domenica 19 agosto 2012

Le comunità Walser di fronte al bisogno di autonomia




di FERRUCCIO VERCELLINO



In Europa, i movimenti autonomisti sono particolarmente attivi e, per il solo fatto di esistere, evidenziano l’attuale crisi storica dei grandi stati-nazione, nati artificiosamente, e quindi privi di quell’afflato popolare che avrebbe potuto giustificarli. Gli attenti osservatori di questi fenomeni hanno ben presto notato, non senza stupore, come le comunità Walser mai si siano costituite in movimento politico autonomista ed hanno fornito a tale comportamento le più svariate spiegazioni, non esimendosi da quelle piuttosto balzane di inattività e disinteresse politico. La realtà mi pare diversa e può essere semplificata dal fatto che i Walser (qui si parla delle comunità del versante meridionale alpino, ma il discorso può valere per qualsiasi altro loro insediamento) desiderano l’autonomia nè più nè meno di qualsiasi altro cittadino padano, che sempre più sente il distacco da un potere centrale di cui percepisce solo l’arrogante aspetto impositivo.
Se la risposta è semplice, essa costituisce anche l’effetto di concause più complesse che è opportuno indagare e che affondano le loro radici nella storia.
I Walser, come ormai tutti sanno, sono originari dell’Alto Vallese tedesco (si tratta della valle del Rodano e, più in particolare, della sua testata chiamata Goms). Si può dunque sgomberare il campo dal facile errore che vorrebbe queste genti costituire un’etnia: non esiste un popolo Walser, ma alemanno o germanico. La loro specificità deriva non da motivi etnici, ma giuridici. Gli Alemanni, provenienti dal nord e venuti a coltivare l’Alto Vallese, possedevano già lo status di coloni con le relative “libertà dovute al dissodamento”, che li distingueva da qualsiasi altro contadino medievale, su cui gravava la pesante oppressione del potere politico locale.
Tale caratteristica giuridica si concretizzava nella libertà personale, nel basso canone di affitto ereditario (vera innovazione concettuale del tempo) e nell’autonomia giudiziaria e amministrativa. Il primo documento scritto in cui compaiono questi elementi, pare essere la dichiarazione di libertà rilasciata da Marquandus di Morel della famiglia dei Conti di Castello sin dal 1277. Altro esempio, relativo al desueto concetto di basso canone d’affitto ereditario, è quello di Formazza del 23 giugno 1416: “Henricus fq. Petri Suzii di Antillone di Sopra (Formazza), riscatta da Guifredinus Rodis Baceno le terre di Antillone da lui godute fino allora a titolo di affitto ereditario per il canone annuo di 20 libbre di formaggio buono” (Orig. perg. lat., Formazza, Arch. Priv.).
Il particolarismo giuridico walser trova la sua ragion d’essere nel desiderio che i “Signori delle Alpi” avevano di sfruttare le terre incolte, per trarne profitti economici, e anche politici per quelle valli collegate a passi alpini rilevanti. Niente di meglio, dunque, che utilizzare quei “colonizzatori di ventura” che erano i Walser e che avevano già dato, nell’Alto Vallese, prova di indubbia capacità e di adattabilità in insediamenti ambientalmente difficili. Gli stanziamenti walser, che si consolidano tra il XIII e il XV secolo in molte località alpine (per citare le più conosciute: Juf nei Grigioni, Gressoney, Alagna, Macugnaga, Formazza, Zermatt, Andermatt e Davos) vedranno sempre riconosciute quelle particolarità giuridiche che costituiranno il “diritto dei Walser”, vero segno distintivo delle “genti del Goms” ( lo stesso termine “Walser” – derivato di Walliser che significa Vallesani – è convenzionale, e compare nel versante meridionale delle Alpi solo a partire dagli anni ‘30 del XX secolo).
E’ del tutto evidente che nel corso degli anni sia venuto meno, perchè progressivamente privo di significato sociale e politico, il particolarismo giuridico dei Walser e, quindi, il secondo motivo (il primo, quello etnico, non è mai esistito) che potrebbe oggi portare a una rivendicazione di autonomismo.
Esiste una terza, possibile motivazione: la tipologia socio-economica di una comunità walser e che ricorre in tutti (e sono molti e distinti) i loro insediamenti. Gli studiosi sono tutti concordi nel riconoscere all’organizzazione walser la connotazione di “gruppi corporativi chiusi”, secondo la ben nota definizione dell’antropologo inglese S. F. Nadel: “raggruppamenti a base territoriale che svolgono un complesso di attività comuni in vista del raggiungimento di mete sia individuali che collettive”. Anche questo modello è venuto meno sotto i colpi di maglio di due diversi e prioritari elementi. Il primo è che la stessa comunità ha da sempre avuto la necessità di aprirsi all’esterno, per la commercializzazione dei propri prodotti e per l’acquisto di ciò che alla stessa occorreva e l’altro è il fenomeno dell’emigrazione, soprattutto stagionale, che vede il suo massimo sviluppo nei primi decenni del ‘900 e che reca con sè nuovi modelli e nuovi bisogni (un banale esempio è l’introduzione, in quegli anni, delle bevande superalcoliche nelle comunità walser con gravissime ripercussioni sociali). Questi elementi hanno favorito il dissolvimento del “gruppo corporativo chiuso” ed hanno fortemente inciso anche sulla tipicità della cultura walser. A tale proposito sono emblematiche le considerazioni di un valente studioso quale Paolo Sibilla (I luoghi della memoria, San Giovanni in Persiceto, 1985): “Per quanto le comunità walser abbiano conservato più a lungo che altrove taluni modelli di cultura, anche rilevanti, che denotano ancor’oggi una origine indubbiamente arcaica, tuttavia tali modelli hanno subito nel tempo dei sensibili mutamenti, adattandosi alla situazione generale e locale che si andava modificando. Questi adattamenti sono da collegarsi ad un fenomeno globale, che riguarda la società nel suo insieme e riflettono il passaggio da un equilibrio congiunturale ad un altro. Contemporaneamente sono anche il risultato di nuovi equilibri interni che si sono realizzati nel momento in cui le attività agro-pastorali sono progressivamente scadute d’importanza, in conseguenza di una minor concentrazione della popolazione, e con esse tutta una costellazione di pratiche economiche, di orientamenti di valore e di principi di organizzazione sociale, politica e religiosa”.
L’impoverimento della tradizione, è oggi confermato dal pernicioso affermarsi dello “pseudotradizionalismo”. Si osservano, infatti, in diverse comunità walser taluni atteggiamenti che denotano un desiderio di ritornare alla tradizione, ma senza l’opportuna conoscenza della stessa. Casi emblematici tra i molti sono “antiche” maschere carnevalesche, strani abiti tradizionali (soprattutto maschili) e bandiere che spesso non hanno alcuna giustificazione storica.
Altro elemento che ha contribuito al dissolvimento del “gruppo corporativo chiuso”, è il venir meno della territorialità, fondata sulla proprietà comune (tra famiglie o “fuochi”) delle terre a pascolo. Oggi, e per effetto di una legislazione che risale agli anni ‘20, le poche proprietà comuni che ancora esistono, sono gestite dal Comune anche se i terrieri radunati in consiglio hanno il diritto di esprimere le loro opinioni che dovrebbero essere tenute in gran conto. Ciò che ho evidenziato, non deve comunque giustificare un atteggiamento pessimista nei confronti delle potenzialità autonomiste dei Walser. Queste però vanno indirizzate a un progetto più vasto: autonomismo non in quanto Walser, ma come parte di una più vasta “famiglia” di popoli (quelli padani) che, valorizzando le loro lingue e i loro retroterra culturali e storici, sentono questi elementi come motivo di unione, in contrapposizione a quelli imposti da una sempre più estranea e ringhiosa “unità nazionale”.

In collaborazione con “I Quaderni padani”