martedì 11 dicembre 2012

Il modello amministrativo borbonico


 

di

Mariolina Spadaro


BORBONICO = aggettivo qualificativo dispregiativo. Sinonimi: retrogrado, farraginoso, paternalistico, corrotto, inefficiente; reazionario.

 

È la sintesi delle definizioni del termine “borbonico” riportate dalla totalità dei dizionari della lingua italiana. Si tratta della ricaduta linguistica di un processo culturale avviato qualche tempo prima dell’unificazione d’Italia, quando la leggenda nera sul Regno delle Due Sicilie e sulla dinastia borbonica fu creata ad arte, per aprire la strada agli eventi militari e politici che avrebbero cambiato al faccia della Penisola. Era necessario costruire un’immagine negativa del Regno per tacitare la reazione internazionale che sarebbe stata suscitata dall’invasione armata.

 

Il Regno delle Due Sicilie, quindi, fu associato alla campagna denigratoria, tanto violenta quanto menzognera, già scatenata in tutta Europa contro lo Stato Pontificio, orchestrata dalla massoneria internazionale e condotta con particolare zelo dall’Inghilterra protestante e dal Piemonte.

Fu così che il governo di Ferdinando II divenne “la negazione di Dio” attraverso le lettere di Gladstone, e l’opinione pubblica fu informata sulle “torture” nelle carceri napoletane dai pamphlet di d’Azeglio.

 

La campagna diffamatoria, funzionale all’imminente offensiva risorgimentale, continuò anche dopo l’unificazione allo scopo di cancellare la memoria storica dei Meridionali e convincere le nuove generazioni che prima dell’Italia tutto fosse “pianto e stridor di denti”, nonché per giustificare la ferocia della lotta contro i cosiddetti briganti, ovvero i renitenti al nuovo ordine.

 

Ahinoi, a lungo andare le menzogne tante volte ripetute divennero luoghi comuni e si radicarono nell’immaginario collettivo, fino a far parte della nuova cultura italiana. Ciò che prima era “borbonico” divenne “meridionale” e la leggenda nera non riguardò più una dinastia ma un intero popolo, retrogrado, corrotto, inefficiente.

 

Quello del significato del termine “borbonico”, dunque, è un elemento non marginale ma sostanziale della battaglia culturale per il recupero dell’identità meridionale e va affrontato, come sempre, ripulendolo dalle incrostazioni ideologiche e riportandolo alla verità documentale.

 

In questa direzione va il testo che mettiamo a disposizione dei nostri lettori, esaminando gli aspetti peculiari dell’amministrazione pubblica borbonica. Ne è autrice la prof. Mariolina Spadaro, ricercatrice presso dell’Università Federico II di Napoli, che ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Regno delle Due Sicilie, a partire dall’epoca spagnola.

 

Editoriale Il Giglio


Il modello amministrativo borbonico

 

 

 

Dopo l'esperienza del decennio francese, lo Stato napoletano tornato alla dinastia legittima dei re Borbone  riorganizza il proprio assetto istituzionale, nella consapevolezza che l'esperienza napoleonica ha comunque lasciato tracce difficilmente cancellabili, che è possibile reinterpretare .

 

Lo Stato autoritario instaurato dai napoleonidi  non era riuscito ad annullare, come sperava, ogni residua traccia dell' Ancien Régime  e la legge 8.8.1806, che trapiantava nel Regno di Napoli la costituzione dell'anno VIII (vero e proprio manifesto della Francia rivoluzionaria), senza tenere conto delle oggettive differenze tra i due Paesi, aveva soltanto centralizzato e burocratizzato l'azione statale, subordinandone i vari aspetti al controllo del Ministero dell'Interno.

Si era, perciò creato uno Stato di polizia, con la conseguenza che solo su un piano formale e di mera apparenza  si prevedeva la massima libertà per tutti i cittadini; nella realtà dei fatti, la repubblica lasciava il posto all'impero, che era esattamente la negazione di quella.

Lo Stato napoleonico  ritiene che non sia necessario stabilire o confermare i principi di libertà ed eguaglianza, perchè essi esistono di per sé e non hanno bisogno di essere affermati da alcuno: ciò consente, però, di disattenderne il significato in qualunque momento e per qualsiasi motivo. La stessa  distinzione tra libertà civili e libertà politiche consente di affermare che un cittadino, sottoposto ad uno Stato autoritario, è tuttavia libero: la libertà che gli si lascia è infatti quella di pensare ciò che vuole e, soprattutto, di credere ciò che vuole, nell'intimo della propria coscienza. La religione diventa così un fatto di opinione personale, non rilevante sul piano politico e praticata “in conformità dei regolamenti di polizia”.

Si usa, in definitiva, l'arma politica dell' apparenza, ma la sostanza delle cose è molto diversa. Da Napoleone in avanti l'ambiguità regnerà in maniera pressoché incessante nelle istituzioni degli Stati moderni ed il divario tra diritto e realtà di fatto diventerà la regola.

Nettamente contrapposte rispetto a questo modello le regole dello Stato  assoluto, nelle quali assume una posizione preminente il re, qualificandosi come tutor nei confronti dei sudditi, di modo che questi conservano intatta la loro  capacità giuridica, mentre la capacità di agire è dello stato, impersonato dal re.

Nello stato assoluto il re ha potere di agire pressoché illimitato: garantisce la difesa del regno, dirige la politica estera, dispone di tutte le forze armate, assume la completa amministrazione del regno; ma tutti questi mezzi vengono da lui usati non per dispotismo o a suo piacimento, bensì perchè il re obbedisce a regole e tradizioni ad imperativi che gli impongono un determinato comportamento (p.es. non ha il diritto di annullare le posizioni giuridiche acquisite, poggianti sulla prescrizione, cd. possesso ab immemorabile).

Certamente più incline verso questo modello che verso il primo è il Regno delle Due Sicilie, costituito con legge 8.12.1816 in stato unitario ed in forma di monarchia assoluta.

Nel re per grazia di Dio si accentrano tutti i poteri dello stato: legislativo, esecutivo, giudiziario (anche se quest'ultimo è esercitato nella forma cd. della giustizia delegata, ossia attraverso i giudici nominati dal sovrano). Inoltre il re è comandante in capo dell'esercito e dell'armata di mare; è il vertice dell'amministrazione civile.

La “costituzione” delle Due Sicilie (ossia le norme fondamentali che caratterizzano l'ordinamento giuridico dello Stato) presenta caratteri di apertura verso le istanze più nuove presenti nella società, pur caratterizzandosi come un ordinamento che è e rimane, in primo luogo, quello di una monarchia assoluta.

Occorre intendersi sul  concetto di “monarchia assoluta” perchè, contrariamente a quanto si pensa, il sovrano è condizionato dal rispetto di una serie di regole e da una rete di privilegi, civili ed ecclesiastici, di ceti, corporazioni, istituzioni,  che ridimensionano la sua azione: in effetti il re non è mai solo: accanto a lui vi sono i rappresentanti di tutti gli interessi del regno (città, corporazioni, banche, grandi imprese, compagnie di commercio hanno i loro rappresentanti a corte).

A partire dal secolo XVII, poi, lo stato si pone come realtà indipendente dalla persona fisica del re, tant'è vero che l'autorità passa dal re al suo successore senza intervallo (“è morto il Re, viva il Re”): lo Stato diventa una realtà in se ed il Re è il primo servitore dello Stato (gli atti politici del sovrano non muoiono con lui, ma impegnano il successore).

La  celebre frase di Luigi XIV “l'Etat c'est moi”, non rende affatto illimitato il potere regio, ma lo grava di una serie di obbligazioni che il sovrano contrae con i sudditi e che ridimensionano notevolmente l'azione del Re.

Ciò è storicamente provato per tutte le monarchie assolute europee, dal medioevo ad oggi. Certamente non fa eccezione il Regno delle Due Sicilie, il cui ordinamento  si presenta addirittura più “moderno” rispetto a quello delle altre monarchie europee, ossia più pronto a recepire le istanze presenti nella società, che vengono attuate senza che per questo siano traditi i principi della Tradizione.

Sicuramente le norme dell'ordinamento del Regno non realizzano uno Stato fondato sulla sovranità popolare e sulle garanzie di libertà, ma non configurano una forma di dispotismo illuminato: recepiscono il principio dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, tutelano la proprietà ed alcuni diritti individuali, esprimono uno degli indirizzi politici emersi nell'Europa del congresso di Vienna; non prevedono organi politici o amministrativi elettivi, ma non oppongono privilegi di nascita alla partecipazione all'esercizio dei pubblici poteri.

Ed il Re  si pone come il garante e, dunque, il tutor di questo ordinamento e della sua attuazione per il bene del popolo.

Le norme racchiuse nel cd. Codice per lo Regno del 1819 (codice civile, penale, di procedura civile, di procedura penale, di commercio) configurano sicuramente l'ordinamento di uno Stato al passo con i tempi e rispecchiano in modo assolutamente fedele la società meridionale, di cui riproducono i valori fondamentali (le critiche, del resto, furono scarse e scarne, per lo più provenienti dai circoli illuministici  che giudicarono una vera e propria “involuzione” rispetto alla normativa precedente napoleonica, per esempio, la reintroduzione del concetto di indissolubilità del matrimonio:  agli illuministi questa norma diede fastidio, ma l'istituto del  divorzio introdotto dal codice napoleonico non rispecchiò mai il sentimento prevalente del popolo delle Due Sicilie).

Questa codificazione, completa e moderna, di cui il regno delle Due Sicilie si dotò, primo fra tutti gli altri stati italiani, nel 1819, rimase in vigore fino al 1865, senza sostanziali variazioni, se non quelle dettate dalle esigenze di adattamento ai tempi nuovi (p. es. l'abolizione della tratta dei negri, la sanzionabilità  del duello).

Questo codice, che rappresenta il più insigne monumento della legislazione borbonica e del pensiero giuridico meridionale, fu, per molti aspetti, precursore di quelli attuali, anche per quanto riguarda la gerarchia delle fonti o la formulazione degli articoli di legge o, ancora, il principio, importantissimo, della irretroattività della legge, sia civile che penale: l'art. 60 LL.PP. sanciva espressamente che “niun reato può essere punito con pene che non erano pronunciate dalla legge prima che fosse commesso” (ed è lo stesso principio posto a base dell'art. 25 della Costituzione italiana (“ nessuno può essere punito  se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”). Dunque il cd. principio di legalità della pena, che è fondamentale per gli ordinamenti giuridici degli Stati moderni, era attuato e ben presente nel Regno delle Due Sicilie.

Questa “modernità” tuttavia non aveva affatto tradito i principi tradizionali degli stati assoluti, anzi aveva saputo coniugare  quei valori che più risultavano radicati presso le popolazioni meridionali con le esigenze di una società  obbligata a confrontarsi con le altre nazioni europee, considerate più avanzate.

E' vero, infatti, che i poteri tradizionali dello stato rimanevano nelle mani del re, che esercitava personalmente tutte le funzioni più rilevanti racchiuse nell'esecutivo, ossia attribuzioni di governo ed attribuzioni amministrative e, benchè nessuna norma lo prevedesse espressamente, definiva l'indirizzo generale, politico ed amministrativo del Governo.

L'organizzazione amministrativa dello Stato era affidata, principalmente ai Ministri, che agivano quali coadiutori del sovrano, ponendosi a capo delle varie amministrazioni o Ministeri. Era stato Carlo di Borbone a  dettare le norme organizzative dei ministeri o reali segreterie di stato, che erano quattro e  stabilendo il carattere eminentemente fiduciario del sistema.

Con l'avvento dei Francesi, il numero delle segreterie fu portato a sette e perse questo carattere a favore di una burocratizzazione, che andò  sempre più spersonalizzando l'ufficio (in Sicilia, però, dove regnava Ferdinando IV, il sistema continuava ad essere quello carolino).

Tornato a Napoli Ferdinando, dopo un periodo transitorio teso a favorire la riorganizzazione degli affari di stato, nel 1817 si attuò la riforma dell'amministrazione.

L'analisi delle norme dettate da Ferdinando IV (ora divenuto I), testimonia la volontà di dotare il Regno di una moderna amministrazione, affidata a personale competente e, al tempo stesso, fedele alla dinastia. Ritorna, quindi, il carattere fiduciario nel sistema di reclutamento dei funzionari statali, ma si esigono al tempo stesso doti di abilità tecnica e professionale, propri di uno stato moderno.

Comincia anche in questo periodo e continuerà soprattutto con Ferdinando II la riduzione di tutte le spese superflue ed un progressivo snellimento dell'apparato statale e della macchina amministrativa.

Ferdinando II, che salì sul trono delle Due Sicile dal 1830 ma cominciò a regnare anche prima, come Principe ereditario, in occasione delle numerose assenze del padre), confermò quasi tutte le leggi emanate tra il 1816 ed il 1817, che costituirono l'ossatura dello stato fino alla fine del regno, premurandosi di emendarle o rafforzarle al fine di dare pratica attuazione ai principi fondamentali dell'ordinamento statale.

 

L'unificazione dei due Regni (di Napoli e di Sicilia) costituiva l'obiettivo che più di ogni altro fu perseguito con ferma determinazione da Ferdinando II. Non era stato sufficiente  proclamarne la riunione  sotto la stessa corona; occorreva annullarne le differenze profonde , che tuttora sussistevano,  senza pregiudizio per alcuno.

La legge  11.12.1816 sanciva la “separazione degli impieghi” prevedendo l'attribuzione ai siciliani delle cariche e degli uffici  al di là del Faro e dei napoletani nei domini citra Farum.

Nel 1837 Ferdinando II abrogò  questa legge, stabilendo la “promiscuità degli impieghi nelle due parti del Regno”: ciò non solo per “eguagliare” i sudditi dei due Regni, ma soprattutto nell'intento di sradicare dalla Sicilia la soggezione al baronaggio ed abbassare le prepotenze degli uomini più influenti. Tuttavia, per non  creare situazioni pregiudizievoli , stabilì che  i siciliani avrebbero occupato a Napoli lo stesso numero di posti che i napoletani avrebbero occupato in Sicilia (la legge, però, non piacque ai siciliani ed il Re la ritirò nel 1848, richiamando la normativa del 1816).

L'amministrazione dello stato fu sempre oggetto della massima cura di questo sovrano, che la considerava “fondamentale cura del governo”, in quanto da essa derivava immediatamente la felicità dei popoli.

Non pochi furono del resto i suoi interventi in questo settore, ora per affermarne i principi fondamentali e dettarne le regole, ora per sottolineare la responsabilità dei funzionari (“i funzionari  pubblici siano convinti che i soldi, le onorificienze, le distinzioni, non sono per essi un beneficio gratuito e molto meno un sine cura. Servitori del Re e dello Stato, a questo solo titolo sono stipendiati ed onorati”), ora per ammonirli circa l'osservanza dei propri doveri, ora per  indirizzare loro un forte richiamo alla personale ed individuale responsabilità, manifestando ogni riluttanza verso  forme sanzionatorie di intervento (“Ha dichiarato il Re che prenderà stretto e periodico conto del contegno di tutti i funzionari pubblici nell'indicata  gelosa linea di loro adempimento, in ispecie per attaccamento al Re ed alla pubblica tranquillità, onde dispensare la sovrana maestà dall'obbligo di adottare penose ed esemplari misure”). Né mancò mai di rimproverare i funzionari meno diligenti, quando se ne presentò l'occasione: “il ricordare agli intendenti, ai sottintendenti, ai sindaci i loro doveri sarebbe lo stesso che di scrivere la legge ed i regolamenti. ma il Re non può ad alcuno di essi esternare la sua sovrana soddisfazione, particolarmente nelle circostanze nelle quali  ...(si) esigeva sopraffina diligenza ed attività somma. Il Re è malcontento in generale della poca e negligente cura che gli intendenti pongono nella scelta di sindaci, eletti, decurioni”.

Sarebbe stato sufficiente, sembrava dire il Re, che tutti facessero il proprio dovere, senza costringere il sovrano ad adottare misure drastiche, poco conformi al suo stesso carattere.

Pochi essenziali principi regolavano, d'altra parte il buon andamento della Pubblica Amministrazione (o “buon governo”): probità, moralità, attaccamento al Re, abilità tecnica e professionale erano i requisiti richiesti per l'esatto e decoroso adempimento delle funzioni.

La legge 21 marzo 1825 stabiliva le norme per essere ammessi alla carriera impiegatizia. Gli aspiranti presentavano la domanda al Ministro per essere ammessi come “alunni” in un Ministero ove vi fossero posti vacanti; il ministro prendeva informazioni sulla moralità degli aspiranti e li sottoponeva ad un esame per valutare l'abilità corrispondente al servizio, quindi destinava coloro che avessero superato l'esame al lavoro più opportuno in relazione alle capacità manifestate.

Tutti dovevano saper leggere e scrivere “con abilità, sì per la calligrafia che per l'ortografia”; per alcuni  impiegati era richiesta, in relazione alla carica, una particolare abilità tecnica.

Gli avanzamenti nella carriera venivano conferiti “per antichità ed assiduità nel servizio”: vi era quindi, una sorta di garanzia di stabilità nell'impiego, una volta assunti; a meno che non si commettessero fatti che potevano dare luogo a sanzioni disciplinari. Le più comuni erano la sospensione (cautelare o punitiva) e la destituzione.

La legge disciplinava i casi nei quali si applicavano tali misure e la relativa procedura, piuttosto complessa ma abbastanza “garantista”, sottolineando comunque che gli impiegati potevano essere destituiti “sempre che dieno giusto motivo a questa misura”.  Il sovrano, però, preferiva generalmente appellarsi al senso del dovere e di responsabilità dei funzionari ed impiegati, anziché ricorrere a misure sanzionatorie.

E' sempre il Re che accorda i permessi (congedi e licenze) ai funzionari di grado più elevato ( intendenti, sottindendenti, segretari generali), mentre sono i  superiori gerarchici  che li accordano ai funzionari ed impiegati di grado subalterno.

Nel tentativo di scoraggiare favoritismi e clientelismi, Ferdinando II stabilì che i congedi straordinari (oltre i due mesi) non potevano mai essere accordati dai funzionari di grado più elevato ai dipendenti immediatamente subalterni, ma potessero essere disposti solo dai funzionari gerarchicamente superiori ai primi.

 

L' Amministrazione centrale dello stato faceva leva sui Ministeri, organi complessi a struttura piramidale, articolati in più “ripartimenti” e “carichi” (la distinzione aveva però rilevanza  puramente interna, mentre le strutture  si presentavano all'esterno  piuttosto snelle).

Il personale impiegatizio era ordinato gerarchicamente in gradi o classi e distinto in varie carriere. Non esisteva una legge generale sul pubblico impiego (adottata in Italia nel 1908), ma non poche erano le norme che regolavano aspetti importanti del rapporto d'impiego (orario di lavoro, stipendi, pensioni).

La regola per accedere agli impieghi era quella del concorso per esami, senza tuttavia escludere completamente la discrezionalità regia.

Gli impiegati erano, contrariamente a quanto si ritiene, ampiamente garantiti: la legge 19 ottobre 1818 prevedeva una sorta di “autorizzazione a procedere” per i reati commessi dai funzionari nell'esercizio delle loro funzioni e questa “garanzia” era piuttosto estesa. Le ragioni riposavano sull'esigenza di sottrarre i funzionari ed impiegati alla “ignominia” che poteva ingenerarsi nell'opinione pubblica dal fatto che essi fossero sottoposti  a giudizio penale (si riconosceva, evidentemente, che la sottoposizione a giudizio penale, anche in caso di successiva assoluzione dell'imputato, non poteva non produrre effetti  nell'opinione pubblica. Non solo: il ministro Donato Tommasi riteneva che se si fossero lasciati i funzionari senza questa  sorta di “protezione” essi, “fluttuanti e malsicuri si asterrebbero da ogni misura energica”  nel timore di essere denunciati da chicchessia  e ciò avrebbe fatto sì che “le loro disposizioni segnate sempre con mano tremante, ed eseguite con egual trepidazione, mal corrisponderebbero al loro oggetto, cioè alla buona amministrazione dello Stato”).

Era insomma sempre quest'ultima l'obiettivo principale da conseguire.

Tuttavia non mancavano norme a tutela di quelli che oggi si direbbero i “diritti degli impiegati” (p. es. il diritto alla pensione).

Nel Regno delle Due Sicilie il trattamento di quiescenza era non solo garantito, ma addirittura più favorevole di quello attuale (l'impiegato che avesse maturato 40 anni ed 1 giorno di servizio aveva diritto all'intero ammontare dello stipendio. Poiché si cominciava a lavorare in giovane età, evidentemente i 40 anni di servizio erano facilmente raggiungibili).

 

I Ministeri, in epoca ferdinandea erano: Affari esteri, Grazia e Giustizia, Pubblica Istruzione,  Finanze,  Affari Interni, ognuno dei quali raggruppava più competenze.

Solitamente le competenze facenti capo ai vari Ministeri erano affidate, nelle provincie, ad uffici periferici (intendenze, sottindendenze), in mancanza dei quali le funzioni venivano svolte dagli organi della Amministrazione locale ( sindaci, decurioni).

Occorre precisare che la distinzione tra Amministrazione centrale e Amministrazione locale non rispecchia i criteri attuali, dal momento che non esisteva una amministrazione locale autarchica o autonoma (i concetti di autonomia ed autarchia  sono estranei allo stato borbonico):  certo sono diversi gli  uffici degli intendenti e sottindendenti, da un lato,  e comuni e provincie dall'altro.; ma in ogni caso è sempre il Governo il principio di ogni amministrazione.

 

L'intendente, una figura ereditata dallo stato napoleonico e che Ferdinando II non amò mai, era  la prima autorità della provincia, con poteri simili a quelli degli attuali prefetti.

Le sua sfera di competenza era molto estesa e ciò lo rendeva un personaggio assai temuto e rispettato, ma al tempo stesso lo metteva sotto il diretto controllo del re e dei suoi ministri, da cui dipendeva.

Il consiglio provinciale era l'organo rappresentativo della provincia ed era composto dal presidente, nominato ogni anno  direttamente dal re e dai consiglieri, nominati con decreto reale su proposta dei consigli decurionali. Si riuniva una volta all'anno per non più di venti giorni, durante i quali doveva formare lo stato discusso, cioè il bilancio di previsione delle spese della provincia.

Il comune era la base dell'amministrazione pubblica.

Il godimento dei diritti politici era subordinato ad alcuni requisiti: età,  sesso, cittadinanza, domicilio nel Comune da almeno 5 anni, censo (12 ducati annui per i comuni con popolazione inferiore a 3.000 abitanti e 24 ducati annui per i comuni maggiori) o, in alternativa, esercizio di una libera  professione o l'essere agricoltori per conto proprio benchè su terreno altrui).

Erano ineleggibili gli ecclesiastici, i domestici ed operai, gli interdetti dai pubblici uffici, mentre potevano essere eletti anche gli analfabeti.

Le liste degli eleggibili si formavano ogni quattro anni; in realtà la prassi che si consolidò fu quella di aggiornare le liste ogni anno nel mese di maggio, pubblicando anche un elenco di coloro che avessero compiuto il 21° anno di età  e depennandovi i defunti e gli assenti.

Organi dell'amministrazione comunale erano il sindaco (nella duplice veste di capo dell'amministrazione comunale ed ufficiale di governo), due eletti (Napoli, però ne aveva 12), il decurionato (tre decurioni ogni mille abitanti, fino ad un massimo di trenta).

Gli uffici erano gratuiti e tutti gli amministratori avevano l'obbligo di residenza nel comune, né se ne potevano allontanare senza autorizzazione del sottintendente; erano inoltre responsabili di qualunque danno che il comune potesse subire per colpa loro e potevano anche essere multati o ammoniti.

Sicuramente  le cariche ricoperte costituivano veri e propri doveri civici  più che diritti e chi se ne sottraeva senza valido motivo poteva essere multato anche in maniera pesante.

 

Nel complesso, l'amministrazione del Regno  si fonda su un “modello” che non appare né arretrato né rozzo; anzi perfettamente adeguato ai tempi, in molti casi addirittura in anticipo.

Tale “modernità”, peraltro, si caratterizza in maniera del tutto peculiare, perchè riesce a coniugare  le istanze più recenti della società con i valori della Tradizione e mostra quindi, tra il modello rivoluzionario  francese e quello riformista austriaco un modello amministrativo che non è né filo-francese, né filo-austriaco, ma solo ed esclusivamente  napoletano.

Esso faceva leva sui valori più genuini espressi dalle popolazioni meridionali, mantenuti integri a dispetto delle diverse dominazioni che si succedettero nel territorio del Regno nel corso dei secoli.

Se il passato serve  a comprendere il presente, la “diversità” che ancora oggi caratterizza le genti del Sud assume il significato di peculiarità storica di un popolo che ha radici antichissime e tradizioni degne del  rispetto di tutti.