lunedì 13 agosto 2012

Bronte, Bixio e gli amici inglesi

Nino Bixio


Lo sfrondamento dell’etica patriottica risorgimentale, avviato dopo il Sessantotto e il crollo del sentimento nazionale, ha aiutato a far piazza pulita di molte frottole che ai giovani studenti la scuola italiota imponeva fin da piccini attraverso la melensa ed edulcorata visione del Risorgimento proposta da Cuore di De Amicis e la fervida inventiva di G.C Abba ne Le notarelle di uno dei Mille, inquietante nella sua pretesa di essere un diario di mera cronaca. Nonostante i testi scolastici persistano a preferire le figurine Liebig alla verità documentaria, ormai la visione tradizionale di Risorgimento vacilla grazie all’inclito lavoro di molti studiosi, spesso estranei al mondo accademico (parlo dei vari Pellicciari, Alianello, Costa Cardol…), e la verità fuoriesce in tutta la sua tragica evidenza.
“Si scopron le tombe, si levano i morti,/ I martiri nostri son tutti risorti” cantava Luigi Mercantini, modesto poeta tardoromantico, peccato che i Martiri del Risorgimento abbiano le mani grondanti di sangue innocente e insudiciate dal vile mercimonio…
Dai sepolcri risorgimentali si potrebbero trarre miriadi di storie agghiaccianti, tra le quali spiccano i famosi fatti di Bronte, oggetto di racconti letterari, contemporanei agli eventi, veri o verosimili (che la storiografia ha avuto poi l’onere di ricostruire e interpretare; la triste fama di questi eventi spinse addirittura il regista Florestano Vancini a darne una versione cinematografica fortemente polemica nel 1972.
Bronte è una tranquilla cittadina ai piedi dell’Etna, la cui fama risulterebbe particolarmente oscura se non fosse per le tragiche che la videro protagonista durante l’avanzata dei Mille in Sicilia nel 1860. La mera cronaca dell’evento, nella versione datacene da Verga nella novella Libertà , mostra, senza ombra di dubbio, quanto questi eventi siano difficilmente inquadrabili nella nozione comune di Risorgimento: una ribellione popolare dei berretti, ossia dei poveri contadini, in nome di Garibaldi (o meglio delle sue illusorie promesse), dell’Italia e della libertà contro i cappelli, ossia i cittadini agiati, venne soffocata nel sangue dal generale garibaldino Bixio, inviato sul luogo dallo stesso Garibaldi. Perché mai Garibaldi avrebbe dovuto usar violenza contro agitatori che lo invocavano?
La questione è in realtà ben più complessa e merita un maggior approfondimento: innanzitutto è necessario specificare che la cittadina di Bronte sorge all’interno di un territorio che, all’epoca, apparteneva al feudo siciliano noto come Ducea di Nelson. Nel dicembre del 1798, infatti, l’ammiraglio inglese Horatio Nelson, celebre vincitore delle battaglia navale di Abukir contro Napoleone, portò in salvo Ferdinando IV di Napoli (e III di Sicilia) e la moglie Maria Carolina dalla capitale partenopea , che stava per essere conquistata dalle truppe del generale francese Championnet, verso la tranquilla Sicilia; in aggiunta l’ammiraglio Nelson si prodigò nella repressione della Repubblica Partenopea, tanto che uno dei principali esponenti, l’ammiraglio Francesco Caracciolo, venne impiccato su una sua nave in sua presenza. In cambio di questi eccellenti servigi Ferdinando diede all’ammiraglio inglese la possibilità di prendere in dono un feudo: Nelson scelse quello di Bronte , ottenendone anche il titolo trasmissibile di duca. Per quanto la prematura morte a Trafalgar gli avesse impedito di vivervi, egli andò sempre fiero del titolo tanto da firmarsi spesso Nelson of Bronte . Con l’instaurazione del Regno delle Due Sicilie (1816), la Ducea di Nelson incominciò ad essere terreno di scontro tra la comunità locale, gelosa delle proprie libertà, e i duchi, desiderosi di imporre le prerogative feudali (tra cui quella di amministrare la giustizia); dopo il fallimento della rivoluzione del 1848 lo scontro tra le due fazioni assunse un carattere particolarmente virulento, il tutto a scapito dei contadini, spesso trattati come merce di scambio, se non di ritorsione.
Dopo la presa (o forse sarebbe meglio dire compravendita) di Palermo, il 27 maggio 1860, la chiamata alle armi dei siciliani da parte del generale Garibaldi trovò del tutto sordi i contadini brontesi, oppressi da una piaga ben più ulcerosa che la presunta “tirannide” borbonica, molto difficilmente percepibile lontano da Napoli per il suo carattere di monarchia di Ancient Regime , quella della fame e della miseria secolare. Trovò orecchie ben attente invece tra alcuni maggiorenti, autodefinitisi liberali, che costituirono un comitato di liberazione a cui aderirono anche i rappresentanti della Ducea, beninteso con lo scopo di perpetuare, in forme ancor più odiose, la loro supremazia sulla cittadinanza brontese. Davanti a queste figure echeggia nelle orecchie la sordida figura creata da Federico De Roberto: il duca Gaspare d’Oragua, personaggio de I Vicerè (1894), il cui motto, parafrasando la massima di D’Azeglio, era “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo farci gli affari nostri”. Il popolo di Bronte, attratto dalle false promesse di Garibaldi, frattanto chiedeva che venisse attuata la divisione delle terre demaniali, già prevista da Francesco II di Borbone, ma evidentemente ciò si scontrava irrimediabilmente con gli interessi del notabilato locale, in particolar modo quelli della duchessa di Bronte e dei suoi rappresentanti. La tensione crebbe durante tutto il mese di Luglio, mentre sempre più si levavano alte le voci contro i cappelli, fino a che la sera del 29 Luglio le campane a martello della chiesa dell’Annunziata chiamarono a raccolta i cittadini; la rivolta scoppiò per vendicare gli sputi raccolti, davanti al Casino dei nobili, dal povero mentecatto Nunzio Ciraldo Fraiunco, che nel pomeriggio, con una fascia tricolore alla testa e un tamburo in mano, aveva gridato slogan contro i proprietari terrieri; evidentemente questo era però l’esito della rabbia accumulata da mesi e di una rivolta programmata, a cui avevano aderito anche i carbonai, strato infimo e derelitto della società. La rivolta di Bronte assunse immediatamente un carattere violento e vendicativo, forse ben al di là del ragionevole, e la chiamata in causa del moderato avvocato liberale Niccolò Lombardo (che aveva già difeso parecchi cittadini di Bronte contro i proprietari terrieri) non servì a calmare gli animi: al grido di “Viva l’Italia!Viva Garibaldi!” il sangue, irrancidito dall’odio incolmabile, scorse copioso per le vie del paese.
Non fu tanto l’aspetto cruento della rivolta a spingere Garibaldi ad intervenire quanto le risentite richieste dei consoli inglesi di Messina e Catania, ben consapevoli che l’arrivo del Nizzardo allo Stretto non fosse merito del tanto celebrato coraggio dei Mille ma delle sterline di Lord Palmerston, primo ministro inglese, sapientemente distribuite dall’ ammiraglio inglese sir Roger Mundy, che precedeva via mare l’avanzata dei Mille corrompendo e minacciando gli ufficiali borbonici, e dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che tallonava Garibaldi per conto di Cavour: la conquista della Sicilia fu attuata per via marina più che per via terrestre!
Indubbiamente dietro queste manovre politiche si nasconde la fitta trama di relazioni tra Inghilterra liberale, Piemonte cavouriano e Garibaldi: il generale Nizzardo, sin dai tempi della permanenza nell’altro mondo, intratteneva un buon rapporto con gli inglesi da cui ricevette gran parte dei finanziamenti che gli consentirono di condurre un’esistenza da avventuriero part time: Garibaldi non poteva certo rifiutarsi in quest’occasione di aiutare gli amici inglesi!
Per evitare il coinvolgimento personale il duce dei Mille inviò Nino Bixio, personaggio collerico e bizzoso, noto per le aspre rampogne, condite di minacce e turpiloqui, che rivolgeva ai suoi soldati e nondimeno per il suo coraggio incosciente, ma benvoluto da Garibaldi perché ligure. Giunto a Bronte con due battaglioni di garibaldini, Bixio dichiarò lo stato d’assedio, con l’accusa di lesa umanità, arrestando i presunti colpevoli, tra cui il pacifico avvocato Lombardo. Naturalmente il processo sommario, senza possibilità di difesa, da parte del tribunale militare assunse un mero carattere vendicativo dato che Bixio ne aveva già decretata la morte: i cinque imputati vennero condannati a morte in nome di Vittorio Emanuele II (il quale non aveva ancora alcuna autorità su quelle terre), senza peraltro individuare le precise responsabilità personali. La sentenza venne eseguita in loco il giorno successivo: il plotone ebbe solo pietà per il povero mentecatto, malcapitato e sicuramente strumentalizzato dai rivoltosi; pietà non ebbe invece Bixio che lo finì con un colpo di pistola alla testa mentre costui inocava la grazia della Madonna. La condanna del crudele Bixio non può certo riflettersi sull’intero operato dei Mille, i quali erano colmi sì di spiantati e delinquenti ma anche di giovani idealisti, eppure forse più l’idealismo, scontrandosi con la pragmatica mentalità della gente comune, fece più danni che la semplice delinquenza: il fatto di Bronte e della sua rivolta filogaribaldina soffocata dai garibaldini è secondo me apertamente comprensibile alla luce di una gustosa paginetta dell’Abba che narra l’incontro dei Mille con un certo frate Carmelo. All’affermazione delle camicie rosse che “Il popolo avrà libertà e scuole.” Il frate risponde “- E nient’altro! perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no.” . Il popolo non sapeva cosa farsene della “libertà”, soprattutto dato che questa significò solo un’oppressione straniera ben più feroce.

Davide Canavesi