lunedì 29 ottobre 2012

STATUTO MONETARIO DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

30 Ducati d'Oro del Regno delle Due Sicilie con l'effige di Ferdinando I (1818)
 
 

Pubblicato l’8 maggio 1818, fu definito da Lorenzo Bianchini nella sua “Storia delle Finanze del regno di Napoli” come “la prima migliore legge che su tale obbietto si facesse in Europa, talché venne ovunque lodata ed in vari Stati imitata”.
Premettendo che la moneta costituisce la misura dei prezzi relativi ad ogni contrattazione, si stabilisce che un solo metallo debba costituire materia per il conio delle monete e si determina che la moneta unitaria, a cui i prezzi ed ogni valutazione debbono riportarsi in numerario, sia il “Ducato”, un pezzo in argento di 515 acini napoletani, cioè pari a grammi 22 e 943 millesimi, coniato con una lega di 833 e ½ di millesimo di argento puro e 166 e 2/5 di millesimo di lega. Quindi, il Ducato ha 5/6 di argento puro ed 1/6 di lega.
Il Ducato verrà diviso in cento centesimi o grani per i Napoletani e baiocchi per i Siciliani. Il centesimo, a sua volta, verrà diviso in decimi, chiamati a Napoli calli o cavalli e piccioli in Sicilia.
Ciascun grano sarà coniato in rame del peso di 140 acini, vale a dire grammi 6,237, stabilendosi che tali monete in rame saranno adoperate, come moneta di scambio, nelle piccole contrattazioni e che, comunque, il valore del suo numerario verrà garantito dallo Stato.
In oro saranno coniate le oncette del peso di grammi 3,786, alle quali sarà assegnato un valore corrente di tre Ducati; le doppie, pari a grammi18,933, per un valore corrente di quindici Ducati; le decuple, del peso di grammi 37,867, valevoli trenta Ducati.”
Oltre al grano si coniarono, in rame, il ½ grano, detto anche Tornese, i 2 grani e ½, detti Cinquina ed il 5 grani, coniato sia un rame che in argento.
Le monete in oro erano valutate secondo il loro peso, in rapporto al valore monetario in argento, poiché si ritenne l’oro un metallo non adatto a tradursi in moneta. Lo Stato assegnò alle monete in oro un valore corrente, corrispondente alla valutazione dell’oro in carati 23 e 904 millesimi. Su di esse il titolo ed il peso veniva segnato sul rovescio della moneta e per il loro cambio era permesso l’aggio.
L’ultima moneta d’oro coniata dalla Zecca di Napoli fu la preziosissima di 30 Ducati, di lega purissima e dall’alto valore intrinseco.
Era previsto che la Zecca di Napoli potesse coniare monete per conto di privati e di Stati esteri previa fornitura da questi di verghe di argento puro, convertite poi in monete aventi la caratteristica prevista dalla legge monetaria e cioè per un Ducato 36 grani e 5/10 di grano per ogni oncia di argento fino, con beneficio per la Zecca, sopra ogni piastra di 12 carlini del 2,75%; nel 1851 affluirono alla Zecca di Napoli un’enorme quantità di verghe in argento per la coniazione di monete estere, i cui Stati si servivano dei torchi Napoletani, data la loro pregevolissima fattura (lo stato del Regno Unito di Gran Bretagna, ogni qualvolta coniava una nuova moneta, la spediva alla Zecca di Napoli per farla apprezzare). La legge prevedeva che ai committenti venisse rilasciato dall’amministrazione della Zecca un certificato con cui si attestava la quantità di puro metallo depositato e l’ammontare della corrispondente moneta, poi, da consegnarsi. Questi certificati, se esibiti al Banco delle Due Sicilie, venivano, a vista, pagati con moneta Napoletana (il Reggente del Banco delle Due Sicilie era contemporaneamente anche Direttore della Zecca od Amministratore delle monete, il cui ufficio era alle dirette dipendenze del Ministero delle Finanze, con sede a Napoli in via Sant’Agostino alla Zecca). La moneta Napoletana divenne richiestissima su tutti i mercati d’Europa essendo ritenuta molto pregiata negli scambi internazionali, per cui fu necessario accelerarne la produzione della Divisa. Se fino al 1851 la produzione monetaria annuale della Zecca Napoletana s’era aggirata intorno al milione di Ducati, nel 1852 salì alla cifra iperbolica di 32.380.775 Ducati, contribuendo ad un notevole guadagno per la Zecca che, naturalmente, aveva dovuto provvedere anche all’aumento dei posti di lavoro. Grazie a ciò, aumentò la circolazione monetaria, i prezzi di mercato subirono un rialzo e calarono gli interessi; aumentò la proprietà privata (il danaro fu investito in immobili visto che divenne più semplice avere prestiti bancari a bassissimo interesse) ed accrebbero le attività industriali, col conseguente aumento dei posti di lavoro.
Oltre alle officine di monetazione, la Zecca possedeva una raffineria chimica per l’oro, gabinetti d’incisione e di garentia, mangani ed argani per i fili d’argento e d’argento dorato (diversi gabinetti di garentia erano dislocati nelle varie Provincie del Regno). Nel giugno del 1858 fu annessa alla Zecca una scuola per l’incisione in acciaio, prima in Italia e tra le prime in Europa, soprattutto per il suo altissimo e mai più eguagliato valore tecnico.
Con la fine del Regno la Zecca fu soppressa (anno 1870); le migliaia di persone che avevano da vivere dall’attività della Zecca si ritrovarono, da un giorno all’altro, senza più lavoro e furono costrette a dividere la sorte di milioni di loro compatrioti. Grazie alla “lungimiranza” del governo unitario fu distrutta un’istituzione che non ebbe mai più eguali al mondo e, per sovrapprezzo, non si è mai saputo dove sia andato a finire il suo immenso materiale e la sua stupenda collezione di coni (sicuramente avrà arricchito il patrimonio di qualche “padre della patria”, come quasi tutto ciò che di valore esisteva nel Regno delle Due Sicilie prima della calata dei sardo-piemontesi).

Cap. Umberto Schioppa