lunedì 3 settembre 2012

Foresti, cittadini, nobilomini: diventare veneziano nella Serenissima




di PAOLO L. BERNARDINI

Pur di acquisire nuovo consenso e nuove dita votanti (mentre le teste pensanti continuano ad emigrare), l’Italia darebbe la cittadinanza non solo a cani e porci, alla fine animali utili e piacevoli, ma a criminali d’ogni sorta, pronti a giurare sul tricolore infinita fedeltà a stupro e omicidio. Altrimenti, con il calo demografico in corso – gli italiani che non fanno più figli, molti, probabilmente, per non fornire nuovi ostaggi al sistema – difficilmente la fatidica soglia dei 60 milioni sarebbe, seppur di poco, superata. Giova quindi, per poi cercare di applicarla al futuro Veneto libero, riflettere sulla procedura di ottenimento della cittadinanza, e talora del patriziato, nella repubblica di San Marco.
Storia lunga e complessa, su cui certo non mancano gli studi, poiché in 1100 anni codesta procedura è stata soggetta a molti cambiamenti, a partire naturalmente dalla base giuridica anche del diritto veneziano, il diritto romano. Storia legata non solo al “vil” denaro, che poi tanto vile non è, a meno che a definirlo tale non siano i Monti di turno per poter legittimare il suo trasferimento coatto da noi a loro. Come storico, spesso mi sono imbattuto in casi in cui, per benemerenze, unite a denaro, foresti siano divenuti cittadini, e perfino patrizi. Di recente, in occasione delle celebrazioni del Pontificato di Clemente XIII (salito sul soglio di Pietro nel 1758, e adeguatamente ricordato con una bella mostra nel 2008), mi sono imbattuto in un caso esemplare, e ben noto: quello della famiglia Rezzonico, originaria della Liguria, trapiantata a Como e dintorni, e finalmente giunta a Venezia. Un Rezzonico, Aurelio, viene ricordato, come primo “veneziano”, nel 1638. Seguì la cittadinanza, e perfino il patriziato, acquistato per 100.000 fiorini (!) nel 1687. Poi, lenta ma inesorabile, la scalata sociale. Ca’ Rezzonico venne acquistata nel 1752, e nel 1758 la famiglia ebbe un pontefice, nientemeno, che interruppe oltre mezzo secolo di assenza di papi veneziani (l’ultimo era stato Alessandro VIII, papa Ottoboni, pontefice per meno di due anni (1689-1691), a propria volta il primo papa veneziano dopo il discusso Paolo II, a metà Quattrocento.
Che acquisire la cittadinanza non fosse cosa facile, questo si sa, e ancor meno facile ovviamente era passare da foresto a patrizio. Ma poteva accadere. Come accadeva che famiglie di “foresti”, dopo venti anni e oltre di tentativi, non solo divenissero cittadini, ma talora contribuissero in maniera determinante alle fortune (non solo economiche, ma soprattutto economiche) della Serenissima. La storia di nove di queste famiglie, provenienti da territori anche fuori dei confini della Serenissima (Ancora, ad esempio), ce la racconta un bellissimo libro di Blake de Maria, storica dell’arte che insegna alla prestigiosa Santa Clara University nella Silicon Valley, la più antica università della California (1851), retta da Gesuiti, e meno nota di quanto meriterebbero. “Becoming Venetian. Immigrants and the Arts in Early Modern Venice” (Yale University Press, 2011), è prima di tutto un libro di storia dell’arte. Racconta il ruolo fondamentale di queste famiglie nell’ambito delle confraternite, anzi della Scuola per eccellenza, quella di San Rocco.
La famiglia Cuccina, tra l’altro, commissionò uno stupendo ciclo a Veronese (ora a Dresda), mentre quella D’Anna commissionò a Tiziano l’ “Ecce Homo” (ora a Vienna). Insediatesi a Venezia nella prima metà del Cinquecento, tre di queste nove famiglie nel 1583 erano classificate le dieci più ricche. Ora, sebbene il declino fosse inesorabilmente iniziato, la Venezia di quegli anni, gli anni di Veronica Franco, della visita di Enrico di Francia, tra l’altro, e dell’esplosione, forse tardiva, del peculiare Rinascimento veneziano, è ancora una delle più ricche potenze europee. Essere tra le dieci famiglie più ricche della Serenissima nel 1583 vuol dire essere ricchi davvero. Questo è un libro che appassionerà gli storici dell’arte, soprattutto quelli che studiano il complesso rapporto tra Scuole, mecenati, artisti, e l’intersezione costante tra sfera pubblica e privata, che rappresenta la grandezza di Venezia, anche se storici stranieri hanno spesso, interessati, visto un limite in questo. Come ha visto Paul Hills recensendo il volume sul TLS del 5 agosto 2011, forse è eccessivo credere, come fa la de Maria, che tutta l’innovazione artistica veneziana del periodo dipenda dall’attività di queste famiglie. Ma buona parte sì.
Quel che ci importa, immediatamente, è trarre alcune conclusioni che vanno aldilà, certamente, degli ambiti toccati da questo libro. La concessione della cittadinanza – e lo sanno bene paesi come la Svizzera e gli USA – non è cosa semplice, né da prendersi alla leggera. E tuttavia proprio questa concessione, cui poteva seguire in alcuni casi l’acquisto del titolo di nobiltà, può essere fondamentale per far crescere una repubblica oligarchica (come nel caso veneziano, o genovese). Poiché alla cittadinanza si associano sia onori, sia oneri, sarà un bene, nel Veneto (o nella Lombardia, o nella Sardegna, ecc.) del futuro, studiare bene i tempi e i modi della sua concessione. Certamente, il ricambio fu drammatico nel Settecento: i Widmann, i Manin (e i Rezzonico…) sono tutti “gens nova”. Molti “cittadini originari” e membri del patriziato erano ridotti a Barnabotti. Eppure non è certo da ascriversi a questo predominio di “sangue foresto” la fine della Serenissima, anche se qualcuno potrebbe credere a questa ipotesi del tutto tendenziosa.