giovedì 22 marzo 2012

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 23°): Da Salerno a Capua

Capua vista da Monte Sant'Angelo 1860

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.


L'anticaCapua era fabbricata nel luogo oggi chiamato Santa Maria delle Grazie; tre quarti di lega lontana dalla moderna. Capua antica era rinomata per le sue delizie e la sua possanza, tanto che la comparavano a Roma e Cartagine. Alcuni la vogliono fondata dai Tirreni quando furono cacciati da' Galli dalle sponde del Po; secondo Plinio e Virgilio le danno per fondatore Capys compagno di Enea: Cicerone la chiama il più bel patrimonio del Popolo romano. L'antica Capua è circondata di terre classiche e feraci ove si produceano i vini più squisiti, tra gli altri il rinomato Falerno. Nelle guerre tra Annibale ed i Romani, Capua abbracciò il partito di Annibale avendo questi promesso innalzarla a capitale dell'Italia. Da ciò si vede che simili seduzioni e promesse non son nuove alle città italiane. Però i Romani si vendicarono; dopo che assediarono e presero Capua, ridussero schiavo il popolo vendendolo all'incanto; flagellarono a colpi di verghe i Senatori e poi li decapitarono.
In seguito fu Capua distrutta da' Vandali, e rifabbricata da Narsete; e poi distrutta di nuovo da' Longobardi.
Delle antiche grandezze di Capua non resta che il magnifico anfiteatro, il quale è ancora decorato meglio di quello di Roma, ed è fabbricato con lo stesso gusto, ma con differenti ordini di architettura.
La novella Capua venne fondata nel secolo IX; è una piccola città di 12 in 13 mila abitanti, situata quasi a piè del Monte Tifata, oggi detto S. Nicolò.
Dalla parte del Nord e nordest è bagnata dal fiume Volturno, e si entra in città passando sopra due opposti ponti. Vi sono due poligoni spaziosi uno a destra l'altro a sinistra. Le fortificazioni di questa città sono opera del celebre Vauban; erano bastanti per lo passato ad arrestare per lungo tempo un forte esercito nemico che marciasse dalla parte di Roma sopra Napoli: oggi però, co' nuovi mezzi di guerra, Capua può resistere per un tempo brevissimo. È rimarchevole la Cattedrale di questa città con le sue colonne di granito tolte agli antichi edifizii, ed ove si ammirano alcuni quadri di Solimene e sculture di Bernini. Ma Capua come piazza fortificata ha troppi stabilimenti, chiese, monasteri ed ospedali; vi è pure la sala d'armi, e il laboratorio delle capsule fulminanti. Tutto questo ingombro affanna e scoraggia i difensori, maggiormente se bombardati. Capua oggi potrebbe chiamarsi un arsenale anzichè una Piazza forte.
Il fiume Volturno che scorre a lato di Capua nasce sul confine del Chietino, e scende tra Isernia e Venafro; volge verso Amoroso ove si congiunge con l'altro fiume il Calore che viene da Benevento; rigira e scorre tra Caiazzo e il Monte Tifata, e giù per Capua e Mondragone. Il Volturno dopo che si congiunge col Calore diviene molto profondo e non è più guadabile, se non in alcuni punti eccezionali e nelle stagione estiva.
Come già ho detto, le due brigate di Salerno giunsero a Capua la sera dell'8 Settembre, e restarono più di due ore sul poligono dalla parte destra del fiume. Alle 10 della sera giunse l'ordine che quelle due brigate marciassero alla volta di Teano, paese dodici miglia al Nord di Capua. Quella notte fu orribile pe' poveri soldati, a quali convenne lottare con gli elementi scatenati contro di loro. Non appena partiti dal poligono, furono assaliti da un temporale che io non avea visto mai in vita mia l'eguale. Una oscurità perfetta rischiarata spesso ed orribilmente da' fulmini che ci scoppiavano vicinissimi; l'acqua cadea a secchi da farci perdere il respiro; e per maggior disagio un torrente o fiume uscì dal suo letto, e si traboccò sulla strada rotabile ove noi camminavamo. Quella strada era fiancheggiata da alte mura, quindi andavamo innanzi con l'acqua sopra i ginocchi! I soldati non perdettero la pazienza, anzi diceano de' frizzi molto spiritosi, che ci faceano ridere anche nello stato in cui ci trovavamo.
La mattina sul tardi si giunse in Teano, e in quale stato, senza che io lo dicessi, si potrebbe immaginare. Tutta la truppa rimase fuori l'abitato esposta ad una pioggia continua e senza mangiare; a sera molto tardi si ebbe un poco di pane.
Il Maresciallo Gaetano Afan de Rivera comandante di quella truppa, la sera invitò al suo alloggio gli uffiziali suoi dipendenti, e fece un discorso tanto poco militare, condito di notizie insussistenti che indegnò e fece ridere anche i più ottimisti. Il sig. Maresciallo comandante in capo di quelle due brigate, invece di pensare al benessere de' soldati, avea quella sera altri affari al suo alloggio!
Tutta la truppa che rimanea al Re si riuniva dietro il Volturno, ed era disseminata in tutti que' paesi di Teano, Pignataro, Bellona, Formicola, Pontelatone, Caiazzo, ed altri paesetti. Ve ne era parimente dentro Capua, e questa era la più fortunata.
Si pensò a riordinare l'esercito ed incorporare ne' Reggimenti e Battaglioni que' soldati che giungeano a torme dalle Calabrie, dagli Abruzzi, e dalle Puglie. Era uno spettacolo affliggentissimo vedere tanti prodi soldati la maggior parte disarmati, laceri, scalzi, defatigati pel lungo cammino fatto, affine di schivare i luoghi occupati da' garibaldini e raggiungere il Re; però animavansi appena giunti in mezzo a' loro compagni; e pria di chiedere del pane, essendo affamati, chiedevano un'arme per cancellare le patite onte. Se qualcheduno domandava a que' prodi e fedeli soldati; perché siete venuti fin qui? potevate andarvene alle case vostre. Rispondeano: «Il nostro Re è qui, e qui ci chiama il nostro dovere.» Se io per mia disgrazia fosse Re, sarei il sovrano più prodigo verso quei soldati! Non senza ragione lo stesso Garibaldi disse: «Con la truppa napoletana andrei dovunque.
Il colonnello piemontese Mella prorompendo in una triviale bestemmia, dando un forte pugno sul tavolino esclamò: «Ma se a questi soldati si spacca il cuore di trova l'effigie del loro Re! «Guai a te o colonnello Mella, e alla tua patria, se nel tuo cuore di soldato, ed in quello dei tuoi compagni d'armi non vi fosse l'effigie del vostro Re! Oh, qual conto dovranno rendere a' loro concittadini, e a Dio, que' Generali napoletani che fecero di tutto per ricoprire d'onta e di vituperio tanti onorati e prodi figli della bella patria napoletana...! Il re partendo da Napoli avea lasciato l'ordine, che tutti gli uffiziali che si trovassero in questa città e non appartenessero a' Reggimenti che occupavano i castelli, dovessero raggiungere immediatamente l'esercito dietro il Volturno. Alcuni non vollero obbedire, altri ingannati da' proprii superiori rimasero in Napoli, e tra gli altri il distinto maggiore di Stato Maggiore, Raffaele Riario Sforza, e non già ingannato dal generale del Balzo, presso cui era destinato, come asserisce il Capitano dello Stato Maggiore Tommaso Cava nella
Difesa Nazionale;
pag. 107. Altri uffiziali credendo allo scioglimento dell'esercito, accorsero in Capua con la speranza di ritornare a Napoli in poco tempo.
Questi ultimi dovettero servire contro voglia nel rimanente della campagna, e si dimostrarono i più cattivi e sleali soldati. La maggior parte o disertarono, o faceano di tutto di persuadere i propri dipendenti di non battersi contro il nemico e di disertare. La gran maggioranza però degli uffiziali volenterosi seguì l'esercito, sacrificando tutto, com'era loro di assoluto dovere. Essi splendono oggi come chiari tra le fosche ombre d'un dipinto.
Dietro la diritta riva del Volturno, si cominciò il riordinamento dell'esercito in tre divisioni di fanti, ed una di cavalli. La prima divisione comandata dal generale Filippo Colonna, con due brigate condotte una dal brigadiere Barbalonga, altra dal colonnello la Rosa. La seconda divisione comandata dal maresciallo Gaetano Afan de Rivera, anche con due brigate col brigadiere Won Meckel, e col colonnello Polizzy, della quale io faceva parte. La terza divisione comandata dal generale Luigi Tabacchi in tre brigate condotte da' colonnelli Marulli, d'Orgemont e Giuseppe Ruiz de Ballestreros, l'eroe
di Calabria!
Il generale Giuseppe Palmieri comandava la divisione di cavalleria in tre brigate condotte da' brigadieri Echanitz, Sergardi, e dal colonnello Russo. Generale in capo di tutto l'esercito il Maresciallo Giosuè Ritucci. Era costui un distinto militare, il suo stato di servizio è brillante, e più di tutto nel 1848 si era ben distinto, principalmente quando re Ferdinando II mandò un corpo di esercito in Lombardia per coadiuvare i Piemontesi a cacciare i Tedeschi dall'Italia. Egli da semplice maggiore in Venezia, mostrò una ammirevole fermezza civile e militare per infrenare la tracotanza del Generale in capo Guglielmo Pepe, e le gherminelle del Governo Sardo. Nel 1860, sia l'età, sia la farraggine delle politiche vicende non si mostrò all'altezza de' tempi e delle circostanza; sembrò non essere più il Ritucci di Venezia. La fatale e inopportuna Costituzione ammodernata del 1860, tolse energia, coraggio e buon senso a tanti eminenti uomini politici e militari, devoti al Re e alla Patria napoletana.
Ritucci mostrossi fiacco ed indeciso quando fu destinato al comando della Piazza di Napoli sotto il ministero liberale Spinelli. Egli, a quel posto invece di proclamare lo stato di assedio quale lo volle il ministro fedifrago, avrebbe dovuto proclamarlo in senso che lo proclamò il duca generale S. Vito, o Cutrofiano. È pur vero che costoro furono vinti dalle mene e dalla potenza di D. Liborio, ma almeno fecero quello che doveano fare gli uomini onesti e fedeli al Re.
In Capua, il Ritucci da Generale in capo non fece quanto si aspettava da lui. Era
egli dominato da una idea incompatibile al posto che occupava, cioè quella di volere vincere la rivoluzione senza versar sangue. Io non voglio e non posso censurarlo per questa sua strana idea; dico solamente, che non dovea accettare quel posto.
Ho letto con attenzione i Comenti Confutatori
che il Generale in capo Ritucci fece alla storia del Cav. de Sivo, e la corrispondenza di questi due personaggi circa i fatti guerreschi di Capua. Le confutazioni e le ragioni di quel Generale mostransi deboli per distruggere tutta la critica che fa questi distinto storico. Quegli allega teorie spesso astratte, questi accenna fatti incontrastabili in opposizione alle teorie. So che mi si potrebbe dire, che né io, né de Sivo siamo giudici competenti a giudicare la strategia, il modo di contenersi di quel Generale in Capo nella campagna militare sul Volturno del 1860. Io rispondo che lo storico fa poco conto delle teorie guerresche, maggiormente, quando queste sono contrarie alle circostanza, e quando sono state oppugnate d'altri uomini distinti nell'arte della guerra. Le ragioni del Ritucci han sempre l'impronta della indecisione: - e quindi il fatale temporeggiare che fece tanto danno a quella campagna militare: - la supposizione che Napoli e il Regno intiero fossero contro la causa del Sovrano; - e quindi la peritanza di agire contro la supposta opinione pubblica: - ed infine la credenza che Garibaldi fosse un generale assai strategico e forte da contrastare al valore del residuale esercito delle due Sicilie: - e quindi l'altra perdita di tempo nella discussione del suo disegno di guerra, e dell'altro proposto dal Ministero di Gaeta. E perché si scelse quest'ultimo, il Ritucci lo mette a base della perdita della battaglia del 1° ottobre, e si atteggia a vittima predestinata. Ritucci non volle adottare il consiglio del generale francese Changarnier il quale invitato a fare un disegno di guerra per combattere Garibaldi, rispose: un disegno di guerra si fa contro un Generale, contro un Garibaldi il miglior disegno è andarlo ad assalire dove si trova.
Ritucci, ne' sopraccennati Comenti,
suppone il de Sivo soggetto all'influenza dei suoi nemici per destinarlo qual capro espiatorio degli errori commessi nella campagna militare di Capua. Io, che nell'esilio di Roma, ebbi l'onore di essere amico di questo distinto storico, al quale comunicai non poche notizie sulla guerra del 1860 e 1861, posso assicurare, che scrisse sopra i documenti datigli da S.M. Francesco II, e quelli che il Ritucci chiama suoi nemici, non solamente non influivano sull'indipendente storico, ma non erano guardati di buon occhio da costui.
De Sivo fervente cattolico e legittimista puro non era uomo di farsi sedurre da chicchessia. Coloro, che Ritucci chiama suoi nemici, proteggevano ed imbeccavano sotto il pseudonimo di Lucio Vero.
I difensori del Ritucci dicono, che costui non avea libertà di azione, perché lo Statuto costituzionale vigente allora gli legava le mani. Ciò non è vero; anzi, come appresso vedremo, il Ministero Costituzionale di Gaeta lo spingeva sempre ad operare energicamente contro Garibaldi; ed egli volea sempre rimanere sulla difensiva. Io altra difesa non trovo pel Ritucci, se non quella, che i mutati ordini politici del Regno, gli fecero perdere quell'energia che avea sempre dimostrata. Quest'incubo fatale non fece più né operare né pensare, come si dovea, a tanti uomini distinti,
fedeli al Re e all'autonomia del Regno. Tutti questi uomini non vollero capire, che, con le costituzioni ammodernate è necessario operare con grande energia, e l'esempio ce l'han dato e ce lo danno ogni giorno gli stessi rivoluzionarii o liberali, tanto teneri di Costituzioni e di Sovranità popolare.
Ritucci a giustificar e la sua inerzia, si sa che fece di tutto per essere ucciso il 1° ottobre e non vi riuscì.
Dietro il Volturno ed in Gaeta si ricomponevano i Reggimenti ed i Battaglioni con i soldati sbandati che giungevano da diversi punti del Regno.
Furono ricomposti il 1° di linea in Gaeta, ed altrove il 2° 4° 11° 12° 13° e 15°. De' Battaglioni Cacciatori il 1° 3° 11° 12° 13°.
Intanto, i duci napoletani non trascuravano la gran tattica militare seguita sino allora, cioè defatigare i soldati inutilmente con marce e contro marce: que' duci in pochi giorni ci fecero girare tutti que' paesi che si trovano tra Capua, Caiazzo e Teano.
Il numero de' combattenti riuniti dietro il Volturno ascendeva a quaranta mila uomini. Vi erano buone artiglierie, e quarantacinque squadroni di Cavalieri che ancora non aveano sguainata la sciabola; i soli pochi cacciatori a cavallo si erano battuti da valorosi in Sicilia.
Il Generalissimo Ritucci asserisce ne' suoi Comenti Confutatori,
che tutto l'esercito di Capua non oltrepassava i ventotto mila uomini: ciò non dee far maraviglia, è sistema de' comandanti in capo ridurre sempre il numero de' combattenti, e specialmente quando la fortuna loro è stata contraria nelle battaglie. Oppure egli valuta quelli soltanto impegnati il 1° Ottobre.
I mezzi per mantenere quella truppa erano scarsissimi, sia perché il Re quando lasciò Napoli era indeciso se dovesse sciogliere l'esercito e prendere la via dell'esilio, o tentare la sorte delle armi e riconquistare quello che avea perduto: sia perché le casse militari preparate per Capua e Gaeta furono trattenute in Napoli da' tradito ri. Però i giovanetti fratelli del Re Francesco, il Conte di Trani e l'altro di Caserta, i quali accompagnarono l'esercito a Capua, avendo osservato che tutti i soldati erano frementi di battersi e cancellare le patite e non meritate vergogne, corsero a Gaeta, e consigliarono al fratello e Sovrano di non abbandonare il Regno, e tentare la sorte delle armi.
Il Re conosciuto l'errore ove l'aveano condotto tutti quei traditori che avea tanto amati e beneficati, stracciò la proclamazione con la quale dava l'addio a' suoi ama tissimi popoli, e si decise a mostrare il viso al nemico, mettendosi alla testa del suo fedele esercito. Ciò avvenne appena giunto a Gaeta; immediatamente decretò il riordinamento dell'esercito, e diede fuori un ordine del giorno, ch'è il seguente.
«Soldati. È tempo che la voce del vostro Re s'oda nelle vostre file, di quel Re che crebbe tra voi, che tutte le cure vi prodigò, e che ora viene a dividere la vostra sorte. Non sono più tra noi gli illusi e i sedotti che hanno immerso il Reame nel lutto; però fò appello all'onore ed alla fedeltà vostra, perché fatti gloriosi cancellino l'onta della codardia e de' tradimenti. Siamo ancora tanti da fiaccare un nemico combattente con le armi delle seduzioni e degl'inganni.
Volli sin'ora molte città risparmiare, ma ridotti sul Volturno e sul Garigliano, aggiungeremo altri umilianti ricordi alla nostra condizione di soldati? Permettereste che il vostro Sovrano lasciasse il trono e vi abbandonasse all'infamia imperitura? No, in questo supremo momento raccogliamoci attorno alle bandiere per difendere i diritti, l'onore, e il nome napoletano, già scemati. Che se ancora v'hanno seduttori che v'additano a modello gli sciagurati, corsi per viltà al nemico, ricordate invece que' bravi che seguendo le sorti del Ferdinando IV, s'ebbero lodi universali, e regia gratitudine e beneficenza. Quel bell'esempio vi sia di gara generosa; il Dio degli eserciti proteggerà la giusta causa nostra.
Quest'ordine del giorno, o proclamazione del Sovrano, fu accolta con indescrivibile entusiasmo dell'esercito: la commozione all'udirla fu generale. E come non commuoversi alla proclamazione di uno sventurato giovinetto re, tanto benefico, tanto cavalleresco, indegnamente tradito, che ci additava la via dell'onore e della gloria...? Ed io dopo tre lustri nel ricopiarla dal mio itinerario, sento contrarre le mie fibre, il sangue di Giovanni da Procida che scorre nelle mie vene accendesi.... vi confesso, che ho lanciato un anatema a' tutti traditori di quel Re, oggi tanto disprezzati e maledetti..!
L'esercito napoletano altro non desiderava che di essere guidato alla pugna per cancellare le onte patite; e la voce dell'amato Sovrano giungeva cara al cuore di que' soldati; i quali finalmente apprendevano, da chi non potea ingannarli, che la diserzione è sempre una viltà, che il combattere un nemico il quale invade il Regno è un dovere, un eroismo patrio. Sentimenti che il soldato sentiva nell'anima sua, e che si era tanto lavorato per isnaturarli o estinguerli.
Parecchi uffiziali, udendo quella proclamazione, chi per viltà, chi per non perdere l'avvenire che speravano dal nemico, la notte disertarono: e sarebbe stata una gran fortuna, se se ne fossero andati a la malori tanti altri vili e traditori che ci accompagnarono anche nell'esilio in Roma!
Il maresciallo Raffaele Pinedo era comandante la Piazza di Capua, ed avea avuta la compiacenza di promettere a Garibaldi la sua cooperazione per farlo entrare in quella Piazza senza colpo ferire, e fu egli la causa di quell'imprudente assalto che diedero i garibaldini il giorno 19 settembre, a' quali costò tanto sangue. Il Pinedo vedendo che l'esercito invece di essere sciolto, combatteva valorosamente, anzi guerreggiava il nemico, si diede per ammalato; scoperte in tempo le sue magagne fu sostituito dal generale de Corné, poi dal generale Salzano. Fu ordinato il suo arresto per essere sottoposto ad un Consiglio di guerra, ma si ebbe la dabbenaggine di fargli sentire la bufèra che lo minacciava, e gli si diede il comodo di fuggire in S. Maria di Capua, ov'era il nemico, in veste da camera e pianelle, conducendo seco tutta la sua famiglia. Tra la specialità de' disertori, è da rammentare quella di Giovanni Garofalo, uffiziale superiore di Stato maggiore che fuggì colla divisa e perfino montato: egli è uno dei beneficati dai Borboni....
All'entrata di Garibaldi in Napoli, il ministero lasciato da Francesco II si sciolse, rimase il solo D. Liborio,
e fu ministro di Garibaldi: degli altri ministri chi tornava a vita privata, chi lasciò il Regno, ed andò all'estero. Il Re profittando delle rinunzie di quei ministri, creò a Gaeta un nuovo ministero, così composto: il generale Casella ministro della guerra e presidente. Il marchese Pietro Ulloa ministro dell'interno e giustizia; Canofari degli esteri, Carbonelli delle finanze lavori pubblici e culto. Indi chiamò a direttore della guerra Antonio Ulloa. Cotesti ministri non era concordi in fatto di politica.
Il nuovo Ministero di Gaeta, in forza dell'articolo 67 dello Statuto Costituzionale, sciolse la Guardia nazionale di Teano, Pignataro, e Capua dichiarando queste Città sede di guerra, e il dì 11 Settembre si proclamò lo stato di assedio.
Si fondò in Gaeta la Gazzetta ufficiale,
direttore il benemerito sig. Michele Farnerari, dopo che il noto storiografo Mauro Musci credè declinare dall'onorevole incarico, forse per pochezza d'animo. Il primo numero uscì il 14 Settembre.
Con decreto del 10 Settembre si concesse alle vedove ed orfani dei militari morti in battaglia le pensioni uguali al soldo de' loro defunti. A premiare tutti quelli impiegati civili, non che tutti gli uffiziali che aveano passato il Volturno dopo la partenza del Re dalla capitale, si decretò che la durata del loro servizio si contasse doppia, cioè fossero dispensati di servire per 40 anni, non si tenesse conto de' 65 anni di età, e de' due anni dell'ultimo grado, ma ricevessero il soldo intiero al ritirarsi di ufficio, e l'onore di un grado in più.
Al 14 dello stesso mese, una lettera del Ministro della Guerra, Casella, dichiarava disertore chi de' militari chiedesse licenza, o si fosse allontanato dalla bandiera: a soldati poi si dava il congedo appena avessero finito il tempo, ma furono pochissimi que' soldati che ne approfittarono: quasi tutti diceano: «quando il nostro Re non ha più bisogno di noi, allora ritorneremo alle nostre case.»
Il Generale de Benedictis comandava gli Abbruzzi. Si vuole che questo Generale si fosse creduto offeso ed umiliato quando nel 1859 lo si propose al Pianelli nel comando del Corpo di esercito che occupava allora gli Abbruzzi. Non è questa una ragione per far diventare settario e traditore un Generale. Il certo si è, che il de Benedictis si mostrò fedele al Re nel principio della rivoluzione, e pianse quando intese la diserzione di suo figlio Biagio, il quale fu uno de' primi disertori dalle bandiere ne' fatti d'armi di Sicilia: non sappiamo però se quel pianto era simile a quello di Giulio Cesare (come alcuni vogliono) alla vista della testa del suo rivale Pompeo. De Benedictis tanto ossequente e cortigiano, appena vide la rivoluzione trionfante, cambiò livrea e linguaggio. Prima domandò la dimissione, e il giorno 10 Settembre scrisse a Napoli al Ministero della guerra di Garibaldi:
Pochi militari dementi e perfidi di cui le dirò i nomi
vogliono avvelenare il tripudio universale. Ho riparato pel Forte d'Aquila, per Pescara si minaccia la mia vita e quella del comandante (Colonnello Piccolo). I nazionali non bastano contro la truppa, mandate un battaglione
per mare ad Ortona a tener Chieti.» Infine svelava il numero de' soldati e le condizioni in cui si trovavano costoro ed il Forte. Che ne dite, lettori miei, di un Generale che fa la spia contro i proprii soldati, e che domanda maggiori forze al nemico per opprimerli?
Simili fatti non si riscontrano nelle storie della umane malvagità, era riservato ad un de Benedictis darci questo ributtante spettacolo di fellonia nel secolo che si dice incivilito. Un de Benedictis che servito avea lunghi anni sotto del Carretto, e tanto che fu prescelto per riorganizzare la Gendarmeria, e la Polizia in Toscana, per cui compensato venne con gradi ed onori! Egli, che oggi fa il progressista!
Il Forte di Pescara, ben presidiato e munito ebbe a cadere, non solo pei tradimenti del de Benedictis, ma per le manovre settarie del Colonnello Piccolo, il quale prendeva l'imbeccata da quel tristo Generale. Costui per ingannare i soldati, vedendoli tenaci alla patria bandiera, fece dire a costoro che il Re avea abbandonato il Regno, e che avea sciolto l'esercito. Il Tenente colonnello Pirelli comandante di sette compagnie del 12° Battaglione cacciatori avrebbe dovuto condurle o a Capua o a Gaeta, ma poi volle essere ligio alle ordinanze di Piazza, le quali erano un controsenso giacchè tendevano a sciogliere la disciplina, e disconoscere il proprio sovrano. Lo storico de Sivo accusa Pirelli come unito al Comandante Piccolo per togliere al Re quelle soldatesche: il certo si è che Pirelli patì arresti, ma si legittimò, e fu poi promosso regolarmente. Molti uffiziali di quelle sette compagnie, si dichiararono per la rivoluzione, il resto per l'onor militare e pel Re.
I due aiutanti Maggiori Giacomo Ditta ed Escamard, uniti ad altri uffiziali si opposero agli ordini ed alle mene di Piccolo e di de Benedictis; ma costoro la vin sero con fare sciogliere quelle sette compagnie. Nondimeno i due Aiutanti Maggiori sullodati, coadiuvati da altri onesti uffiziali, raccolsero quattrocento soldati, e vol sero a Capua, ove furono ancora riorganizzati come 12° Cacciatori: ed il benemeri to Giacomo Ditta fatto Maggiore fu destinato a comandare quel battaglione. Gli uffiziali di Pescara, quelli felloni, corsero a Napoli e riconobbero il governo di Garibaldi, e così s'assicurarono i soldi, scopo principalissimo delle loro gesta.
Il Maresciallo Flores, come ho già detto, si trovava in Bari con una brigata, che poi condusse a Bovino. Il Maggiore Maresca, dopo di aver favorita la rivoluzione di Foggia, ebbe ordine da Flores di raggiungerlo a Bovino, ma il Maresca andò invece a Lucera e proclamò il governo di Garibaldi, dal quale fu fatto Colonnello e pro mossi gli altri uffiziali compagni del Maresca.
Il Flores, in luogo di continuare la marcia alla volta di Capua per unire la sua brigata al resto dell'esercito, rimaneva in Bovino, ed aspettava gli avvenimenti per mettere giù la maschera. Ricevuti due telegrammi in cifre, il 9 settembre tira diritto ad Ariano ove era trionfante la reazione, ed ove i soldati furono accolti ed acclamati. Il Flores senza giovarsi del favore di quelle popolazioni, anzi contrariato di trovarle fedeli al proprio sovrano, scrive la seguente lettera al brigadiere Buonanno suo dipendente:
Vi consiglio e vi comando,
pel bene dei bravi soldati di porvi nelle file del Dittatore: lasciate qualunque incertezza: ditelo al Trigona e al Cosenza, e a tutti i Capi di Corpo, io assumo la responsabilità avanti all'Europa. Altra speme non ha la misera Patria che vedervi fedeli soldati dell'eroico uomo della Provvidenza, e
servire a lui con reprimere le reazioni popolari che sanno di barbarie. Decidetevi da italiani.»
Fanno veramente nausea questi duci pieni di galloni e di gingilli, i quali fecero gli assolutisti ed i terroristi in tempo di pace, inchinandosi sino a terra al solo sentire nominare un servitore de' Borboni, e poi ad un tratto cambiano livrea e linguaggio, predicando Patria ed italianità che non vollero mai riconoscere: e tutto questo per non perdere il comando, e la Santa
pagnotta..!
Bonanno, che dovea subito condurre a Capua la brigata, si contentò di leggere a soldati le proteste del Re; e tenuto un consiglio, decise dare il congedo a chi il volesse. Vedete quanta sapienza in quest'altro duce: mentre legge le proteste del Re contro la rivoluzione che volea abbattere, scioglie una brigata! Tutti i soldati rifiutarono il congedo, e Bonanno fu costretto a prendere la via di Capua. Però, sopraggiunsero alcuni soldati sbandati - forse mandati da Flores -dissero essere tutto finito, il Re già partito per la Spagna. Allora la brigata Buonanno cominciò a sbandarsi; i primi furono i gendarmi, poi il 13° di linea. Due uffiziali rubarono le casse de' reggimenti e fuggirono per farsi liberali. Il maggiore Cosenza aiutato da molti uffiziali riunì un gran numero di soldato, e si decise condurli a qualunque costo a Gaeta; Buonanno li seguiva come un automa.
Ariano in completa reazione turbava Garibaldi. Costui spedì Turr con illimitata potestà di punire quel paese. Gli uffiziali disertori della brigata Buonanno raccontarono a Turr lo stato di quella brigata. Questi avea pochi garibaldini, propone patti di resa, e Buonanno da vero buonuomo
accetta, mentre avrebbe potuto continuar la marcia verso Capua o Gaeta. I soldati però non vollero sottomettersi a' patti della resa, e continuarono la marcia alla volta di Gaeta, condotti sempre da' maggiori Trigona e Cosenza. Lungo la via, gli uffiziali traditori fecero in modo che quella brigata si sciogliesse di nuovo, ed ottennero lo scopo. Cotesta truppa lasciò sulla via 150 tra muli e cavalli, che furono raccolti dal nemico.
Il Buonanno in Gaeta patì arresti ed un giudizio militare, ebbe la benigna sentenza di non essere colpevole; è certo però che fu sciocco e vile.
Con futili pretesti fu tolto da Siracusa il comandante Rodriquez, perché non accetto a' rivoluzionarii, e gli fu surrogato il generale Locascio. Costui appena s'insediò in quella fortezza, unito al colonnello Galluppi comandante l'1 1° di linea, sin dal 29 agosto cominciò a spargere la notizia che il Re fosse partito da Napoli per Trieste, e quindi che i soldati doveano affratellarsi co' rivoluzionarii. Intanto il 31 dello stesso mese scriveva al generale Fergola comandante la Cittadella di Messina, da cui dipendea, che la fortezza era aperta, e che i soldati stavano in contatto con le truppe italiane,
conchiudeva con domandargli danari per continuare la difesa di Siracusa. Fergola gli rispose indegnato, e gli disse che il suo dovere era prescritto nell'art. 142 delle ordinanze, ma gli mandò ducati diecimila e cinquecento col vapore francese l'Assirien;
e gli uffiziali di tesoreria che portarono quel danaro in Siracusa assicurarono la guarnigione che il Re era a Napoli, e che fidava sul valore e lealtà dell'esercito. A questa notizia, i soldati gridarono Viva il Re, e dissero male del generale Locascio.
Intanto questo altro ingrato generale fraudolentemente avea mandato a Napoli suo figlio, già tenente dello stato maggiore, e suo aiutante di campo per prendere informazioni sullo stato delle cose. Il tenente Locascio ritornò da Napoli ne' primi giorni di settembre, e fu ricevuto in trionfo dal colonnello Galluppi, da tutti li uffiziali di stato maggiore e da' rivoluzionarii siracusani, perché recava quelle notizie che costoro desideravano: e tutti organizzarono una dimostrazione rivoluzionaria. Trovavasi quel giorno alla Granguardia il tenente Andrea Pisani Massamormile, e conosciuto che il proprio Colonnello era il Capo de' dimostranti, disse al generale Locascio che si sarebbe opposto a que' vergognosi baccanali militari qualunque si fossero gl'individui. Locascio rispose: «fate quello che credete, io non ho più potere, già il reggimento si è dato a' rivoluzionarii.» Quel reggimento non si era dato punto a' rivoluzionarii, ed era una studiata calunnia di quel generale per appropriarsi i diecimila e cinquecento ducati che avea ricevuti per somministrare le paghe a' soldati: ed in effetto se li appropriò; forse poi li consegnò a Garibaldi.
La dimostrazione si fece; ma il tenente Pisani alla testa de' soldati della Granguardia prese un atteggiamento ostile verso i dimostranti: tanto che il Colonnello Galluppi comandante di que' soldati, e gli ufficiali dello stato maggiore conduttori di quella plebaglia briaca che gridava viva e morte,
ebbero l'umiliazione di scansare il posto della Granguardia pel timore di essere trattati secondo il loro merito.
Tutto quel giorno si fece festa, e delle botti di vino furono messe a disposizione dei dimostranti.
Dopo que' saturnali, il Galluppi volle capitolare, consegnò la Fortezza a' garibaldini, e condusse i suoi soldati fuori porta di Mare, e tenneli ivi sette giorni, provveduto di vettovaglie fornite dal Comandante garibaldino; il quale suscitava in tutti i modi la diserzione degli uffiziali, e soldati, per incorporarli ne' Cacciatori delle Alpi.
La guarnigione di Siracusa fu imbarcata parte per Reggio, parte per Napoli, ove giunse il 15 Settembre. Il generale Ghio quello di SovariaMannelli Comandante garibaldino della Piazza di Napoli, per far cosa grata a Garibaldi, fece pubblica mostra per la via di Toledo di que' traditi soldati allora giunti da Siracusa. Indi li fece condurre nel largo di S. Giovanni a Carbonara, ed un Colonnello Garibaldino invitò tutti a rimanersi col Dittatore, promettendo gradi maggiori di quelli che aveano. Nessuno volle rimanere: i soldati lasciarono i fucili e presero la via di Capua scortati a vista dal tenente Andrea Pisani, dall'Alfiere Lorenzo Fisichella, e d'altri sottuffiziali vestiti alla borghese. Giunti a Capua, il tenente Pisani fu destinato a comandare la frazione dell'11° Reggimento; e rimase a quel posto tanto onorifico, dovuto al suo coraggio e alla sua fedeltà, ad onta che fossero poi sopraggiunti due Capitani dello stesso corpo.
La Fortezza di Augusta si rese per la vigliaccheria del Colonnello comandante Pietro Tonson Latour, e si vuole per le mali arti del maggiore Ardanese comandante le compagnie del 15° di linea. Latour scrisse a Fergola che il popolo di Augusta
domandava la Fortezza, ed era giusto,
dapoichè dovea essere trattato come quello di Siracusa. Fergola gli rispose, che studiasse le ordinanze, e facesse il suo dovere. Latour, senza essere minacciato, fece un contratto col Municipio di Augusta per imbarcarsi e restituirsi a Napoli. Il dì 17 Settembre partì, il Console francese volea farlo tornare addietro, ma si oppose il Comandante del Vapore il Protis.
Giunti a Napoli i soldati di Augusta in numero di 549, furono interrogati se volessero rimanere con Garibaldi; tutti si negarono: 190 vollero andare alle loro case, e 359 s'imbarcarono sul Protis
e furono condotti a Gaeta.
Tutto il Regno era in potere di Garibaldi, Francesco II possedea la sola linea da Capua a Gaeta.
Rimaneano tre sole Fortezze in tutto il Regno, cioè Baia, Civitella del Tronto e la Cittadella di Messina. In quest'ultima, come ho già detto, era Comandante il brigadiere Fergola, il quale si mostrò sino alla fine fedele e prode soldato.
Era egli spesso tentato dal Console sardo Lella a tradire il Sovrano, e si liberò da quel cicalone con modi cortesi ed insieme dignitosi.
Non ostante la convenzione, i garibaldini attaccavano spesso gli avamposti regi, ed i soldati rispondeano senza esitare, anzi sempre più si scaldavano nella difesa.
Il 10 settembre il Fergola mandò a Gaeta sul piroscafo francese Assirien
una deputazione, a capo della quale il distinto Colonnello Conte Cesare Anguissola. Il Re l'accolse benignamente; lodò l'Anguissola, e gli altri uffiziali e soldati componenti la suddetta deputazione, che era di sette uffiziali, e due soldati di ciascun corpo della guarnigione della Cittadella, e mandò il seguente ordine del giorno: «Gaeta 14 settembre 1860. Soldati. Lontano da voi, e da' vostri bravi uffiziali, sento il bisogno di manifestarvi di esser pago del contegno e valore della guarnigione. Le fatiche durate, e l'avvenire accresceranno a voi la gloria, all'armi napoletane onore. Ubbidire a superiori, questo è il primo movente della vittoria. Ricordate che sono Re e soldato, che, cresciuto tra voi, palpito di gioia udendo i vostri bei fatti; ricordate di difendere una fortezza di storica rinomanza, e che i miei pensieri sono per voi. Benedica il cielo le armi vostre, e un dì ciascuno di voi potrà dire: io nel 1860 fui tra' difensori della Cittadella di Messina.»
Al ritorno della deputazione, Fergola pubblicò l'ordine del giorno del Sovrano, il quale crebbe l'entusiasmo de' soldati. Fu promosso a Maresciallo il Fergola, e furono promossi a brigadieri i Colonnelli Aldanese, Martino, Cobianchi ed Anguissola. Quest'ultimo è fratello di Amilcare, quello che diede il primo esempio della diserzione della Marina Napoletana. Quale differenza tra questi due fratelli! Allorquando ragionerò della resistenza e resa della Cittadella, dirò pure i segnalati servizii che rese a quella fortezza il distinto ed istruito generale Conte Cesare Anguissola!
Il 15 ottobre cominciò a mancare il danaro e le vettovaglie: i soldati volentierosi si sottomisero ad un cibo più parco, e tutti, uffiziali e soldati, offersero al Maresciallo Fergola i loro risparmii che ammontarono alla bella somma di quattordicimila ducati. I soldati napoletani, calunniati da Palmerston, da Billaut, ministro di Napoleone III, e d'altri settarii, quali saccheggiatori ed avversi alla causa di Francesco II, soffrivano quasi la fame, rinunziando a' soldi, e co' loro risparmii soccorreano la cassa militare per continuare la difesa patria a vantaggio del Sovrano, che nel tempo di pace non pagavali a centesimi, e sì splendidamente li vestiva! Iddio però, a causa dell'infame condotta de' Napoleonidi, ha dato alla generosa nazione francese, una punizione esemplare; e chi sa se un'altra più terribile non ne riserva all'Inghilterra de' Palmerston e de' Gladstone.


(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).