti di cui canta il più antico poeta del gentilesimo [2]; da re le nazioni che commemora e descrive il padre della storia pagana [3].
La spiegazione d'un sì antico e generale fenomeno tu ragionevolmente non puoi trovarla in veruna cagione, che si riferisca a contingenze diverse e mutabili. Tu di necessità dei cercarla in qualche fatto antico del pari e comune, e connesso colla natura dell'uomo, essenzialmente intelligente e morale. Questo non sembra poter essere altro, se non l'idea che quei semplici ma forti intelletti ebbero dell'origine e del fine del potere civile. La società nel suo primitivo esplicamento nasceva dalla famiglia; uno dunque si concepì doverne essere il capo, siccome uno era il capo naturale della famiglia. Il concetto di Dio e della sua provvidenza era vivissimo nei primi tempi; il governo dunque terreno modellossi sul tipo del governo divino, e però, uno essendo Dio, uno si reputò dover essere il sovrano. Di che quella sentenza profferita da Ulisse come assioma ricevuto da tutti: Non è buono il governo di molti, sia uno il principe [4].
La istituzione di governi aristocratici o democratici non apparisce, se non in epoche posteriori; quando l'uomo più rimoto da' suoi primordii dimenticò la nativa origine del potere civile, e l'idea dell'unità di Dio erasi oscurata di molto pei sempre più crescenti errori del politeismo. Nella Grecia segnatamente, osserva il Muller [5], che siffatte forme di reggimento popolare non s'introdussero, se non quando i popoli perdettero l'amore dell'ordine, allorchè per l'assenza de' principi, occupati sì lungamente nella guerra di Troia, cominciarono gli animi a concepire torbidi divisamenti, e dividersi in contrarie fazioni: le quali scoppiando in aperte rivolture, in processo di tempo disastrarono le monarchie. Fino a che l'uomo si tenne nella purezza dell'antica semplicità, o caduto nella rozzezza e nella barbarie fu nondimeno lontano dalla corruzione, la forma monarchica di reggimento fu quella, che prevalse per ogni dove. Così non solo nell'Asia e nelle parti meno incolte di Europa la scena storica si apre coi re, ma i barbari del settentrione nel primo loro apparire si manifestano retti a governo monarchico. Lo stesso fenomeno ti presentano i popoli scoperti la prima volta nell'interno dell'Africa, e nelle parti meno selvagge di America. Tuttavia, se sottilmente si osservi la forma di quelle antichissime monarchie, di leggieri si scorgerà che esse, benchè fossero riguardate come assolute per parte dei sudditi, cioè non limitate da popolari assemblee; nondimeno non furon mai credute assolute per parte del principio, onde il potere sgorgava. Esso fu creduto di sua natura legato o stretto da una legge superiore, dalla legge eterna di Dio, e però sopravvegliato da coloro che di questa legge erano i depositarii ed i custodi. Da prima furono i padri stessi di famiglia, ai quali era affidata la conservazione della rivelazion primitiva, che al principe prestavano siffatta assistenza. In seguito un tale ufficio trapassò nel corpo de' Sacerdoti. Non è da credere che nel solo popolo ebreo, per peculiare disposizione di Dio, il principe dovesse ricevere tale indirizzo, per cui gli s'interpretasse e se gli ponesse sott'occhio il codice divino, qual fondamento e norma della sua civile amministrazione [6]. Questa fu condizione generale di tutti i popoli. In Asia, come in Africa e in Europa, presso le nazioni più celebrate, tu trovi dappertutto le prove di questa assistenza ieratica al supremo imperante. «Gli Egiziani, così Federico Schlegel [7], erano un popolo sacerdotale. Non già che non vi si trovassero altre caste notevoli pel loro isolamento, ma presso essi tutto aveva per principio il sacerdozio, per tutto predominava lo spirito e l'influenza dei preti. Lo stesso era nell'India..... Nel nostro Occidente questo carattere sacerdotale apparisce presso gli Etruschi in tutta la loro organizzazione sociale. Questo principio è medesimamente cospicuo nei primi tempi della storia romana; solamente esso avea preso una diversa direzione, quando i Patrizii seppero unire tra le loro mani ai privilegi sacerdotali il potere supremo di giudici e di capi militari. L'epoca eroica de' Greci fu egualmente preceduta da un'epoca sacerdotale.»
Da ultimo, dichinando sempre più i tempi ed i costumi, si appropriarono quell'influenza i corpi dei grandi dello Stato, veglianti alla conservazione delle leggi fondamentali, cui spesso confondevano colle leggi sacre e spesso derivavano da una fonte divina. Di che si conservò qualche avanzo anche ai tempi dei maggiori incrementi della monarchia asiatica; sicchè tu leggi che volendo Dario liberar Daniele dalla pena incorsa, i Satrapi gli rappresentarono non potere il Principe derogare a una legge di già sancita [8]. Così durò, finchè il potere civile scosse al tutto l'influenza religiosa; ma esso degenerò ad un tempo in despotismo e divenne obbietto non più di riverenza ma di timore.
Il consenso adunque universal delle genti, massime in epoche meno corrotte, quando l'eco della rivelazion primitiva ancora risonava e la voce di natura era men soverchiata dal frastuono delle passioni, l'autorità monarchica apparve veneranda, ma sol perchè informata ed avvivata dall'azione religiosa. Spogliare adunque codesta autorità di siffatta influenza torna al medesimo che spogliarla del verace principio, onde le viene vita, stabilità e decoro. «Non ci ha verun dubbio, così ragiona Guizot nella sua Storia dell'Incivilimento europeo [9], che la forza dell'autorità monarchica, questa potenza morale che ne forma il vero principio, non risiede punto nella volontà propria, personale dell'uomo, momentaneamente re; non ci ha dubbio che i popoli accettandola come istituzione, i filosofi sostenendola come sistema non han mica creduto, non han mica voluto accettar l'impero della volontà d'un uomo, essenzialmente ristretta, arbitraria, capricciosa, ignara. L'autorità regia è tutt'altra cosa che la volontà d'un uomo, ancorchè si presenti sotto questa forma. Essa è la personificazione della sovranità del diritto, della volontà essenzialmente ragionevole, illuminata, giusta, imparziale, straniera e superiore a tutte le volontà individuali, e che a questo titolo solamente ha diritto di governarle. Tale è il senso dell'autorità monarchica nello spirito dei popoli, tale è il motivo della loro adesione.»
Non sapremmo abbastanza ammirare la profondità e la sapienza di siffatte osservazioni. Ma convien dedurne inferenze legittime, declinando le spurie che l'Autore ne trae. L'autorità regia è riverita dai popoli, in quanto è riguardata come personificazione d'un potere più alto, d'una volontà essenzialmente ragionevole, illuminata, giusta, imparziale. Niente di più vero o di più conforme alla storia. Ma qual è di grazia cotesta volontà più alta, a cui convengono siffatte doti? Non altra per fermo, se non la volontà di Dio stesso. Essa, unicamente essa, può attribuirsi prerogative sì sovrumane d'essere essenzialmente illuminata, perchè non distinta dalla prima ed infinita fonte di ogni vero; essenzialmente giusta, perchè identificata colla norma stessa d'ogni rettitudine; essenzialmente imparziale, perchè scevra d'ogni passione o affetto inordinato. L'autorità regia adunque godrà l'amore e il rispetto dei popoli, solo in quanto loro si presenta come strumento ed applicazione della volontà divina al pacifico ed onesto consorzio tra gli uomini; in quanto ad essa consuoni come a motore interno, a forza governatrice, a principio regolatore del suo politico movimento. Or io domando: in che modo la volontà di Dio si manifesta agli uomini? Non altrimenti che in forza della sua legge rettamente interpretata ed intesa. E quale è l'interprete ed intendente infallibile di questa legge? Non è la Chiesa? Non è il Pontefice? Uopo è dunque conchiudere, che l'autorità regia, acciocchè conservi il suo prestigio e la sua forza sugli animi dei popoli, convien che si tenga strettamente unita alla Chiesa, e sotto l'influenza della sua divina azione.
Dove ciò non si voglia, sapete voi che accade? Quello che inferisce Guizot nel luogo sopraccitato da quella stessa magnifica idea che ci porgeva della sovranità. Egli, siccome protestante, non conoscendo le divine prerogative della Chiesa, non sa ravvisare in essa il vero mezzo per produrre e mantenere nel regio potere quei caratteri con tanta sagacità da lui avvertiti, come condizione sine qua non per meritare l'adesione e la riverenza de' sudditi. Quindi non iscorgendo altro mezzo naturale da procacciarli, deduce da quello stesso principio la illegittimità radicale d'ogni potere assoluto, e quindi la necessità di dover moderare la potenza monarchica con Statuti e con Assemblee. E veramente, esclusa la Chiesa, l'illazione mi sembra inevitabile. Imperocchè egli è verissimo che ogni potere assoluto quaggiù ripugna. Neppure la Chiesa ha in rigor di termini potere assoluto; in quanto essa ha nel Vangelo e nella tradizione un codice immutabile, nel suo organismo una costituzione da cui non può discostarsi, nell'assistenza divina una guida che la rende infallibile [10]. Quanto più dovrà dirsi il medesimo di autorità inferiori e terrene? Il solo potere di Dio, essenzialmente santo e signore assoluto, non ha limiti di sorte alcuna. Ogni altro potere non essendo che ministeriale, è stretto da limiti e bisognoso di direzione. La Chiesa riceve questa direzione immediatamente da Dio, giusta quella divina promessa: Ecco che io son con voi tutti i giorni, fino alla consumazione dei secoli [11]. Ogni altra podestà convien che partecipi a questa direzione divina, stando sotto l'influenza della Chiesa. Dove questo non facciasi, uopo è procacciare altri contrappesi e rattenti, per impedire che il potere disorbiti. Quindi è che ogni governo, il quale si separa dalla Chiesa, dee di necessità essere temperato da ordinamenti civili, che in certa guisa suppliscano, come possono, al difetto dell'assistenza religiosa. I liberali avvertono ciò acutamente; e però adoperano ogni studio ad alienare i re dalla Chiesa, sotto pretesto di emanciparli. Da tre secoli essi lavorano a disgiungere i due poteri, a rompere l'armonia e la subordinazione dell'uno all'altro. Perchè ciò? Perchè forse sono gelosi dell'onore dei principi? sono teneri della grandezza del principato? Nulla meno. Essi anzi ne vogliono l'avvilimento e la ruina, e però si travagliano a troncargli i nervi, col rimuoverne l'elemento che gli comunica virtù e splendore.
Il principe dee necessariamente apparire o come la personificazione della verità e della giustizia eterna, applicata agl'interessi terreni, o come la personificazione della volontà e della mente dei sudditi. Nel primo caso egli dee stare sotto l'influenza della Chiesa; perchè la Chiesa è quella, che conserva ed interpreta legittimamente e senza rischio di errore i dettami dell'eterna verità e giustizia. Nel secondo caso dee stare sotto l'influenza d'una rappresentanza nazionale, perchè essa sola è la maggior collezione che possa farsi degl'intelletti e delle volontà della moltitudine associata. Da questo dilemma non s'esce. O il principe è il delegato di Dio, o è il delegato del popolo. Se è il delegato di Dio, dee esser assistito dall'infallibile depositario della legge di Dio. Se è il delegato del popolo, dee sottostare alla vigilanza della rappresentanza popolare. Il principe impera sugli uomini, ma Cristo impera sui principi. Simboleggiato ab antico da Melchisedecco, sacerdote e re ad un tempo, Cristo non solo è Pontefice eterno [12], ma è altresì Principe dei re della terra [13]: Sacerdos in aeternum, Princeps regum terrae.
Gran che! Nella sola Chiesa Cattolica è possibile la monarchia pura. In essa sola può essere accettevole un potere, il quale sia sciolto da guarentigie civili, senza rendersi gravoso ai popoli e senza tralignar dall'idea che il Vangelo ci diede dell'autorità sovrana. Il Vangelo ci rivelò il vero concetto della potestà temporale in quella sublime sentenza di Paolo: Minister Dei est tibi in bonum [14]. Il principe è ministro di Dio, ordinato da lui a procurare il bene dei sudditi. Essendo ministro di Dio non riceve l'autorità da' sudditi, ma da Dio; essendo ordinato a procurare il bene de' sudditi, non è  gravoso ma utile ed accettevole al popolo. Se la sua autorità è ministeriale, non è illimitata nè assoluta, ma definita e dipendente. Definita da che? Dalla volontà di colui, del quale egli è mandatario. Dipendente da chi? Da quello stesso, di cui egli esercita il ministero. Stante tal dipendenza e tal determinazione, l'autorità non può fallire al suo scopo d'apportare felicità ai soggetti, nè tralignare dalla sua natura d'esser benefica inverso i popoli. Così fu resa possibile la pacifica convivenza tra gli uomini, e decorosa la sudditanza.
Ben comprendeva questi veri quel sublime prototipo de' sovrani cattolici, in cui la grandezza s'immedesimò col nome, l'immortal Carlomagno. Egli nel trasmettere la corona al suo figliuol Ludovico, tra gli altri utilissimi precetti, gli dava questo di riguardare i Vescovi come suoi padri. E in uno dei suoi celebri capitolari prescrive che ognuno nel suo estesissimo impero, dal primo all'ultimo presti obbedienza a' Sacerdoti come a Dio stesso, di cui sono Legati: Volumus atque praecipimus ut omnes suis Sacerdotibus tam maioris ordinis quam et inferioris, a minimo usque ad maximum, ut summo Deo, cuius vice in Ecclesia legatione funguntur, obedientes existant [15].
Così pensava Carlomagno. Io so bene che i cortigiani moderni non sono dello stesso avviso; ma essi ancora ben sanno che neppure la sovranità moderna gode dello stesso fulgore. Son due fatti contemporanei; ma se ben si confrontino tra di loro, si scorgerà che l'uno è effetto dell'altro. Carlomagno serbò verso la Chiesa un'affezione senza limiti, non agguagliata forse da verun altro Sovrano; ma in compenso il suo trono rifulse d'una maestà senza pari, amata e riverita da tutti, e perfino i suoi nemici piansero la sua morte. Acciocchè i sudditi rispettino il sovrano, convien che a nome di Dio loro si imponga l'obbedienza. Quest'ufficio non può esercitarlo se non la Chiesa per mezzo de' suoi ministri. La Chiesa, vero vincolo della società, convien che intervenga tra Dio e i principi, tra i principi e i popoli. Tra Dio e i principi per tenere i principi nella debita soggezione a Dio, tra i principi e i popoli per tenere i popoli nella debita soggezione ai principi. Ma come potrà essa esercitare questo doppio uffizio, se la società, separandosi da lei, ne rigetta la divina influenza?


NOTE:

[1] Genesi, capo XII, e seg.
[2] Omero, Iliade, Odissea.
[3] Erodoto, Storie.
[4] Iliade, Libro II. v. 204.
[5] Storia universale, lib. I, n. XIII.
[6] Postquam autem sederit in solio regni sui describet sibi deuteronomium legis huius in volumine, accipiens exemplar a sacerdotibus leviticae tribus. Et habebit secum legetque illud omnibus diebus vitae suae, ut discat timere Dominum Deum suum, et custodire verba et caerimonias eius quae lege praecepta sunt. [Deut. 17].
[7] Storia della Letteratura antica e moderna.
[8] Daniel, cap. 6.
[9] Leçon. 9.
[10] Non enim possumus aliquid adversus veritatem, sed pro veritate. II ad Corinth. 13.
[11] Ecce ego vobiscum sum omnibus diebus, usque ad consummationem saeculi. Matth. Cap. ultimo.
[12] Secundum ordinem Melchisedech Pontifex factus in aeternum. Ad Hebraeos, VI.
[13] A Jesu Christo qui est testis fidelis, primogenitus mortuorum et princeps regum terrae. Apoc. I.
[14] Ad Rom. XIII.
[15] Baluz. t. I. pag. 437.