mercoledì 13 febbraio 2013

Da La caduta di Venezia. Le giornate di marzo e le relazioni dell’Italia con l’Austria, di Anton von Steinbüchel




Venerdì 17 marzo

Intanto in piazza la scena cambiò radicalmente. Una torma della peggiore plebaglia a piedi nudi (cosa piuttosto rara in Italia), vestita di luridi cenci, irruppe nel luogo dove stava la gente vestita bene che andava un poco alla volta disperdendosi. Il rullo di tamburo e il suono di strumenti a fiato provenienti dalla piazzetta sembravano annunciare l’arrivo della banda militare, come ai bei tempi, quando i rapporti erano pacifici. Pareva una mossa ben indovinata, per incanalare pian piano l’iniziale fermento entro binari collaudati. Ma le cose andarono diversamente. Il popolo – o meglio i suoi capi segreti – aveva raccattato chissà dove alcuni suonatori della banda musicale italiana della Marina; e questi, in mezzo alla calca, si schierarono sulla piazza e fecero un po’ di rumore, poiché di certo non si poteva definire musica quella miserevole accozzaglia di suoni emessi nella magnifica piazza regale. Ciò che balzava agli occhi era vedere la servitù, ossia i gondolieri di diverse e antiche casate nobiliari veneziane, darsi da fare tra la folla come per impartire ordini.

Mentre ancora si aspettava di vedere che piega avrebbero preso quelle inaudite meschinità, emergevano segnali sempre più inquietanti.

All’improvviso infatti, ecco alle finestre aperte del secondo piano delle Procuratie Vecchie e dell’appartamento del conte Contarini Zaffo, apparire le mani delicate di entrambe le sue giovani figlie, con strisce sottili con i colori italiani, rosso, bianco e verde. Al di sotto, giovani uomini ben vestiti mostrarono questo particolare alla folla, che subito applaudendo proruppe in alte grida di evviva. A stento si poteva credere che acclamazioni provenienti da mani e da bocche del genere potessero suonare lusinghiere a giovani dame di un ceto così elevato, ma tutto ciò faceva parte di un piano; perciò ecco sventolare sempre più numerose strisce di stoffa; infine dalla stessa finestra spuntò su di una lunga asta una grande bandiera tricolore (italiana) cucita con ritagli di vestiti di ogni genere.

[…] Comparve un corteo di persone ancora una volta delle classi più basse, con in testa un ragazzino dai riccioli biondi che portava un piccolo busto in gesso del papa regnante, e immediatamente tra alte grida di giubilo tutta la folla di straccioni a piedi nudi si avvicinò all’immagine disponendosi a cerchio, s’inginocchiò prostrandosi con la testa a terra e battendosi il petto: il tutto si ripeté tre volte.

 

[…] Davanti alla chiesa di San Marco s’innalzano i tre grandi pennoni per le bandiere (stendardi), che l’antica Repubblica aveva collocato come segno del suo dominio sui tre regni di Morea, Cipro e Candia e dove, fin dai primi tempi del governo austriaco veniva issata la bandiera bianco-rossa nelle principali festività, mentre nel resto dei giorni i pennoni rimanevano senza bandiera. Ed ecco all’improvviso si vide, con le funi da sempre utilizzate per quello scopo, issata la bandiera tricolore italiana, anche se va detto che si trattava solo di un pesante cumulo di stoffe cucite assieme alla bell’e meglio che non riuscivano a dispiegarsi. In piazza alcuni personaggi ben vestiti furono visti gettare soldi a piene mani nel berretto dell’uomo che aveva issato la bandiera.

[…] Nel frattempo il disordine continuava imperterrito e rumoroso, senza lasciarsi impressionare dal segnale d’allarme, malgrado i più sapessero di sicuro cosa significava. Improvvisamente tutti si affollarono sotto il pennone con il tricolore, dove aveva preso posizione una divisione di trenta uomini del reggimento Kinsky. Il popolo accerchiò quei pochi uomini, fischiò e inveì per manifestare la propria contrarietà ai soldati intervenuti a rovinare la festa. Allora si vide il generale Culoz, un uomo imponente che sovrastava la folla ondeggiante attorno a lui, uscire dal palazzo del governatore e attraversare la piazza dirigendosi verso la divisione lì schierata. Evidentemente il popolo gli assicurò che avrebbe tenuto un comportamento pacifico, a patto che non ci fossero soldati in piazza: quello schieramento infatti non aveva né senso né scopo, ed era percepito come un passo falso da parte del comando della città. Il generale diede ordine alla truppa di ritirarsi verso la Gran guardia che stava nella piazzetta, stentando a sottrarsi alle dimostrazioni d’affetto del popolo.

Solo in quel momento si palesarono i veri effetti degli spari d’allarme. Da ogni dove arrivarono di gran passo le colonne della guarnigione, con fare severo attraversarono la piazza e in silenzio si disposero in fila lungo le Procuratie Nuove e il palazzo del viceré.

[…] Avevo camminato per ore, in preda ai più diversi stati d’animo, e, sempre più umiliato e affranto, vidi il grande dispiegamento di soldati e nessun indizio di nuovi assembramenti. Dovevo anche occuparmi dei miei, riferire quel che avevo sentito, rincuorare gli animi affranti. Appena messo piede in casa, sentii suonare la campana di San Marco: un incendio forse? Infatti, dal momento che la truppa era schierata in piazza nei pressi del campanile, poteva questo scampanio avere altro scopo? poteva venire da un ordine delle autorità? Certo che no, il suono chiamava alla rivolta: chiamava a raccolta in piazza San Marco il popolino e la disordinata plebaglia per diffondere agitazione e disordini in tutta la città. Pochi impudenti agitatori avevano preso possesso del campanile e ora suonavano le campane a più non posso, finché non fu mandata una guarnigione di granatieri a riprendere il controllo del campanile e di quelle facce toste di rivoltosi. Visti però preparativi così spaventosi, come mai venivano trascurate in questo modo le consuete precauzioni, mentre i rivoltosi non aspettavano altro che di prendersi per prima cosa il campanile?

La plebaglia, radunata dalle campane che chiamavano alla rivolta, in numero sempre maggiore e con modi di fare sempre più sfrontati, poteva in definitiva ben dare adito a preoccupazioni, quando, per utilizzare tutti i mezzi disponibili (ma fin dall’inizio del tutto inutilmente), ecco che il patriarca, indossando gli abiti della sua alta dignità ecclesiastica, si fece alla finestra accanto al governatore, per benedire il popolo e assicurare tramite la religione l’ordine cittadino e la quiete. La folla, così si racconta, credendo che l’alto prelato volesse riferire una comunicazione da parte del governatore, si precipitò in massa verso il palazzo. I soldati e il loro comandante credettero di cogliervi l’intenzione di un attacco generale; fu allora che le baionette vennero abbassate; l’intera linea avanzò, e così il popolo accalcato si dileguò in modo scomposto, senza però riuscire a evitare che qualcuno venisse ferito lievemente e che le vetrate del Caffè Quadri andassero in frantumi per colpa di chi cercava di rifugiarsi all’interno. Solo il tizio biondo che portava il busto del papa fu gettato a terra dai suoi stessi compagni nel fuggi fuggi disordinato, e morì schiacciato.
 
Il settario Manin il 17 Marzo 1848
 
 

Estratto da:

“Rivolta e tradimento. Sudditi fedeli all’imperatore raccontano il Quarantotto veneziano”,