martedì 4 settembre 2012

Sodalitium n° 53, dicembre 2001 Il caso Rosmini: l’“in proprio Auctoris sensu” contro “una furbesca distinzione” del card. Ratzinger

Narra Mons. Benigni nella sua Storia sociale della Chiesa a proposito degli ariani: “Il gruppo in cui spiccava l’esiliato Eusebio di Nicomedia (donde il gruppo fu chiamato degli eusebiani) ritrattava la sottoscrizione non alla dottrina di Nicea, ma alla condanna di Ario: cioè pretendeva che la dottrina ariana non era quella condannata dal Concilio. Questa furbesca distinzione fece scuola: e se ne ebbe, fra tanti, il noto esempio delle distinzioni gianseniste nelle condanne papali della dottrine del vescovo d’Ipri(1).
Le note storiche del “Denzinger” spiegano l’episodio al quale Mons. Benigni fa allusione: “dopo che erano state condannate le cinque proposizioni di Giansenio, i suoi seguaci distinsero, sotto la guida di Antoine Arnauld, tra la ‘quaestio facti’e la ‘quaestio iuris’: la condanna avrebbe colpito solo un’eresia fittizia, non la vera concezione di Giansenio(2). Papa Alessandro VII dovette allora, con la Costituzione Ad sanctam beati Petri sedem (16 ottobre 1656), confutare la “furbesca distinzione”: “Dato che… alcuni figli dell’iniquità non hanno paura di affermare, con grave scandalo dei fedeli cristiani, che le cinque proposizioni (…) o non si trovano nel suddetto libro dello stesso Cornelius Jansen, e sono state invece composte in modo falso e arbitrario, o che sono state condannate non nel senso inteso dallo stesso, Noi (…) dichiariamo e definiamo che quelle cinque proposizioni sono state estratte dal libro di Cornelius Jansen, vescovo di Ypres, prima menzionato, il cui titolo è‘Augustinus’, e che sono state condannate nel senso inteso dallo stesso Cornelius Jansen” (“in sensu ab eodem Cornelio Jansenio intento”, DS 2011-2012).


Papa Alessandro VII condannò “la furbesca distinzione” dei giansenisti.
Papa Alessandro VII condannò “la furbesca distinzione” dei giansenisti.
 
 
Questa Costituzione di Alessandro VII dimostra come la Chiesa abbia l’autorità di definire non solo che la dottrina di un tale autore è erronea, ma anche che essa è stata effettivamente sostenuta da quell’autore nel senso che la Chiesa gli ha attribuito; al contrario, l’esempio degli ariani prima e dei giansenisti poi dimostra a sua volta che il negare che una dottrina condannata dalla Chiesa sia stata realmente sostenuta dal suo autore è una scappatoia tipica degli eretici.

Una vecchia scappatoia tornata d’attualità

Nihil novi sub sole… la vecchia scappatoia utilizzata nel passato dagli ariani e dai giansenisti (tra gli altri), è divenuta quanto mai attuale con il Vaticano II e il “magistero”successivo. Da un lato infatti, il Vaticano II ha sostenuto – su svariati punti – una dottrina e una prassi contrarie alla dottrina e alla prassi della Chiesa. D’altra parte, non è possibile ai sostenitori del Vaticano II ammettere esplicitamente l’esistenza di questa contraddizione e la realtà di questa rottura senza rinunciare a ogni legittimità. Il problema principale, quindi, dei sostenitori della nuova dottrina e prassi conciliare consiste nel portare avanti una nuova dottrina senza rinnegare esplicitamente il passato. Per quel che riguarda la prassi, più legata al contingente, la tattica prescelta è quella dei “mea culpa”, ovvero delle incessanti richieste di perdono grazie alle quali si può denunciare tutto il passato della Chiesa. La scappatoia utilizzata è quella di chiedere perdono non per le “colpe della Chiesa”, ma per le colpe “dei figli della Chiesa” (come se, in molti casi, questi “figli della Chiesa” non avessero agito nella veste di somma autorità della Chiesa).
Per quel che riguarda la dottrina ufficiale, le cose sono più difficili (anche se meno evidenti). Si è pensato di relativizzare i documenti del passato, diminuendone l’autorità (non infallibili, anzi solo prudenziali) e storicizzandoli (validi solo per una data epoca e un determinato contesto) ecc.
Questa tattica è stata utilizzata, come vedremo, anche nel caso che prendiamo qui in considerazione.
Un’altra tattica è quella di affermare che il passato magistero della Chiesa – sempre valido, per carità! – non ha più oggigiorno alcuna portata: gli anatemi solenni del Concilio di Trento sulla giustificazione, ad esempio, colpirebbero dei protestanti immaginari,o perlomeno dei protestanti defunti, poiché i protestanti di oggi non sosterrebbero più la dottrina condannata. Si tratta di una sottile variazione della scappatoia arianogiansenista di cui sopra. Nel caso che prendiamo
qui in esame, la scappatoia invece è ripresa tale e quale, come vedremo…

Riabilitare Rosmini, et ultra…

In questo contesto, appare scontata la necessità di riabilitare Rosmini, condannato post mortem, nel 1887, col Decreto del Sant’Uffizio Post obitum. Il sacerdote roveretano è innanzitutto un esimio rappresentante del pensiero cattolico liberale, che il Vaticano II ha fatto suo (come ha ammesso lo stesso card. Ratzinger). Di più, fu una “vittima” – congiuntamente –del Sant’Uffizio e della filosofia e teologia tomista, vittime a loro volta del Vaticano II. Un “mea culpa” sul caso Rosmini non poteva mancare, e persino di più. Un nuovo metodo per affossare il passato della Chiesa senza darlo a vedere è infatti quello delle beatificazioni e delle canonizzazioni di personaggi un tempo
osteggiati; già Giovanni XXIII volle e fortissimamente volle la beatificazione del card. Ferrari per gettare ombra sulla santità di san Pio X. La canonizzazione prevista di Rosmini offuscherà vieppiù la Chiesa “pre-concilare”, e darà ai liberali un nuovo patrono.

Una “Nota” della Congregazione per la Dottrina della Fede“riabilita” Rosmini e apre la via alla sua “beatificazione”

Il 1 luglio 2001 il cardinal Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, e Mons. Bertone, segretario della medesima, hanno sottoscritto una Nota “sul valore dei decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do sacerdote Antonio Rosmini Serbati”.
La Nota, come ricorda la Postulazione del Rosmini “risponde all’elaborato presentato dal Postulatore Generale nel dicembre 1999 allo scopo di chiarire la‘questione rosminiana’ (con riferimento particolare al ‘Post obitum’)come richiesto nel decreto del 22 febbraio 1994 quando l’allora Prefetto della Congregazione per le cause dei santi rilasciava il ‘non ostare’ da parte della Santa Sede all’inizio della Causa di Beatificazione del Servo di Dio Antonio Rosmini. Il citato decreto stabiliva che ‘…la Congregazione per la Dottrina per la Fede doveva essere interpellata di nuovo circa il giudizio dottrinale definitivo in proposito’” (3).
La risposta positiva della Congregazione per la Dottrina della Fede appariva comunque scontata dopo che nello stesso anno 1999 Giovanni Paolo II aveva pubblicato l’enciclica Fides et ratio, nella quale Rosmini veniva “annoverato tra i pensatori più recenti nei quali si realizza un fecondo incontro tra sapere filosofico e Parola di Dio”. Giovanni Paolo II deve pertanto essere considerato responsabile di questa riabilitazione di Rosmini, sia per averla sollecitata con l’enciclica Fides et ratio, sia per aver personalmente approvato la Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede (4).
La riabilitazione era dunque necessaria; ma come attuarla?

La “furbesca distinzione” riesumata per riabilitare Rosmini ed affossare – senza dirlo – il magistero della Chiesa

A questo punto, chiediamo al lettore di ricordare quanto scritto all’inizio di questo articolo, essere cioè tattica degli eretici, per togliere valore a un decreto di condanna della Chiesa, affermare che questo decreto condanna una eresia fittizia, immaginaria, mai sostenuta in realtà dall’autore al quale è attribuita questa dottrina. Non altrimenti si è comportata la Congregazione per la Dottrina della Fede… Ecco infatti l’argomento essenziale della Nota, espresso ai numeri 6 e 7 del documento:
D’altra parte si deve riconoscere che una diffusa, seria e rigorosa letteratura scientifica sul pensiero di Antonio Rosmini, espressa in campo cattolico da teologi e filosofi appartenenti a varie scuole di pensiero, ha mostrato che tali interpretazioni contrarie alla fede e alla dottrina cattolica non corrispondono in realtà all’autentica posizione del Roveretano. La Congregazione per la Dottrina della Fede, a seguito di un approfondito esame dei due Decreti dottrinali promulgati nel secolo XIX, e tenendo presenti i risultati emergenti dalla storiografia e dalla ricerca scientifica teoretica degli ultimi decenni, è pervenuta alla seguente conclusione:
Si possono attualmente considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali che hanno determinato la promulgazione del Decreto ‘Post obitum’ di condanna delle ‘Quaranta Proposizioni’ tratte dalle opere di Antonio Rosmini. E ciò a motivo del fatto che il senso delle proposizioni, così inteso e condannato dal medesimo Decreto, non appartiene in realtà all’autentica posizione di Rosmini, ma a possibili conclusioni della lettura delle sue opere”.
Ecco il succo della Nota su Rosmini: le 40 proposizioni furono condannate perché intese “in un’ottica idealista, ontologista e con un significato contrario alla fede e alla dottrina cattolica” (n. 7). Ma, in realtà, non era questo il pensiero dell’autore, Antonio Rosmini Serbati.

Il decreto di condanna di Rosmini afferma il contrario di quanto sostiene la Nota di riabilitazione, la quale contraddice pertanto il magistero della Chiesa

Ma veramente il Sant’Uffizio – sollecitato e approvato da Leone XIII– condannò 40 tesi estratte dalle opere di Rosmini senza impegnare la sua autorità anche sul fatto che dette tesi rispecchiano il pensiero di Rosmini?
Ricordiamo al lettore che, in base alla precitata Costituzione Ad Sanctam di Alessandro VII, è certo che la Chiesa può non solo condannare delle proposizioni, ma anche definire che dette proposizioni sono realmente contenute in tal opera, e persino che dette proposizioni siano condannate nel senso inteso dall’autore. L’autorità della Chiesa, impegnata in un decreto di questo genere, si estende anche a questo fatto: che le tesi condannate siano state condannate proprio e precisamente nel senso inteso e voluto dall’autore, e non nel senso attribuitogli da terze persone o dalla Chiesa.
Ora, ecco le parole del famoso decreto Post obitum definito “sorpassato” dalla Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede:


Il Ssmo S.N. Leone per divina provvidenza Papa XIII, a cui sopra tutto è a cuore, che il deposito della dottrina cattolica si conservi puro e immune da errori, diè incarico di esaminare le denunziate proposizioni al Sacro consiglio degli Eminentissimi Cardinali, Inquisitori generali in tutta la repubblica cristiana. Pertanto, come è costume della Suprema Congregazione, impreso un esame diligentissimo, e fatto il confronto di quelle proposizioni con le altre dottrine dell’Autore, massimamente che risultano chiare dai libri postumi; giudicò doversi riprovare, condannare, nel proprio senso dell’Autore, come di fatto con questo generale decreto riprova, condanna e proscrive, le seguenti proposizioni: senza che, per questo, sia lecito a chicchessia di inferire, che le altre dottrine del medesimo Autore, che non vengono condannate per questo decreto, siano per veruna guisa approvate. Fatta di poi di tutto ciò accurata relazione al Ssmo S.N. Leone XIII, la S.S. approvò, confermò il decreto degli E.mi Padri, ed ingiunse che fosse da tutti osservato(5).


Il cardinal Ratzinger
Il cardinal Ratzinger

 
Risulta evidente dal passo citato che le 40 proposizioni del Rosmini furono condannate non solo in sé stesse (o nel senso che le venne dato “al di fuori del contesto di pensiero rosminiano, in un’ottica idealista, ontologista e con un significato contrario alla fede e alla dottrina cattolica”, come afferma la Nota, al n. 7) ma “in proprio Auctoris sensu, nel proprio senso dell’Autore”. La formula è la stessa usata nel 1656 per ribadire che le tesi di Giansenio erano state condannate “nel senso inteso dallo stesso, in sensu ab eodem… intento(6).
La contraddizione tra un testo indiscusso del magistero ecclesiastico approvato da Papa Leone XIII, e la Nota del card. Ratzinger approvata da Giovanni Paolo II è assolutamente evidente ed innegabile.

Vano tentativo di negare la contraddizione invocando il precedente della ‘dimissione’ delle opere rosminiane nel 1854

a) l’influenza dei fattori culturali
La Nota della Congregazione per la Dottrina per la Fede ricorda (a modo suo, come vedremo) i precedenti riguardanti la “questione rosminiana”. “Il Magistero della Chiesa (…) a più riprese si è interessato nel secolo XIX ai risultati del lavoro intellettuale del Rev.do Sacerdote Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), ponendo all’Indice due sue operenel 1849, dimettendo poi dall’esame, con Decreto dottrinale della Sacra Congregazione dell’Indice, l’opera omnia nel 1854 e, successivamente, condannandonel 1887 quaranta proposizioni, tratte dalle opere prevalentemente postume e da altre opere edite in vita, col Decreto dottrinale, denominato ‘Post obitum’, della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio (Denz 3201-3241). Una lettura approssimativa e superficiale di questi diversi interventi potrebbe far pensare ad una intrinseca e oggettiva contraddizione da parte del Magistero nell’interpretare i contenuti del pensiero rosminiano e nel valutarli di fronte al Popolo di Dio”(n. 1 e 2). Infatti, secondo la versione presentata dalla Nota, “il Decreto del 1854, con cui vennero dimesse le opere del Rosmini, attesta il riconoscimento dell’ortodossia del suo pensiero e delle sue intenzioni dichiarate…”. Effettivamente, se un Decreto del 1854 avesse attestato l’ortodossia del pensiero di Rosmini, mentre un Decreto del 1887 ne avesse condannato 40 proposizioni (come ci vuol far credere la Nota), risulta difficile negare una qualche contraddizione “intrinseca e oggettiva”, e ciò proprio nel Magistero più “tradizionale”!
La Nota, che nega questa contraddizione per poter sostenere di non contraddire essa stessa il decreto di condanna del 1887 (“in questa stessa linea si colloca la presente Nota sul valore dottrinale dei suddetti Decreti” n. 2), si compiace quasi di segnalare una presunta incertezza della Chiesa che nel 1854 attesta l’ortodossia del pensiero di Rosmini, e nel
1887 ne attesta l’eterodossia. Come spiegare questa apparente contraddizione? La Nota la spiega ‘modernisticamente’: “una lettura attenta non solo dei testi bensì anche del contesto e della situazione in cui sono stati promulgati”(n.2) permetterà a Ratzinger di spiegare la “contraddizione” da lui inventata: la condanna del 1887 è dovuta ai mutati “fattori di ordine storico-culturali”(n. 4), e cioè alla rinascita del tomismo voluta da Leone XIII. Così, una condanna di ordine dottrinale diventa solo più una questione tra diverse scuole teologiche; l’attuale fine del neo-tomismo spiega come delle tesi percepite come erronee allora, non lo siano più oggigiorno. La Nota storicizza e quindi relativizza il Magistero, con una operazione che si potrebbe applicare a qualunque testo del Magistero –anche al più solenne - che diverrebbe così, per i mutati “fattori di ordine storico-culturali”ormai “sorpassato(7).
b) omissioni e falsificazioni a proposito del Decreto del 1854
Se la “contraddizione” tra i due Decreti (quello sotto Pio IX del 1854 e quello sotto Leone XIII del 1887) non si risolve con la fumosa spiegazione del contesto culturale, come potrà risolversi? Dovremo forse ammettere – coi più scalmanati sostenitori del Rosmini nel secolo scorso – che la contraddizione esiste e che Leone XIII… non era Papa!? (8).
Nulla di tutto ciò. In realtà, è la Nota del cardinal Ratzinger che– con omissioni e falsificazioni – pone un problema inesistente al lettore.
La falsificazione è la seguente: affermare che il Decreto del 1854 aveva riconosciuto l’ortodossia del pensiero di Rosmini. L’omissione consiste nel non parlare minimamente di quei documenti del Magistero che negano esplicitamente questa falsa interpretazione.
Un po’ di storia chiarirà le idee al lettore. Dopo la messa all’Indice di due opere del Rosmini nel 1849, molti cattolici denunciarono alla Congregazione dell’Indice l’opera omnia di questo autore, fino ad allora edita. “Dopo che per tre anni i censori incaricati ebbero esaminato le sue opere, i cardinali nella seduta del 3 luglio 1854, presieduta da Pio IX, stabilirono che venissero dimesse dall’esame (‘dimittantur’)(9). Ma quale interpretazione dare a questa formula? “Mentre gli amici di Rosmini e il teologo del Papa interpretavano la decisione dei cardinali come un’indiretta approvazione, la Civiltà Cattolica e l’Osservatore Romano ne smentivano un’approvazione, interpretando il giudizio solo nel senso che le opere di Rosmini non erano state proibite” (9). La Sacra Congregazione dell’Indice, la stessa che aveva “dimesso”(assolto) le opere di Rosmini nel 1854, dovette allora – costretta dalle false interpretazioni dei Rosminiani – intervenire una prima volta il 21 giugno 1880 (e di questo decreto non fa menzione la Nota del card. Ratzinger): “La Sacra Congregazione dell’Indice… ha dichiarato che la formula dimittantur significa soltanto che l’opera dimessa non viene proibita(10). Essa dava pertanto ragione agli avversari di Rosmini, e torto ai suoi discepoli. Ma questi ultimi insistettero. “Il dissidio –scrisse la Civiltà Cattolica – non cessò, mercecchè i seguaci di Rosmini intesero quel non prohiberi [non viene proibita] così, che a cagione del loro merito certamente conosciuto, e della conosciuta loro ortodossia, non potevonsi proibire, e che quindi nulla in esse potevano i filosofi e i teologi censurare filosoficamente e teologicamente(11). Non è questa la tesi del card. Ratzinger: il decreto del 1854 garantì l’ortodossia delle opere rosminiane? Ma la loro pretesa, e oggi quella del card. Ratzinger e della sua Nota, venne smentita ancora dalla Congregazione dell’Indice alla quale vennero posti i seguenti quesiti:
1. I libri denunciati alla Sacra Congregazione dell’Indice e dalla stessa dimessi o non proibiti, debbono essere ritenuti immuni da ogni errore contro la fede e i costumi?
2. Nel caso di risposta negativa, i libri dimessi o non proibiti dalla Sacra Congregazione dell’Indice, possono, sia sul piano filosofico che su quello teologico, essere criticati senza taccia di temerità?”
Il 5 dicembre 1881 la Congregazione dell’Indice rispose negativamente al primo quesito (i libri dimessi non sono quindi necessariamente immuni da ogni errore contro la fede e i costumi) e affermativamente al secondo (si potevano quindi criticare dette opere senza temerità, senza contrastare cioè il decreto del 1854). Il Papa Leone XIII approvò questa risposta il 28 dicembre (12).
Anche di questa seconda decisione della Congregazione dell’Indice non c’è traccia nella Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede, che pure afferma di aver svolto un “approfondito esame”. Il motivo è evidente: fare riferimento a questi due decreti significa distruggere totalmente la falsa interpretazione che si voleva dare del decreto del 1854: esso non “attesta il riconoscimento dell’ortodossia del suo [di Rosmini] pensiero e delle sue intenzioni”(n. 2), come vuol far credere la nota, ma concede solamente un’assoluzione “per insufficienza di prove” al roveretano (13).
Ne segue che tra i due Decreti, quello del 1854 e quello del 1887, non c’è neppure un’apparenza di intrinseca e oggettiva contraddizione, come vorrebbe far credere la Nota: “sotto Pio IX – scriveva ai suoi tempi la Civiltà Cattolica – si definì che nelle opere anche dimesse del Rosmini ci potevano essere proposizioni condannabili, perché contrarie a fede e a costumi, e che sotto Leone XIII si definì che ci erano di fatto. Quale contraddizione c’è se altri dice può piovere e poscia dice piove di fatto? L’esistenza di una cosa non si oppone alla sua possibilità, ma l’inchiude” (l.c., p. 274).

Per la Nota, la colpa della condanna del 1887 sarebbe del neotomismo. Ma l’avversione alla Scolastica è un segno distintivo del modernismo



Antonio Rosmini Serbati
Antonio Rosmini Serbati


Secondo la Nota, abbiamo visto, il Decreto del 1887 di fatto errò nell’attribuire al Rosmini degli errori che egli non professava: “il senso delle proposizioni, così inteso e condannato dal medesimo Decreto, non appartiene in realtà all’autentica posizione di Rosmini” (n. 7). Ora, a cosa si deve questo presunto errore? Per la Nota, il “primo fattore” di “ordine storico-culturale” che “pose le premesse per un giudizio negativo nei confronti di una posizione filosofica e speculativa, quale quella rosminiana” fu il “progetto di rinnovamento degli studi ecclesiastici promosso dall’Enciclica Æterni Patris (1879) di Leone XIII, nella linea della fedeltà al pensiero di San Tommaso d’Aquino”.Il secondo fattore fu la difficoltà di capire il pensiero del Rosmini ormai defunto, da parte di chi lo leggeva “nella prospettiva neotomista” (n. 4). Non c’è dubbio che la condanna di Rosmini maturò nel clima della restaurazione della teologia scolastica e tomista promossa da Leone XIII… Ma ci chiediamo: che valore hanno, per gli estensori della Nota e per Giovanni Paolo II che l’ha approvata, i numerosissimi documenti del Magistero a favore della scolastica e della dottrina di san Tommaso? (14). Supponiamo che anch’essi, come il Decreto Post Obitum, siano da considerare“sorpassati”, giacché la Nota non sembra dar loro valore dottrinale e disciplinare per il tempo presente (altrimenti, i princìpi tomisti che portarono alla condanna del Rosmini nel 1887 avrebbero portato di nuovo alla sua condanna nel 2001). La cosa è particolarmente grave perchè la Chiesa non ha raccomandato la scolastica ed il tomismo “soprattutto (…) contro il rischio dell’eclettismo filosofico”, come afferma la Nota (n. 4), ma anche e specialmente contro gli errori moderni, proclamando che il discostarsi da esse causa grave detrimento e pericolo per la Fede (14). La filosofia scolastica e la dottrina tomista sono ostacolo principalmente al modernismo, come lo ricorda San Pio X nell’Enciclica Pascendi: “degli ostacoli, tre sono i principali che più sentono opposti ai loro sforzi: la filosofia scolastica, l’autorità dei Padri con la tradizione, il magistero ecclesiastico. Contro tutto questo la loro lotta è accanita. (…) è certo che la smania di novità va sempre in essi congiunta con l’odio della Scolastica; né vi è indizio più manifesto che taluno cominci a volgere al modernismo, che quando cominci ad aborrire la scolastica…”. La Nota in un sol colpo dichiara “sorpassati” i tre ostacoli al modernismo: scolastica, tradizione e magistero.

Altre inesattezze della Nota

Abbiamo esposto fin qui i più gravi errori della Nota sul Rosmini. Non mancano però altri appunti: vediamone due.
a) Il Decreto del 1887 avrebbe solo espresso preoccupazione!
L’imbarazzo della Nota traspare anche dal tentativo di minimizzare la condanna (pur riconosciuta come tale) del 1887. Essa viene presentata come “una presa di distanza”(n. 4), un “giudizio negativo”(n. 4), esprimente “reali preoccupazioni del magistero” (n. 5) e “motivi di preoccupazione e difficoltà dottrinali e prudenziali” (n. 7). In particolare, si afferma che “la coerenza profonda del giudizio del Magistero nei suoi diversi interventi in materia è verificata dal fatto che lo stesso Decreto dottrinale Post obitum non si riferisce al giudizio sulla negazione formale di verità di fede da parte dell’autore, ma piuttosto al fatto che il sistema filosofico-teologico del Rosmini era ritenuto insufficiente e inadeguato a custodire ed esporre alcune verità della dottrina cattolica, pur riconosciute e confessate dall’autore stesso” (n. 5). Se si legge il Decreto Post obitum, però, non si trova nulla di tutto ciò. Se non viene detto esplicitamente (ma neppure escluso) che le proposizioni condannate sono eretiche, vien però detto che esse non sono conformi alla verità cattolica, e in quanto tali condannate, proscritte e riprovate: non c’è traccia di insufficienza, inadeguatezza o di semplici difficoltà dottrinali, e ancor meno prudenziali. Come la Nota aumenta esageratamente il valore della “dimissione” delle opere fatta nel 1854, spacciandola per un attestato di ortodossia, così essa diminuisce la portata della condanna del 1887, travestendola da semplice preoccupazione prudenziale per una dottrina insufficiente, il che non denota certo onestà intellettuale…
b) Le interpretazioni eterodosse del pensiero rosminiano sarebbero da attribuirsi ai non cattolici


Rosmini fu condannato nel 1887 sotto papa Leone XIII
Rosmini fu condannato nel 1887 sotto papa Leone XIII


Sempre per diminuire la gravità degli errori di Rosmini e della loro condanna, la Nota attribuisce le “errate e devianti interpretazioni del pensiero rosminiano in contrasto con la fede cattolica” “in chiave idealistica, ontologistica e soggettivistica” a “pensatori non cattolici” e ai “settori intellettuali della cultura filosofica laicista, segnata sia dall’idealismo trascendentale, sia dall’idealismo logico e ontologico” (n. 5). Ma chi scrisse e pubblicò nel 1881 – coll’approvazione del Maestro del sacro Palazzo –il libro Il Rosminianesimo sintesi del Panteismo e dell’Ontologismo era un autore cattolico o un autore non cattolico? Possibile che cattolici e non cattolici si ingannassero tutti nel considerare eterodosso il pensiero di Rosmini?

Le ambiguità del Rosmini, o come indorare la pillola

La Nota, è vero, ammette che il pensierodi Rosmini contiene ambiguità ed equivoci. Se si crede a quanto detto, come si può prospettare la canonizzazione di un pensatore che si mantenne ambiguo ed equivoco nella Fede? Si può temere pertanto che queste concessioni (il pensiero di Rosmini contiene ambiguità) siano state fatte per“indorare la pillola” e verranno ben presto dimenticate e ulteriormente“sorpassate”, mentre nella memoria resterà la riabilitazione e la beatificazione prossima ventura di Rosmini.

Conclusione: un documento apparentemente “minore”, in realtà grave ed emblematico

Si può pensare che ci siamo fin qui occupati di una questione minore, perdendo il nostro tempo. Rosmini non era un empio, ma un pio sacerdote; ben altri e ben più gravi sono gli errori che ci vengono incessantemente propinati che non la riabilitazione del Rosmini. È vero, vi sono fatti e documenti in sé più gravi e scandalosi; ma – pur sembrando un documento minore – la Nota è pur sempre una realtà grave ed emblematica del progressivo e subdolo annullamento del magistero della Chiesa. Dopo il Decreto Post obitum, quale sarà la prossima vittima dell’aggiornamento?


NOTE:

1) Mons. UMBERTO BENIGNI, Storia sociale della Chiesa, vol. II, tomo I, p.216, Vallardi, Milano, 1912.
2) Heinrich Denzinger, Enchiridion Symbolorum…, edizione bilingue a cura di Peter Hüenermann, EDB, Bologna, III ed. 2000, p. 792.
3)Le difficoltà dottrinali circa gli scritti del nostro Padre Fondatore si possono considerare superate”,lettera della Postulazione della Causa di Beatificazione del Rosmini datata 1 luglio 2001, sottoscritta dal Preposito generale dell’Istituto della Carità, dalla Superiora generale delle Suore della Provvidenza, dal Postulatore Generale e dal Vice Postulatore della Causa.
4)Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’Udienza dell’8 giugno 2001, concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha approvato questa Nota sul valore dei decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do Sacerdote Antonio Rosmini Serbati, decisa nella Sessione Ordinaria, e ne ha ordinato la pubblicazione”.
5) Pubblichiamo il testo deldecretoPost obitum nella traduzione italiana che ne diede la Civiltà Cattolica, anno XXXIX, vol. X, serie XIII, 1888, pp. 63-64.
6) I Padri della “Civiltà Cattolica” non mancarono di sottolineare anch’essi questo punto del Decreto di condanna del Rosmini: “Il medesimo consiglio [dei Cardinali] afferma che conobbe il senso in cui il Rosmini adoperò le predette proposizioni, e giudicò che esse si dovevano riprovare, condannare e proscrivere in questo stesso senso adoperato dall’autore; e in questo senso le riprova, le condanna e le proscrive -propositiones quae sequuntur, in proprio auctoris sensu reprobandas, damnandas, ac proscribendas esse iudicaverit, prout hoc generali decreto reprobat, damnat, proscribit” (Civiltà Cattolica, anno 39, vol. X, serie 13, 1888, pp. 269-270: Soluzione della questione rosminiana).
7) Non vogliamo certo negare qualsiasi influenza del contesto storico sui testi dottrinali in genere, e l’influenza della promozione del tomismo da parte di Leone XIII nella condanna di Rosmini in specie, come pure non vogliamo negare l’utilità di conoscere il contesto storico di un documento per una sua migliore comprensione.
Neghiamo però recisamente che l’esame del contesto storico e culturale di un documento del Magistero (o della Sacra Scrittura) possa autorizzare a considerarlo “sorpassato” in un altro contesto, come se le formule dottrinali e/o dogmatiche non avessero un valore in sé stesse, e fossero solo un prodotto socio-culturale di un’epoca storica. La posizione insinuata dalla Nota, infatti, distrugge radicalmente il concetto stesso e la perennità del Magistero ecclesiastico (e persino della divina Rivelazione).
8) Il fatto è autentico, e l’ho trovato consultando le vecchie annate della Civiltà Cattolica, “Soluzione della questione rosminiana,l.c., p. 273.
9) Denzinger, op. cit. pp. 1096-1097.
10) ASS 13 [1880/81] 92. Denzinger, op. cit., p. 1097.
11) Civiltà Cattolica, “Soluzione della questione rosminiana”,l.c., p. 261.
12) Denzinger, 3154-3155; ASS 14 [1881/82] 288.
13)È chiaro che, se egli fosse stato con certezza dimostrato colpevole doveva condannarsi; se non fosse stato dimostrato colpevole doveva essere dimesso, cioè rilasciato libero. (…)La predetta certezza per la condanna è necessaria, perché è canone di diritto che nemo praesumitur reus nisi legitime probetur; ciò vale per qualsivoglia tribunale”. Si legga al proposito tutta la p. 260 della Civiltà Cattolica, l.c.
14) Ad esempio, Leone XIII, Enc.Aeterni Patris, DS 3139-3140 e lettera al ministro generale OFM del 27 nov. 1878; S. Pio X, Enc. Pascendi, m.p. Sacrorum antistitum, m.p. Doctoris angelici, e le 24 Tesi, DS 3601-3624; Codice di diritto canonico, cann. 580§1 e 1366§2; Pio XI, c.ap. Deus scientiarum Dominus ed Enc Studiorum ducem, DS 3665-3667; Pio XII, Enc. Humani generis.