martedì 12 giugno 2012

IL RITORNO DI QUEL BECERO NAZIONALISMO ITALIANO


di GIUSEPPE MOTTA

Un fenomeno allarmante sta diventando sempre più visibile da alcuni anni – ancor di più coi festeggiamenti del cosiddetto 150° dell’unità –  nel quadro della politica e della società italiane: la ripresa invasata della retorica nazionalista, della mitologia della “nazione”, dell’inno e della bandiera, delle baggianate propinate per quasi centocinquant’anni alle popolazioni inglobate con la forza militare nello Stato unificato: anche se quelle mitologie sono già state ampiamente smontate con abbondanti prove storiche e teoriche, in particolare negli ultimi dieci anni, da valenti storici, ricercatori e studiosi indifferenti alle lusinghe di chi detiene il potere e che su quella retorica continua a basare la propria fortuna. La politica, si sa, è il campo nel quale meglio prolifera l’irrazionalità. Le spiegazioni logiche e le prove storiche non fanno molta presa.
Venti anni di rivoluzione (abortita) in senso federalista e di riscoperta delle vere radici delle popolazioni costrette a vivere sul suolo unificato e omogeneizzato con la forza dall’azione statale, non sono riusciti, pur con tutta la loro carica distruttiva di falsi e aberranti miti, di simbolismi e liturgie pseudoreligiose, di risorgimentalismi macabri e collettivisti (l’Italia sofferente, “mutilata”, “divisa”, ecc.), a liberarci di quella paccottiglia putrescente riproposta a ogni occasione nelle scuole e dai mezzi di comunicazione di massa, da cortigiani e tirapiedi, da giornalisti che sembravano almeno discretamente colti e dotati di un minimo di capacità critica.
C’è molto di pianificato in questa autentica e rivoltante rinascita neonazionalista che sfida il ridicolo. Ogni occasione è buona per darle voce; vengono restaurate ad hoc feste delle quali nessuno sentiva il bisogno. Quella più vistosa, la festa del 2 giugno appena passata sotto mille polemiche peraltro, è stata reintrodotta con tutto il suo corredo di parate militari, di fanfare e fanfaroni, ma soprattutto con il suo costo economico assurdo per il contribuente (che sarebbe più corretto definire “lavoratore forzato”) ignaro di tutto quello spreco di risorse e inebetito di fronte a lustrini, medaglie, gagliardetti e bandiere (ancora grondanti del sangue di popolazioni ripetutamente inviate al macello), trombette e tromboni. Alla faccia dei poveri, degli ammalati e dei bisognosi, per i quali esiste lo Stato-provvidenza dotato di alte finalità sociali.
Una tradizione nazionale inesistente e del tutto inventata viene presentata come qualcosa di scontato; inno e bandiera vengono rimusicati e lucidati a nuovo, affinchè tutti lo cantino o la agitino a più non posso. Gli sportivi – ora con il campionato di calcio europeo sarà anche peggio – devono cantare ovunque una marcetta scritta da un giovane invasato e che contiene, come ebbe a scrivere correttamente, in modo filologicamente ineccepibile e fra i pochi coraggiosi Marzio Breda sul Corriere della Sera, “un antipasto di Fascismo”, un’atmosfera funerea e sanguinolenta, esortazioni parareligiose (“uniti per Dio!”) e passaggi sulla storia di Roma trasposta arbitrariamente nella vicenda dello Stato nazionale.
Gli “intellettuali”, evidentemente di non molte letture, si mobilitano per dar man forte all’operazione, inneggiando ad un Tricolore grondante di retorica, sul milite ignoto, la guerra ‘15-’18, le vedove e gli orfani, la “storia comune”. L’avanguardista (forse non solo in senso artistico) Edoardo Sanguineti propose a suo tempo addirittura doposcuola coatti e permanenti per i giovani, per “inculcare loro, con quotidiane lezioni sulla nazione, lo spirito della democrazia”, senza sapere che i due principi hanno radici concettuali opposte e fanno sempre più a pugni e senza temere di essere giustamente assimilato a un teorico khmer della “Kampuchea democratica”.
A tutta questa varia e variopinta “intellettualità” non viene nemmeno in mente che tanto fervore patriottico non considera la realtà di uno Stato (autodefinitosi “nazionale”) che dal momento della sua unificazione forzata e manu militari, condotta con inaudita violenza, non ha fatto altro che violentare e sopprimere la ricchezza e la diversità di popoli (fonti della maggiore fioritura storica sull’attuale suolo statale “italico”) oggi imprigionati in uno Stato unitario galera, denominato “nazione italiana”. A loro non viene nemmeno in mente che cosa sia stata la storia unitaria: un susseguirsi di guerre sanguinose (provocate dalla classe politica che si fa chiamare “Stato”), di repressioni poliziesche, di alternanze costanti fra fasi di democrazia trasformistica, mafiosa e clientelare e di reazioni autoritarie, così come di tirannidi di varia natura: ministeriali, governative, fasciste, parlamentari e partitocratiche e che la “nazione” non è stata altro che l’ornamento del quale si sono rivestiti (e con il quale hanno cercato di spersonalizzarsi) gruppi di criminali e di sfruttatori variamente legati fra loro, che oggi cercano di perpetuare la pacchia (il loro potere) rivitalizzando mitologie come quelle scaturite dal nazionalismo dell’Ottocento. O forse lo sanno, ma tacciono per convenienza.
Certo, ciò che è maggiormente preoccupante, è la disponibilità da parte dell’opinione pubblica – organizzata dal potere – inebetita ad accettare nuovamente forme ambigue e larvate o addirittura aperte di tanto putrescente nazionalismo. Perché i problemi denunciati con l’inizio degli anni Novanta, che avevano messo in seria crisi la storiografia nazionalista oggi in allarmante ripresa, sono ancora tutti irrisolti e affondano le loro radici proprio nella storia unitaria di questo Paese.
La gestione statalista-nazionalista continua a gravare con le sue diseconomie sulle forti potenzialità di crescita civile ed economica delle popolazioni che vivono in questo Stato. L’apertura alla globalizzazione mondiale è frenata costantemente da ideologie nazionaliste ed europeiste che rafforzano lo statalismo e i tentativi liberticidi delle classi politiche che si legittimano con queste stesse ideologie, decrepite e avulse dalla realtà.
Forse si tratta solo del canto del cigno del nazionalismo, responsabile delle peggiori nefandezze che la storia dell’umanità ricordi. Prima o poi la storia si vendica delle ideologie. I miasmi della loro sopravvivenza artificialmente prolungata rischiano però di asfissiare.