mercoledì 14 marzo 2012

TAV, UNA STORIA CHE RIMANDA ALLE TANGENTI DI RE VITTORIO

Innaugurazione della tratta ferroviaria Torino-Genova nel 1854

PREMESSA

Le odierne vicende della Tav (non solo della Valsusa, ma dell’intero faraonico progetto) ricordano da vicino una analoga vicenda “ferroviaria” che l’Italia ha conosciuto nell’Ottocento. Anche allora la costruzione di una nuova rete ferrata era diventata l’occasione di una grossa e corale rapina di pubbliche risorse, in cui si erano accatastati poteri forti, finanzieri internazionali, interessi di partito, macchinazioni di loggia e appetiti di potenti: lo stesso re Vittorio – il galantuomo – prendeva tangenti su tutti gli appalti pubblici e sulle ferrovie in particolare, al punto da venire maliziosamente chiamato “re traversina”. Anche allora assieme a linee e tracciati fondamentali e utilissimi si erano costruite ferrovie “politiche” e rami secchi: tutto era però costato cifre iperboliche, molto superiori a quelle spese da altri paesi e dagli stessi Stati preunitari per interventi analoghi. La retorica patriottica ha sempre sostenuto che la rete ferroviaria abbia pesantemente contribuito all’unificazione italiana e non ha tutti i torti. Speriamo solo che l’unità statale favorita dalle ferrovie possa finire proprio grazie a un’altra impresa simile: una operazione di cucitura effettuata con lentezza dai treni a vapore e una di separazione fatta con grande velocità da quelli attuali.
Sulla vicenda ottocentesca riportiamo un brano tratto da La strana Unità (Rimini: Il Cerchio, 2010).

«Quello delle strade ferrate è uno dei più grossi affari risorgimentali.
Dopo essere stato il primo a costruire una ferrovia in Italia (anche se in realtà è poco più di un divertimento per la Corte reale), Ferdinando II ha deciso di varare una moderna rete ferroviaria, facendo approntare i progetti e accantonare le somme necessarie: l’incarico di eseguire i lavori è affidato, mediante bando internazionale, alla società francese Talabot. Il 24 agosto 1860 Francesco II firma la concessione alla stessa società, rappresentata da Gustave Delahante, ma dietro la quale c’è James Mayer Rothschild che gestisce già parecchie ferrovie piemontesi, e che è anche un generoso finanziatore delle imprese del Regno di Sardegna: un legame “rafforzato” dall’intimità di due dei suoi figli, Gustave e Alphonse James, con la generosa e patriottica contessa di Castiglione.
Arrivato a Napoli, Garibaldi azzera le decisioni prese da poche settimane e decide di rivedere la destinazione dei finanziamenti. Per accaparrarsi gli appalti meridionali si danno da fare con ogni mezzo Pietro Augusto Adami (banchiere pisano, già deputato all’Assemblea toscana del 1859), Adriano Lemmi (livornese, banchiere anche lui, e cognato dell’Adami), Pietro Bastogi (patriota e finanziere livornese) e i soliti Rothschild. Tutto si muove naturalmente all’interno della fratellanza di loggia: in particolare giova ricordare che nel 1885 Lemmi diventerà Gran Maestro della Massoneria italiana. Il primo round lo vince Adami, che batte in velocità tutti gli altri facendosi ricevere da Garibaldi addirittura a Palermo, ben prima che il Generale possa occuparsi della questione a Napoli e anche prima che Francesco II firmi la concessione con la Talabot: un tempismo straordinario! Il Generale non può negare un favore al banchiere che tanto ha sborsato per il vettovagliamento dei Mille e per contribuire a pagare sottobanco l’armatore genovese Rubattino, ma ha obbligazioni “morali” anche nei confronti di altri “fratelli”.
Anche Adriano Lemmi è infatti uno dei finanziatori di Garibaldi; oltre a ciò aveva foraggiato anche la spedizione di Carlo Pisacane e per questo gode della gratitudine di Crispi e di Mazzini. Ad essi si rivolge per una “spintarella” e così il solerte Mazzini fa pervenire a Garibaldi una raccomandazione scritta, nella quale sostiene le ragioni del Lemmi assicurando che parte dei guadagni sarebbe andata a favore della causa comune; scrive infatti nel suo “pizzino” all’altro padre della Patria: «(..) dove altri farebbe pro suo d’ogni frutto d’impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito e non sua». È la prima volta che nella neonata Italia unita compare la variante (o giustificazione) partitica del furto: qui si crea l’illustre e patriotticamente blasonato precedente della tangente giustificata dal fatto che non vada a vantaggio di singoli ma del partito. La “dazione a fin di bene” rivela la sua paternità: Mazzini ne è l’inventore e Lemmi il primo utilizzatore, il primo dei tanti Severino Citaristi che riempiranno la storia dell’Italia unita.
Anche in virtù di questa spintarella, Garibaldi firma la concessione – con una delibera del 1° ottobre 1860 – di affidamento congiunto (per non fare torto a nessun “fratello) della costruzione di una rete ferroviaria nell’intero Mezzogiorno a due società toscane di cui sono titolari Adami e Lemmi. La prima parte della tangente va a finanziare una serie di periodici a Palermo, Genova, Firenze, Napoli e Milano, fra cui il foglio repubblicano Il Popolo d’Italia, un nome di sicuro avvenire patriottico. Della “ripartizione” del denaro si occupa Agostino Bertani, che ha “caldamente” appoggiato l’operazione e in particolare l’Adami.
I due “soci e fratelli” però non ce la fanno, nonostante le generose spese in progetti, consulenze e indagini a carico del contribuente. Il giornale napoletano Il Nazionale pubblica i resoconti da cui salta fuori che i due hanno avuto 100 milioni di ducati oltre quanto pattuito e che in ogni caso i costi sono superiori a quelli a suo tempo garantiti dalla Talabot-Delahante. Cavour approfitta delle reazioni politiche (più lotta fra bande che frutto di indignazione morale) per affidare parte delle concessioni meridionali alla Società Vittorio Emanuele costituita ad hoc con i soliti capitali dei collaudati amici Rothschild e di altri “fratelli” francesi. Anche questa soluzione trova però ogni sorta di opposizione parlamentare ed economica. Così – venuta meno l’affettuosa protezione di Cavour che nel frattempo è “provvidenzialmente” passato a miglior vita – il governo italiano affida, nel 1862, l’incarico a Bastogi.
Questo organizza una cordata di investitori cui prospetta un affare a rischio nullo, da portare avanti mediante subappalti e utilizzando i finanziamenti dello Stato: una manovra disinvolta come quella che aveva già tentato quale ministro delle finanze quando aveva preteso di fare pagare al nuovo Stato italiano i debiti che il Granduca di Toscana aveva contratto proprio con lui. Il Parlamento approva con una certa facilità: nel Consiglio di amministrazione della nuova Società per le Ferrovie del Sud con 100 milioni di capitale ci sono ben 14 deputati che votano a favore, salta poi fuori che altri 30 “onorevoli” hanno partecipazioni societarie. Viene organizzata una Commissione (una delle tante della storia d’Italia) che ovviamente insabbia tutto. Il Bastogi viene nominato senatore, e prenderà un bel po’ di soldi quando nel 1906 le ferrovie verranno nazionalizzate.»

di GILBERTO ONETO