venerdì 1 giugno 2012

1814, RIVOLUZIONE MILANESE: COSA CI HA INSEGNATO?




La crisi economica in cui versa lo Stato italiano sembra rafforzare i movimenti indipendentisti che si stanno formando un po’ ovunque nella penisola. La convention di Jesolo ha mostrato come tali movimenti, quantunque siano uniti nel propugnare l’indipendenza dei rispettivi territori dallo Stato italiano, appaiono divisi negli obiettivi e nei programmi da portare avanti. Una situazione per certi versi analoga ai giorni convulsi dell’aprile 1814 quando, in una crisi europea seguita alla dissoluzione del dominio napoleonico, i lombardi furono protagonisti di un moto rivoluzionario che assunse una notevole importanza nel panorama delle rivolte antifrancesi. Anche in quei frangenti le posizioni dei partiti in cui si articolava l’opinione pubblica a Milano erano assai diverse, inconciliabili fra loro perché nemiche irriducibili sul piano politico, il che fu fatale per la riuscita del progetto indipendentista.
Nel mio lavoro (Gabriele Coltorti, I lombardi contro l’Italia di Napoleone, “Quaderni Padani” 99-100, San Marino, Il Cerchio 2012) ho mostrato come la rivoluzione scoppiata a Milano il 20 aprile 1814 causò il crollo del regime napoleonico e portò al governo dello Stato – sia pure per breve tempo (dal 20 aprile al 25 maggio 1814) – una classe politica di nobili e notabili lombardi determinati a conseguire l’indipendenza di un regno limitato a una parte della Padania centro-occidentale. A seconda delle soluzioni che furono avanzate dai rivoluzionari, tale Stato poteva ricondursi al vecchio principato regionale visconteo-sforzesco comprendente la Lombardia ma esteso al Novarese, all’Alessandrino e al Genovesato (soluzione caldeggiata dalla nobiltà milanese più tradizionalista) oppure poteva consistere in uno Stato padano-italico esteso alla Lombardia e al Novarese, ma anche ai territori cispadani di Parma, Piacenza, Modena, Reggio e alle Romagne (posizione sostenuta dal ceto medio della burocrazia, dalla borghesia e dalla nobiltà tiepidamente liberale). E’ tuttavia significativo che la classe politica napoleonica, contro la quale fu compiuta la rivoluzione, puntò in fondo ad obiettivi simili sul piano territoriale: le istruzioni rilasciate dai funzionari napoleonici agli ufficiali in missione all’estero insistevano sull’indipendenza di uno Stato cisalpino limitato alla Lombardia, al Novarese, ai territori ex estensi di Modena e Reggio e alle ex legazioni romagnole di Ferrara, Bologna e Ravenna. In tali documenti non si parlava affatto di Italia unita, ma neppure di rivendicazioni estese al Veneto e al Friuli, ormai austriaci.
Perché le cose non funzionarono? Il governo napoleonico chiedeva uno Stato indipendente governato dal principe Eugenio Beuauharnais, il figliastro di Napoleone che da nove anni aveva governato il regno italico per conto del patrigno. Una frangia considerevole di rivoluzionari lombardi aspirava invece ad uno Stato governato da un principe che non fosse riconducibile in alcun modo ai napoleonidi, tale era l’odio che i lombardi nutrivano verso il regime di Bonaparte. Questa diversità di vedute fu radicale, foriera di uno scontro autenticamente politico (laddove “politico” è qui inteso nel significato schmittiano di “opposizione radicale tra fazione, lotta all’ultimo sangue”): quando scoppiò a Milano il tumulto popolare, per tre giorni (20-21-23 aprile) ebbe luogo una guerra civile nel corso della quale la fazione dei funzionari napoleonici fedeli al viceré fu travolta dalla ferocia dei rivoluzionari. La violenza di tale scontro, ma soprattutto l’assenza di un gioco di squadra tra le fazioni furono decisivi nel portare al fallimento dei progetti indipendentisti.
Qualcuno potrebbe chiedersi quale importanza potesse avere a quel tempo il Regno d’Italia napoleonico governato da Napoleone e dal viceré Eugenio Beauharnais. Milano in quegli anni era capitale di uno Stato che, quantunque soggetto al dominio francese, si estendeva a una parte significativa della valle padana, comprendendo il Novarese, la Lombardia, il Modenese e il Reggiano, le Romagne, il Veneto, il Trentino, il Friuli e le Marche. In fondo Napoleone, il despota Napoleone accusato di aver saccheggiato i territori conquistati drenando risorse e traendo carne per i suoi eserciti con lo strumento della coscrizione obbligatoria, aveva contribuito in modo non trascurabile al risveglio delle nazioni oppresse. Ai polacchi – il cui territorio, fagocitato da Russia, Prussia e Austria, era scomparso alla fine del Settecento dalla carta geopolitica dell’Europa – aveva garantito uno Stato, il granducato di Varsavia, che, quantunque limitato nella sua stessa estensione rispetto all’antico regno di Polonia, costituiva un esempio tangibile di Stato nazionale basato su principi opposti rispetto a quelli seguiti dalla fredda diplomazia delle cancellerie settecentesche.
Nella penisola italiana la repubblica cisalpina – divenuta repubblica italiana e, dal 1805, regno d’Italia – costituiva un altro esempio di Stato poggiante su basi “nazionali”. Questo regno costituì in effetti per tanti patrioti il primo passo verso l’unificazione della penisola. Eppure, a ben vedere, nella sua fondazione era possibile riconoscere il tentativo, compiuto da Napoleone, di riesumare l’antico regno italico di origine longobarda che, a partire dalla metà del VII secolo per arrivare sino al X-XI, si era esteso a larga parte della pianura padano veneta e della Toscana. Faceva eccezione la città di Venezia, antico dominio di origine bizantina, che i longobardi non riuscirono mai a piegare. Nel 774 il regno italico longobardo venne conquistato da franchi di Carlo Magno, i quali – in linea con le consuetudini medievali – conservarono il diritto e le strutture istituzionali fissate dai longobardi: difatti Carlo Magno – come i suoi successori – non governò il regno italico-longobardo come re dei franchi, bensì come re d’Italia: l’Italia longobarda, presto divenuta Lombardia, estesa a larga parte della Padania. La cerimonia dell’incoronazione mediante l’impiego della corona ferrea rivestiva una funzione di legittimazione presso il popolo lombardo-italico.
Il regno d’Italia napoleonico, negli anni della sua massima estensione politica (1810-1813), occupava una parte considerevole della valle padana fino a comprendere le Marche ex pontifice. L’Umbria, la Toscana, il Lazio ex pontificio e la parte restante della Padania occidentale (l’ex ducato di Parma e Piacenza, la Liguria e quasi tutto il Piemonte) furono territori annessi all’Impero francese, amministrato con prefetti nominati da Parigi. Nel Sud Napoleone aveva lasciato intatto quel che restava del Regno di Napoli, riconoscendo l’irriducibile diversità di queste terre rispetto alla parte centro-settentrionale della penisola. Affidò il governo del Mezzogiorno al fratello Giuseppe Bonaparte e, dal 1808, al cognato Gioacchino Murat.
Al Nord il Regno d’Italia con capitale Milano non riprendeva i confini dell’antico Regnum Italiae longobardo ma non è azzardato ritenere che Napoleone intendesse richiamare idealmente la tradizione storica dell’antico regno medievale. Basti pensare all’incoronazione di Bonaparte a re d’Italia avvenuta nel Duomo di Milano il 25 maggio 1805: ecco comparire di nuovo la corona ferrea, scelta non casuale perché segnava una certa continuità con la tradizione del Regnum Italiae longobardo. Come aveva fatto con i polacchi, Napoleone aveva quindi dato ai lombardo-italici un piccolo Stato nazionale in cui potessero riconoscersi, guardandosi tuttavia dall’unire la Padania sotto un solo regime politico istituzionale. La storgiografia risorgimentale ritiene che Bonaparte ostacolò la formazione di uno Stato nazionale esteso dalle Alpi alla Sicilia perché lo giudicava una minaccia per gli interessi francesi. Io penso che, più verosimilmente, egli ritenesse naturale la divisione secolare della penisola. In fondo il Regno d’Italia costituì per certi versi il tentativo di costituire una nazione lombardo-italica in ideale continuità con l’antico Regnum Italiae langobardorum. Intendiamoci. Questo non significa che mancassero a Milano patrioti sensibili al tema dell’unità della penisola: basti ricordare le poesie di Ugo Foscolo oppure i progetti editoriali finanziati dal governo italico come i volumi dei Classici italiani di economia politica diretti dal giacobino Pietro Custodi, al cui interno sono raccolte le opere di famosi economisti e giuristi italiani originari di ogni parte della penisola. Si ha però la sensazione che queste istanze unitarie italiane fossero proprie di una minoranza, anche all’interno della stessa classe dirigente napoleonica.
Tornando alla rivoluzione del 20 aprile 1814, il dato significativo è che a Milano – capitale, come si è accennato, di un vasto Stato padano – quasi tutti lavorassero concretamente per l’indipendenza. Perfino i funzionari italici più fedeli al viceré Eugenio Beauharnais, chiedevano un regno sottratto al dominio francese. Erano persone come il cancelliere guardasigilli e duca di Lodi Francesco Melzi d’Eril, il ministro delle finanze Giuseppe Prina, il ministro dell’interno Luigi Vaccari: tutti uniti nel chiedere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della valle padana.
Questo partito, il partito della “cabala” come era definito sprezzantemente dai nobili municipalisti avversi al regime napoleonico, era nettamente minoritario a Milano. Per certi versi fu un peccato: si trattava dell’unico movimento in grado di sostenere la battaglia per l’indipendenza al congresso di Parigi organizzato dalle potenze che avevano sconfitto Napoleone. Difatti, in quel fatidico aprile del 1814, il viceré resisteva valorosamente con il suo esercito contro gli austriaci dilagati in Veneto fino al Mincio. Il 16 aprile a Schiarino Rizzino, un castello non molto distante da Mantova, il Beauharnais aveva firmato con l’Austria un armistizio in base al quale gli veniva riconosciuto il diritto di inviare a Parigi una deputazione per sostenere i suoi diritti sul trono di Milano. Tale missione fu affidata a una deputazione composta dai generali Achille Fontanelli e Antonio Bertoletti, i quali partirono subito per la Francia. Il senato del regno italico, un collegio rappresentativo con potere prevalentemente consultivo, scelse di inviare due deputati tiepidamente filonapoleonici come Luigi Castiglioni e Diego Guicciardi. Essi non poterono raggiungere la capitale francese per lo scoppio della rivoluzione. Se la deputazione dei senatori fosse giunta a Parigi, non sarebbe stata operazione difficile ottenere il riconoscimento del Beauharnais come re d’Italia al posto di Napoleone, ormai esiliato all’isola d’Elba. Il viceré godeva infatti della potente amicizia dello zar Alessandro I. Egli era inoltre legato da un vincolo familiare al re di Baviera Massimiliano I di Wittelsbach avendone sposato la figlia Amalia Augusta. Ma il partito della “cabala”, quantunque fosse in grado di riscuotere alcuni consensi nell’Europa delle corti, era oggetto di un odio feroce da parte della popolazione lombarda che il 20 aprile non esità a insorgere facendo la rivoluzione.
Duramente provati dall’elevata tassazione che Napoleone aveva imposto al regno per finanziare le guerre francesi, sconvolti dalla morte di tanti giovani sui campi di Russia e di Germania che avevano militato valorosamente nella Grande Armée, i rivoluzionari lombardi volevano la fine del regime napoleonico. Quanti avevano aiutato il despota francese a sfruttare il popolo prestando servizio in posti di responsabilità nella burocrazia (ministri e direttori generali) furono cacciati. Ad essere colpiti furono principalmente i ministri del governo e non pochi funzionari della pubblica amministrazione. Nel mio lavoro ho dimostrato che gli impiegati pubblici modenesi e reggiani furono i più odiati dai lombardi per la loro fedeltà al regime napoleonico. Ma la reazione colpì quasi tutti i funzionari che erano stati ligi a Napoleone, anche quanti potevano vantare origini lombarde, venete o addirittura novaresi come il ministro delle finanze Giuseppe Prina: la feroce uccisione di questo funzionario, linciato dalla folla milanese con i puntali delle ombrelle, è descritta nel libro in modo approfondito sulla base di alcuni documenti risalenti a quell’epoca.
La stragrande maggioranza dei rivoluzionari lombardi si divideva sostanzialmente nei due partiti che si sono accennati all’inizio. Il primo raccoglieva i “cisalpini”: uomini appartenenti al ceto medio burocratico, alla borghesia lombarda del commercio e dell’artigianato, i quali chiedevano l’indipendenza di uno Stato esteso a larga parte della valle padana centro-occidentale. Come il partito dei funzionari fedeli al Beauharnais, essi aspiravano quindi a uno Stato padano italico. Diversamente dagli uomini del governo, questi lombardi chiedevano tuttavia che il regno fosse governato da un sovrano non appartenente alla dinastia napoleonica. Erano disposti a sostenere la candidatura di un principe di casa d’Austria il cui potere fosse limitato da una Costituzione disegnata sul modello inglese o sulla falsariga di una Costituzione moderata ispirata alla Carta francese del 1791. Varrà la pena ricordare tra gli esponenti più importanti di questo movimento il cremonese Gaetano Pietro Cadolino, il comasco Ludovico Giovio.
Il secondo partito era formato invece dalla nobiltà lombarda più tradizionalista, la quale aveva colto nel crollo del regime napoleonico una straordinaria opportunità per rifondare uno Stato assai vicino all’antico principato regionale visconteo-sforzesco ad egemonia patrizia: lo Stato che si era venuto formando nei secoli delle dominazione spagnola e nei primi cinquant’anni del XVIII secolo, nel primo periodo della dominazione austriaca. Questa nobiltà (Luigi Carlo Rasini, Alfonso Castiglioni, Giacomo Mellerio) chiedeva un regno indipendente limitato all’incirca all’attuale regione Lombardia, alla Liguria, all’alto e basso novarese, a una parte dell’alessandrino: un territorio quest’ultimo che si rendeva necessario per congiungere il Genovesato con il Milanese. Aspiravano anch’essi a un regno governato da un principe di casa d’Austria, ma era importante che l’assetto costituzionale del potere riprendesse i peculiari moduli di governo della società d’ancien régime: la gestione dell’amministrazione pubblica doveva essere esercitata in una sorta di regime a mezzadria tra la burocrazia professionale del monarca e la nobiltà locale. Tale partito era ben presente in seno al governo provvisorio succeduto a quello napoleonico.
Occorre ricordare che, tra quanti parteciparono alla rivoluzione, c’era anche una piccola frangia di patrioti italiani i quali, a voler prendere in esame le loro rivendicazioni sul piano geopolitico, possono considerarsi gli antenati degli attuali paladini dell’Unità d’Italia. Erano uomini assai vicini alla massoneria e alle prime sette carbonare, i quali si battevano per un regno esteso a gran parte della penisola, governato dal re di Napoli Gioacchino Murat.
Quando i rivoluzionari lombardi conquistarono il governo dello Stato in seguito alla rivolta popolare che portò all’assassinio del ministro Giuseppe Prina, fu inviata una nuova deputazione al congresso delle potenze alleate per ottenere il riconoscimento di uno Stato indipendente in una parte più o meno estesa della Padania centro-occidentale. Tali piani furono destinati al fallimento: il viceré Eugenio, amareggiato per l’odio che i lombardi nutrivano nei suoi confronti, sconvolto per la feroce uccisione del ministro Prina, firmò un trattato con l’Austria (capitolazione di Mantova: 23 aprile 1814) con il quale cedeva all’Impero asburgico quel che restava del regno italico nonché le stesse piazzeforti che ancora resistevano valorosamente al nemico. Gli austriaci si videro consegnare su un piatto d’argento quel che restava del regno italico, senza colpo ferire. Con tale atto di diritto internazionale il viceré non solo rinunciò ai suoi piani per succedere a Napoleone come re d’Italia; compromise gli stessi programmi dei rivoluzionari, i quali non poterono più contare su un esercito “nazionale” con cui far valere materialmente l’indipendenza dei territori lombardi. Come scrisse il patrizio milanese Federico Confalonieri alla moglie Teresa Casati, “noi siam venduti”.
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Il libro
TITOLO: I Lombardi contro l’Italia di Napoleone. La battaglia perduta per uno Stato indipendente in Padania AUTORE: Gabriele Coltorti; EDITORE: San Marino: Il Cerchio, 2012; PAGINE: 112


di GABRIELE COLTORTI