mercoledì 3 ottobre 2012

Biografie tratte dal volume "I grandi atleti del trono e dell'altare", del Barone Alessandro Augusto Monti della Corte (Vittorio Gatti Editore, Brescia 1929): Antonio de Rivarol, cavaliere dell'epigramma politico


Antoine de Rivarol (26 Giugno 1753 – 11 Aprile 1801)



ACCANTO al Conte Giuseppe de Maistre ed al Visconte Luigi de Bonald, Antonio Rivarol non è fuori di posto.
Meno erudito e meno cerebrale dei suoi due illustri compagni di fede ed anche meno noto, piuttosto uomo d'azione che di studio, egli ebbe tuttavia tutte le doti di un grande polemista ed un magnifico temperamento politico. In tempi diversi da quelli in cui visse — quando ai nemici della Bestia trionfante tutte le strade, fuorché quella dell’esilio, erano chiuse, e la follia giacobina imperversava in un truce, pauroso monologo, dinanzi a una platea terrorizzata — si sarebbe dì certo affermato come un capo-partito ed un tribuno. Ma, nato dopo la metà del secolo XVIII (precisamente nel 1754 a Bagnois in Linguadoca da una famiglia d'origine italiana) (1) fu preso nel vortice della Rivoluzione francese e non le sopravvisse.
Morì a Berlino nel 1801, incaricato d'affari del Re Cristianissimo Luigi XVIII, allora ramingo dall'una all'altra Corte d'Europa, e non ebbe la fortuna di assistere alla Restaurazione a cui, vivo, avrebbe probabilmente fornito un eccellente ministro.
Ad ogni modo, anche durante la sua troppo breve carriera, egli ebbe campo di rendere alla causa, a cui si era votato, un raro inestimabile servigio.
Fu il solo autorevole scrittore monarchico che, sfidando superbamente ogni pericolo, osasse commentare ora per ora, sul Journal Politique Nutional, del quale era il principale redattore, lo svolgimento degli avvenimenti rivoluzionari, controbattendo con una verve inestinguibile, finché non fu costretto ad emigrare, le gazzette e i libelli giacobini.
Egli ha il merito grande di averci tramandato la cronaca vera — non quella ad usum plebis! — degli Stati Generali e dell'Assemblea Costituente, ed una narrazione esatta e critica dei sanguinosi tumulti parigini, idealizzati e magnificati dagli storici dì parte repubblicana e liberale.
Con una causticità sbarazzina che avrebbe potuto costargli assai cara, ci ha lasciato, schizzata in pochi tratti, l’effige autentica degli idoli di Demos, spogliati dai veli della cortigianeria popolare.
La penna nella sua mano agilissima è, a volta a volta, un bisturi o una spada, che cerca e scopre il guasto dietro gli orpelli della leggenda settaria, ed infligge inguaribili ferite ai malvagi, ai felloni e ai disertori.
È lo spirito arguto e corrosivo del '700 francese; di gusto volteriano, ma posto al servizio dell'Ordine e della conservazione sociale. E tutto questo con una eleganza di stile ed una proprietà di linguaggio quali poteva possedere l’autore di un Dizionario della Lingua Francese, restato purtroppo incompleto, e concepito, in nome del buon gusto, con alti intendimenti filosofici.
Vorrei citare largamente il Rivarol, quasi sconosciuto in Italia, ma basterà ch'io traduca tre pagine, fra le moltissime sue magistrali.
Una è quella con cui chiude il racconto della giornata del 14 Luglio, e in cui rimette le cose al loro posto, togliendo allo strombazzato episodio della presa della Bastiglia — decantato da tanti come un magnifico esempio di valor popolano — ogni elemento di grandiosità.
Mi attengo fedelmente al testo originale:
"Non sarà forse inutile osservare, ai fini della Storia, che il Governatore della Bastiglia non volle far tirare il cannone sul popolo che si avviava numeroso verso l'Arsenale, per tema di danneggiare una villetta che egli sì era fatta costruire da quelle parti e a cui teneva molto. E non è meno notevole il fatto, che in quello stesso momento Monsieur de Bezenval, generale degli Svizzeri, si nascondeva per non essere costretto a dar ordini, e lasciava invadere il Palazzo degli Invalidi, per paura che aggravandosi la sommossa, venisse saccheggiata la sua casa, che era vicina e nella quale egli aveva da poco fatto dipingere tutto un appartamento, con certi elegantissimi bagni....".
"Ecco da quali uomini era servito il Re!".
"A ciò si riduce questa presa della Bastiglia, tanto celebrata dalla plebe di Parigi. Pochissimo rischio, molta ferocia da parte sua, ed una imperdonabile imprevidenza di Monsieur de Launay (il governatore): ecco tutto. Non fu, in una parola, che una semplice presa di possesso".
"La plebaglia, ubriaca di orgoglio e di rabbia, portò in trionfo non so qual disertore delle Guardie Francesi, che si era gettato per primo sul ponte levatoio della Bastiglia: gli diedero una croce dì S. Luigi e un gran cordone e lo condussero a spasso, così decorato, fino al Palais Royal dove era esposta la testa del povero De Launay".
"Lo credereste? Alcuni deputati del Terzo Stato, nemici nati di tutto quel ch'è 'nascita', 'nobiltà', 'decorazione', trovarono che quella Guardia Francese aveva 'l’aria di un uomo di qualità'!!!".
"Bisogna veramente che la nobiltà sia per i borghesi una specie di idea innata, o almeno il primo ed il più potente dei pregiudizi...."
(Journal politique national; serie Ia, n. VII)
Un'altra bellissima pagina polemica, tutta pervasa di una dolorosa ironia, è quella dedicata alla famosa notte del 4 Agosto nella quale i nobili, esaltati e storditi dalle declamazioni di qualche transfuga illustre, cedendo all’influenza dell'ambiente, commisero la insigne follia di rinunziare, senz'esservi costretti, ai privilegi legittimi dell’ordine patrizio, per scendere a mischiarsi nella folla, rinnegando se stessi e la Storia:
"Fu nella notte del 4 che i demagoghi della nobiltà, stanchi per una lunga discussione sui Diritti dell'Uomo ed impazienti di dimostrare il proprio zelo, si alzarono tutti insieme, per chiedere a gran voce la fine del regime feudale....".
"Tale proposta elettrizzò l'Assemblea".
"Fu fatta una divisione sommaria delle ultime vestigia del regime stesso in diritti personali e diritti reali, quali restavano ancora ai proprietari dei feudi. Si abolirono tutti i diritti personali senza indennità, si dichiararono riscattabili tutti i diritti reali, e fra questi si abolirono (sempre senza indennità) tutti quelli che in passato erano stati personali e dai quali i vassalli si erano liberati contro pagamento, il che riduceva di colpo alla mendicità una quantità di proprietari, ed annullava il diritto acquisito in virtù di prescrizione, sacro in una materia in cui non ve n'è altri! Si soppressero pure le giurisdizioni feudali, il diritto di caccia, la venalità delle cariche, il casuale dei parroci, le esenzioni fiscali, le immunità delle provincie e delle città. Fu deciso il riscatto di tutte le rendite e delle 'regalie'; l’ammissibilità a tutti gli impieghi senza distinzioni di nascita; fu proibita la pluralità dei benefìci ecclesiastici; si domandò il rendiconto delle pensioni regie; si soppressero insieme le annualità e le decime. Finalmente si decretò che una medaglia fosse coniata in memoria di tante grandi deliberazioni prese per la felicità della Francia; si proclamò che tutti senza dubbio si sarebbero compiaciuti di tanti sacrifici fatti alla libertà francese; che Luigi XVI sarebbe stato chiamato 'Restauratore', che si sarebbe cantato un Te Deum nella sua cappella, e che Egli vi avrebbe assistito.... "
"Tutti avevano perduto la testa. I cadetti di buona famiglia erano felici di potere immolare i loro fratelli maggiori sull'altare della patria, i curati di campagna non provavano minore voluttà nel rinunziare ai benefìci altrui; ma ciò che i posteri stenteranno a credere è che lo stesso pazzo entusiasmo finì col conquistare tutta la nobiltà: sì che lo zelo prese la via del dispetto, si aggiunse sacrificio a sacrificio: ed allo stesso modo che fra i Giapponesi l'onore insegna a suicidarsi in pubblico, i deputati della nobiltà, picchiarono dei gran colpi su sé stessi e insieme sui propri mandanti. Il popolo, che assisteva alla nobile gara aumentava con le sue grida l'ebbrezza dei suoi nuovi alleati: e i deputati borghesi, poiché quella notte famosa offriva loro soltanto profitto senza onore, consolarono il proprio amor proprio ammirando quello che può fare la nobiltà, innestata sul Terzo Stato. Hanno chiamato quella notte 'la notte dei gonzi' (La nuit dea dupes): i nobili la dissero 'la notte dei sacrifici'....".
(Journal politique national, serie Ia, n. I).
Magnifica di chiarezza e di efficacia è la critica della famigerata "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo", compendio di tutti gli errori enunciati e diffusi dal 'Contratto Sociale' del paranoico Rousseau. L'assurdità del giusnaturalismo e la fallacia dell'utopia egualitaria, vi sono dimostrate, chirurgicamente, con una argomentazione inconfutabile:
"L'Assemblea volle accrescere il folle entusiasmo del popolo passando sopra ai costumi ed ai diritti più antichi, e considerando le cose 'dall'alto'; quasi assistesse alla creazione del mondo".
"Per realizzare senza ostacoli un così glorioso destino gli Stati Generali si chiamarono a volte 'rappresentanti della Francia', a volte, 'la Francia' senz'altro, a volte 'l'Assemblea nazionale' e a volte 'la Nazione', tenendo conto dei propri mandati od ignorandoli, a seconda dei casi".
"E anzitutto, in luogo della Costituzione di cui la Francia aveva un così urgente bisogno, essi annunziarono solennemente che avrebbero cominciato col fare una 'dichiarazione dei diritti dell'uomo'; cioè, prima di darci un libro necessario, vollero dettargli una prefazione pericolosa".
"Essi, considerandosi, nella loro casa di legno, come in una specie di Arca di Noè, si persuasero che la terra appartiene al suo primo occupante, e che essi potevano pertanto distribuirla ad un nuovo genere umano. Dichiararono dunque, in faccia all'Universo, che tutti gli uomini 'nascono e restano liberi' che 'un uomo non può essere superiore a un altro uomo'; e cento altre scoperte dello stesso genere, che essi erano orgogliosi di rivelare al mondo per i primi, ridendosi filosoficamente dell'Inghilterra che non aveva saputo cominciare come loro, quando nel 1688 si era voluta dare una Costituzione".
"Ma la gioia dei nostri deputati fu di breve durata".
"Ci fu ben presto chi cominciò a chiedersi qual era questo nuovo sistema di governare i popoli con le teorie e le astrazioni metafisiche, senza tenere alcun conto della pratica e della esperienza, confondendo l'uomo assolutamente selvaggio con l'uomo sociale, e l'indipendenza naturale con la libertà civile. Dire che tutti gli uomini nascono e restano liberi, è come dire infatti che essi nascono e restano nudi! Ma gli uomini nascono indipendenti e vivono sottomessi alle leggi. Anche le vesti intralciano un poco i movimenti del corpo, ma lo proteggono contro le intemperie; le leggi ostacolano le passioni, ma difendono l'onore, la vita ed i beni. Così per intendersi, si sarebbe dovuto distinguere fra libertà e indipendenza: la libertà consiste nell’obbedire soltanto alle leggi, ma in tale definizione c'è la parola 'obbedire' mentre per essere veramente indipendenti, bisognerebbe vivere nei boschi, senza obbedire alle leggi e senza riconoscere alcun freno. Apparve quindi strano e pericoloso che l'Assemblea Nazionale avesse redatto il codice dei selvaggi e sancite delle massime favorevoli all'egoismo e a tutte le passioni antisociali. I negri, nelle colonie, e i servitori, nelle nostre case possono — con la 'Dichiarazione dei diritti' alla mano — privarci delle nostre eredità" .
"Com'è possibile che un'Assemblea di legislatori abbia finto di ignorare che il diritto di natura non può coesistere neppure un momento con il diritto di proprietà? Dal giorno in cui l'uomo si rese padrone di un campo con il proprio lavoro, egli cessò di vivere allo stato di natura".
(Journal politique national, serie Ia n. XVI).
Si potrebbero moltiplicare queste citazioni che, meglio di ogni chiosa, valgono a dar la misura del vivacissimo ingegno e delle insigni qualità letterarie del grande giornalista reazionario. Ma i brani da me riportati potranno servire come saggio della sua inesauribile vena. Lo dissero "il San Giorgio dell'epigramma politico" e mai definizione fu più giusta e appropriata.


(1) Discendeva infatti da un Giovanni Rivaroli. novarese, sia ufficiale nel Ducato di Milano, trasferitosi in Francia al principio del '600, e fondava le sue pretese nobiliari su di una incerta remota parentela col casato patrizio e marchionale dei Rivarola di Genova. Comunque la famiglia era assai povera e se il giovane Antonio poté compire i suoi studi in Avignone, lo dovette alla protezione di quel Vescovo che avendone apprezzato il vivacissimo ingegno, lo tenne in Seminario a proprie spese. (n. d. r.).