giovedì 5 luglio 2012

Il 13 febbraio 1861 a Gaeta finivano tragicamente la libertà e l’indipendenza dell’antico e prospero Regno del Sud.

Con la caduta della piazza dove per tre mesi 10000 napoletani  con alla testa i loro giovani sovrani si erano eroicamente battuti di fronte all’intero esercito piemontese, iniziava una tragica parabola che in breve avrebbe trasformato una Nazione in una Colonia
di Roberto Maria Selvaggi

    Alle tre del mattino del 2 novembre 1860 l’esercito napoletano, o almeno quel che ne rimaneva di quell’armata che dai primi di settembre combatteva una guerra estenuante, dovette abbandonare le posizioni lungo il fiume Garigliano.
    La flotta francese, che aveva impedito a quella piemontese di cannoneggiare la costa, dovette all’improvviso ritirarsi: Cavour aveva un’altra volta convinto Napoleone III a desistere dal proteggere i napoletani.

Amm. Le Barbier de Tinan    Non mancò però di togliersi la soddisfazione di tirare qualche bordata contro le navi piemontesi che sconfinavano.
    La flotta piemontese fu rafforzata da unità napoletane i cui ufficiali erano passati al nemico, equipaggiate da personale piemontese raccogliticcio, a causa della fedeltà assoluta dimostrata dai marinai napoletani che si recarono in massa a Gaeta.
Una batteria di artiglieria fu messa in campo in tutta fretta sulla vecchia torre di Formia al comando di un ufficiale svizzero, il capitano Enrico Fevot e del suo sottoposto tenente Casimiro Brunner: morirono tutti, ufficiali e soldati, ma prima di soccombere riuscirono a danneggiare gravemente alcune navi piemontesi.
    A Mola si svolse una prima battaglia, nella quale i napoletani difesero palmo a palmo il passaggio, consentendo a buona parte dell’esercito di prendere la strada per Itri e Fondi.
    In quella furiosa battaglia fu ferito gravemente l’anziano capitano del 10° cacciatori, Ferdinando De Filippis, che morirà in ospedale il 21 novembre dopo una straziante agonia.
    Ristretti ormai al campo di Montesecco, antistante Gaeta, i napoletani per tre giorni e tre notti tennero le posizioni contro un esercito che li sovrastava in uomini e materiali, perdendo ben 2400 uomini tra morti, feriti e prigionieri.


    Re Francesco allora comandò che l’esercito entrasse nella piazza, e a questo punto iniziò il vero e proprio assedio di Gaeta, una pagina che lascerà al popolo napoletano la memoria di una fine gloriosa e dignitosa, che rimarrà di esempio per i posteri.
    Dal 12 novembre 1860 al 13 febbraio 1861 diecimila uomini decimati dalle fatiche, dai bombardamenti e dal tifo resistettero, senza mai piegarsi, ad un assedio condotto da vili quali furono gli uomini di Enrico Cialdini.
    Con l’impiego dei modernissimi cannoni rigati, l’ex avventuriero romagnolo, divenuto generale piemontese, poté dalla sua comoda poltrona sul terrazzo della modesta villa privata comprata da Ferdinando II a Mola, far bombardare senza essere colpito la piazza ed i suoi abitanti.
    La presenza del Re e della Regina fu determinante per tenere sempre alto il morale della guarnigione. La fedelissima isola di Ponza rifornì incessantemente la piazza di vettovaglie e generi vari, per mezzo dei suoi pescatori che mai dimenticarono che la loro stessa esistenza era dovuta alla lungimiranza dei Borbone, che colonizzarono l’isola a spese dello Stato.
    Il maggiore Pietro Quandel fu incaricato di tenere il giornale degli avvenimenti dell’assedio e, grazie al suo lavoro poi pubblicato a Roma, abbiamo i particolari giornalieri di quell’avvenimento.
    Il 29 novembre all’alba con una colonna di 440 soldati uscì dalla cittadina per compiere una importante ricognizione, onde scoprire lo stato di avanzamento dei lavori del nemico. Comandava la colonna il Tenente Colonnello dello stato maggiore Aloysio Migy, svizzero ormai naturalizzato napoletano.
    Compiuta l’operazione nel più assoluto silenzio, il distaccamento si apprestava a rientrare nella piazza quando il nemico si accorse della loro presenza, ed attaccò la colonna con forze nettamente superiori. Migy si batté da leone, finché non fu colpito mortalmente da una scarica di fucileria insieme a tre suoi soldati.
    Il Re volle che gli fossero tributati i massimi onori, e lo fece tumulare nel Duomo.
    Il 2 dicembre partì da Gaeta, non senza protestare, l’ottantenne Tenente Generale Pietro Vial, indomito soldato, al quale il Re volle evitare, a causa dell’età avanzata, le immani fatiche dell’assedio. Vial morirà in Roma, in esilio, alcuni anni dopo, ed è sepolto nella Chiesa della Nazione Napoletana, in via Giulia.
    Il governo della piazza fu assunto dal Brigadiere Gennaro Ma rulli, ufficiale giovane ed esperto.
    Il 4 dicembre il Re emanò un proclama ai soldati, nel quale li incoraggiava a dimostrare il loro valore ed a difendere la causa del diritto e l’onore della Bandiera napoletana: “Voi avete ad emulare una guarnigione più antica quale è quella che nel 1806 resistette con impareggiabile valore agli attacchi dei primi soldati del mondo”.
    L’inverno del 1860 fu fra i più freddi del secolo. Neve pioggia e vento battente flagellarono le coste tirreniche, ma il vero nemico della guarnigione fu il micidiale tifo, che si manifestò ai primi di dicembre e che mieterà un numero impressionante di vittime civili e militari, tra cui i generali i generali de Sangro, Ferrari e Caracciolo di San Vito.
    Il generale Antonio Ulloa fu inviato a Marsiglia per trattare la vendita di tre navi militari ferme in quel porto per riparazioni. Con i denari ricavati si poté dare un po’ di sollievo alla guarnigione ed ai suoi ospedali ricolmi di feriti.
    Il governo piemontese tentò di impedire la vendita sostenendo che i piroscafi erano ormai di sua proprietà, ma i tribunali francesi giudicarono diversamente, proclamando che l’unico Re delle Due Sicilie si trovava ancora sul suo territorio, ed era solo vittima di una vergognosa aggressione.
    Il 14 dicembre venne ridotto drasticamente l’organico della guarnigione che era in assoluta sovrabbondanza, molti corpi furono sciolti e gli uomini inviati nello Stato Pontificio.
    Rimasero così nella piazza fino al termine 994 ufficiali ed impiegati e 12219 soldati.
    Il 20 dicembre gli ufficiali inviarono al Re un messaggio, nel quale ribadirono la loro ferma intenzione di resistere ad oltranza, per tener fede al giuramento dato: “Signore, in mezzo ai disgraziati avvenimenti, dei quali la tristizia dei tempi ci ha fatto spettatori afflitti ed indignati, noi sottoscritti Ufficiali della Guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volontà, veniamo a rinnovare l’omaggio della nostra fede innanzi al trono di V. M. renduto più venerabile e più splendido dalla sventura.
    Nel cinger la spada noi giurammo, che la bandiera confidataci da Vostra Maestà sarebbe stata da noi difesa anche a prezzo di tutto il nostro sangue: noi intendiamo restare fedeli al nostro giuramento. Quali che sieno per essere le privazioni, le sofferenze, i pericoli, ai quali la voce dei nostri Capi ci chiami, noi sacrificheremmo con gioia le nostre fortune, la nostra vita ed ogni altro bene pel successo o pei bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell’onor militare che, solo, distingue il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a V. M. ed all’Europa intera che, se molti dei nostri col tradimento o con la viltà macchiarono il nome dell’Esercito Napoletano, grande fu anche il numero di quelli che si sforzarono di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità.
    Sia che il nostro destino si trovi presso a decidersi, sia che una lunga serie di lotte e di sofferenze ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con rassegnazione e senza paura; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o alla morte dei bravi con la calma fiera e dignitosa che si conviene a soldati, ripetendo il nostro vecchio grido VIVA IL RE”.
    Il 7 gennaio il Re, la Regina ed i Principi Reali Conti di Trani e Caserta dovettero abbandonare i palazzi nei quali erano stati ospitati, perché i colpi nemici li avevano ripetutamente danneggiati, e si trasferirono tutti in una modesta casamatta della batteria Ferdinando.
    Per iniziativa dell’imperatore francese Napoleone III fu stabilita una tregua dall’8 al 19 gennaio, in considerazione della partenza della flotta francese, che da quel giorno non avrebbe più garantito la città dal mare.
    Scopo dell’armistizio era quello di convincere Francesco II ad abbandonare Gaeta, avendo ormai salvato l’onore.
    Pochi giorni prima del suo scadere i rappresentanti diplomatici di Austria, Prussica, Sassonia, Baviera, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Brasile, Toscana, Russia e Stato Pontificio raggiunsero Gaeta per presentare i loro omaggi al Re. Nonostante gli ordini dei loro governi rimasero nella piazza a sopportare i disagi ed i pericoli dell’assedio solo i ministri di Spagna, Austria, Baviera, Sassonia ed il Nunzio Apostolico.
    Il 15 gennaio Francesco II, all’approssimarsi della scadenza della tregua e della partenza della flotta francese, scrisse una nobile lettera all’Imperatore, che lo esortava a cedere: “Come cedere, quando in tutte le province del mio Regno con sentimento spontaneo si insorge contro la dominazione piemontese? Il mio diritto è ora il solo mio patrimonio, ed è mestiere che per difenderlo io mi faccia seppellire, se necessario, sotto le fumanti rovine di Gaeta. Ho fatto ogni sforzo per persuadere S. M. la Regina a separarsi da me. Ella vuole dividere con me la mia fortuna, consacrandosi alle cure degli ammalati e dei feriti. Da questa sera Gaeta conta nelle sue mura una suora di carità in più”.
    Il 22 gennaio, unilateralmente, i napoletani decisero di riaprire il fuoco. Alle 8 del mattino un colpo della batteria Regina dette il segnale: fu una giornata memorabile.
    La flotta piemontese dovette allontanarsi per i danni che i colpi della piazza le avevano inferto: oltre 10000 colpi furono sparati dai napoletani, a dimostrazione che non si sarebbero arresi.
    Il nemico ne sparò oltre 18000, ma il morale napoletano rimase alle stelle. Ad ogni colpo echeggiava il grido VIVA IL RE, e le bande militari intonavano l’inno di Paisiello. Ad ogni colpo mancato dal nemico una selva di uomini aveva ancora il morale ed il coraggio di fare gesti irripetibili dall’alto dei parapetti delle batterie.
    L’11 febbraio il Re prese la decisione di interrompere la carneficina. Il colonnello Delli Franci fu inviato a parlamentare, ed a presentare una proposta di armistizio cui far seguire una vera e propria capitolazione.
    Ormai i piemontesi tiravano soltanto da molto lontano, e non prendevano mai l’iniziativa di assaltare la piazza: “li prenderemo per fame” scrisse Cialdini a Cavour, naturalmente in perfetto francese visto che l’italiano non era molto contemplato da questi signori.
    Quando iniziarono le trattative il vile assassino Cialdini non volle interrompere i bombardamenti, anzi li rinnovò con maggiore accanimento perché “sotto il tiro dei cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose per noi”, scriveva ancora il generale a Cavour.
    Fu così che a capitolazione già firmata venne centrata la polveriera della batteria Transilvania, dove morì l’ultimo difensore di Gaeta. Un ragazzo di sedici anni, Carlo Giordano, fuggito dalla Nunziatella per difendere la sua Patria. Egli non ha degna sepoltura, come non la hanno i tremila altri caduti di caduti di Gaeta perché, è bene saperlo, solo nel 1881 i parenti dei generali de Sangro e Caracciolo ebbero l’autorizzazione di apporre i nomi dei loro congiunti su di una lapide commemorativa.
    I poveretti, gli umili, stanno ancora sotto la terra di Gaeta, magari nelle fondamenta di qualche nuovo ed orrendo palazzo costruito dai barbari che l’hanno calpestata dopo la resa.
    La memoria dell’assedio e della sua meravigliosa difesa non passerà… Gaeta è stata punita più volte per la sua fedeltà a prova di bomba: è stata un famoso carcere militare, è stata retrocessa da vicecapoluogo provinciale a città qualsiasi, ed infine forzatamente collocata nel Lazio, in provincia di Latina.
    La partenza del Re quella notte del 14 febbraio fu la prima di una serie di milioni di partenze di meridionali alla ricerca della dignità e di un futuro non di fame nera.
    E’ bene non dimenticarlo.

Da “Il SUD Quotidiano” del 14/2/98

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PROCLAMA REALE

Riportiamo il proclama di Francesco II ai Popoli delle Due Sicilie, nel quale tra l'altro si legge

"Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno : i vostri costumi sono

i miei costumi : la vostra lingua è la mia lingua; le vostre
ambizioni mie ambizioni. Erede di una antica dinastia che ha regnato
in queste belle contrade per lunghi anni ricostituendone
l'indipendenza e l'autonomia, non vengo dopo avere spogliato del
loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa ad impadronirmi
con forza straniera della piú deliziosa parte d'Italia. Sono un
principe vostro che ha sacrificato tutto al suo desiderio di
conservare la pace, la concordia, la prosperità tra' suoi sudditi.".
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POPOLI DELLE DUE SICILIE
Da questa Piazza dove difendo piú che la mia corona l'indipendenza
della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per
consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi piú felice.
Traditi ugualmente, ugualmente spogliati, risorgeremo allo stesso
tempo dalle nostre sventure; ché mai ha durato lungamente l'opera
della iniquità, né sono eterne le usurpazioni.
Ho lasciato perdersi nel disprezzo le calunnie; ho guardato con
isdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano
soltanto la mia persona; ho combattuto non per me ma per l'onore del
nome che portiamo. Ma quando veggo i sudditi miei che tanto amo in
preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo
come popoli conquistati portando il loro sangue e le loro sostanze
ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio
cuore napolitano batte indegnato nel mio petto, consolato soltanto
dalla lealtà di questa prode armata, dallo spettacolo delle nobili
proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il
trionfo della violenza e dell'astuzia.
Io sono napolitano ; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non
ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio.
Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno : i vostri costumi sono
i miei costumi : la vostra lingua è la mia lingua; le vostre
ambizioni mie ambizioni. Erede di una antica dinastia che ha regnato
in queste belle contrade per lunghi anni ricostituendone
l'indipendenza e l'autonomia, non vengo dopo avere spogliato del
loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa ad impadronirmi
con forza straniera della piú deliziosa parte d'Italia. Sono un
principe vostro che ha sacrificato tutto al suo desiderio di
conservare la pace, la concordia, la prosperità tra' suoi sudditi.
Il mondo intero l'ha veduto; per non versare il sangue ho preferito
rischiare la mia corona. I traditori pagati dal nemico straniero
sedevano accanto a' fedeli nel mio consiglio ; ma nella sincerità
del mio cuore, io non poteva credere al tradimento. Mi costava
troppo punire; mi doleva aprire, dopo tante nostre sventure, un'era
di persecuzioni; e cosí la slealtà di pochi e la clemenza mia hanno
aiutata l'invasione piemontese pria per mezzo degli avventurieri
rivoluzionari e poi della sua armata regolare, paralizzando la
fedeltà de' miei popoli, il valore de' miei soldati.
In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia di
sangue, ed hanno accusata la mia condotta di debolezza. Se l'amore
il piú tenero pe' miei sudditi, se la fiducia naturale della
gioventú nella onestà degli altri, se l'orrore istintivo al sangue
meritano questo nome, sono stato certamente debole. Nel momento in
che era sicura la rovina de' miei nemici, ho fermato il braccio de'
miei generali per non consumare la distruzione di Palermo, ho
preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta
capitale per no esporla agli orrori di un bombardamento, come quelli
che hanno avuto luogo piú tardi in Capua ed in Ancona.
Ho creduto nella buona fede che il Re del Piemonte che si diceva mia fratello,
mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi,
che negoziava col mio governo una alleanza intima pe' veri interessi
d'Italia, non avrebbe rotto tutt'i patti e violate tutte le leggi,
per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né
dichiarazioni di guerra. Se questi erano i niei torti, preferisco le
mie sventure a' trionfi de' miei avversari.
Io aveva data una amnistia, aveva aperto le porte della patria a
tutti gli esuli, conceduto a' miei popoli una costituzione.
Non ho mancato certo alle mie promesse.
Mi preparava a garantire alla Sicilia istituzioni libere
che consecrassero con un parlamento
separato la sua indipendenza amministrativa ed economica rimuovendo
ad un tratto ogni motivo di sfiducia e di scontento. Aveva chiamato
a' miei consigli quegli uomini che mi sembrarono piú accettabili
all'opinione pubblica in quelle circostanze, ed in quanto me lo ha
permesso l'incessante aggressione di che sono stato vittima, ho
lavorato con ardore alle riforme, a' progressi, ai vantaggi del
comune paese.
Non sono i miei sudditi che mi hanno combattuto contro; non mi
strappano il Regno le discordie intestine, ma mi vince
l'ingiustificabile invasione d'un nemico straniero. Le Due Sicilie,
salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza,
si trovano nelle mani del Piemonte.
Che ha dato questa rivoluzione
ai niei popoli di Napoli e di Sicilia?
Vedete lo stato che presenta il paese.
Le finanze un tempo cosí floride sono completamente
rovinate : l'amministrazione è un caos : la sicurezza individuale
non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti : in vece della
libertà, lo stato di assedio regna nelle province, ed un generale
straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione
istantanea per tutti quelli dei miei sudditi che non s'inchinano
alla bandiera di Sardegna. L'assassinio è ricompensato, il regicidio
merita una apoteosi; il rispetto al culto santo de' nostri Padri è
chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori del
proprio paese ricevono pensioni che paga il pacifico contribuente.
L'anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri han rimestato
tutto, per saziare l'avidità o le passioni dei loro compagni. Uomini
che non hanno mai veduta questa parte d'Italia, o che hanno
dimenticato in lunga assenza i suoi bisogni, formano il vostro
governo. In vece delle libere istituzioni che io vi aveva date e che
era mio desiderio sviluppare, avete avuta la piú sfrenata dittatura,
e la legge marziale sostituisce adesso la costituzione. Sparisce
sotto i colpi de' vostri dominatori l'antica monarchia di Ruggiero e
di Carlo III, e le due Sicilie sono state dichiarate province di un
Regno lontano.
Napoli e Palermo saranno governati da prefetti venuti da Torino.
Ci è un rimedio per questi mali, per le calamità piú grandi che
prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell'avvenire.
Unitevi intorno al trono de' vostri padri. Che l'obblio copra per
sempre gli errori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di
vendetta, ma pel futuro lezione salutare. Io ho fiducia nella
giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, resterò
fedele a' miei popoli ed alle istituzione che ho loro accordate.
Indipendenza amministrativa ed economica tra le due Sicilie con
parlamenti separati; amnistía completa per tutt'i fatti politici;
questo è il mio programma. Fuori di queste basi non ci sarà pel
paese, che dispotismo o anarchia.
Difensore della sua indipendenza, io resto e combatto qui per non
abbandonare cosí santo e caro deposito. Se l'autorità ritorna nelle
mie mani sarà per tutelare tutt'i diritti, rispettare tutte le
proprietà, garantire le persone e le sostanze de' miei sudditi
contra ogni sorta di oppressione e di saccheggio. E se la
Provvidenza nei suoi alti disegni permette che cada sotto i colpi
del nemico straniero l'ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò
con la coscienza sana, con incrollabile fede, con immutabile
risoluzione; ed aspettando l'ora inevitabile della giustizia, farò i
piú fervidi voti per la prosperità della mia patria, per la felicità
di questi popoli che formano la piú grande e piú diletta parte della
mia famiglia.
Preghiamo il sommo Iddio e la invitta Immacolata protettrice
speciale del nostro paese, onde si degnino sostener la nostra
causa. — Gaeta 8 Dicembre 1860.
Firmato — FRANCESCO