venerdì 16 marzo 2012

IL TRICOLORE, QUEL SACRO FETICCIO



Secondo la storia patria “ufficiale”, due giorni fa il tricolore italiano ha compiuto 215 anni e ci siamo subiti le omelie “napolitane” sulla sacralità del feticcio e sul suo salvifico ruolo di totem dell’unità nazionale. Come ogni altro simbolo politico e identitario, anche il tricolore italiano nasce da una serie di sovrapposizioni di segni, di casualità e di invenzioni: come tutti i simboli merita rispetto e – per questo – non servono mitizzazioni e sacralizzazioni, non serve farne una reliquia circondata da nuvole di incenso e protetta dai gendarmi. Invece oggi il tricolore – caso pressoché unico al mondo - è difeso da alcuni minacciosi articoli del Codice Rocco e la sua esposizione è oggetto di una serie di disposizioni di legge puntigliose quanto sistematicamente disattese.
Forse è proprio la sua debolezza semiotica ad aver costretto la vulgata patriottica ad avvolgerlo in un’aureola di balle, mistificazioni, omissioni e risibili panzane.
Sul significato dei tre colori si sono sbizzarrite generazioni di poeti e di redattori di sillabari, che hanno tirato in ballo verdi prati, fuoco di vulcani, nevai, sangue, speranza e purezza: i più arditi si sono gettati in acrobatiche citazioni dantesche.
La verità è più prosaica e trova una vasta gamma di spiegazioni che vanno dalla casualità di taluni accostamenti cromatici di uniformi militari, al banale riferimento al tricolore francese o al più “nobile” (ma solo in termini simbolici) richiamo alla cromia massonica. Sono, a questo proposito, proprio i “venerabili fratelli” che in molte occasioni hanno rivendicato la paternità morale e grafica della bandiera. E non è evidentemente un caso che gli stessi colori si trovino nei vessilli di altre loro creature, fra cui il Messico, repubblica massonica per eccellenza.
Anche la sua affermata italianità è piuttosto traballante: il periodo giacobino e poi napoleonico, in cui essa ha trovato la sua genesi, è stipato di decine di altre bandiere simili: bicolori o tricolori che hanno rappresentato una effimera genia di repubbliche e repubblichette. Infatti il bianco-rosso-verde era solo il vessillo degli Stati che hanno interessato la Padania centro-orientale: altrove garrivano altri accostamenti cromatici.
Non ha neppure il monopolio della rappresentanza risorgimentale: tutte le rivolte carbonare utilizzavano altri colori (soprattutto la tricromia rosso-nera-blu), la repubblica romana e Pisacane sventolavano un drappo rosso, a Genova nel 1849 garriva la Croce di San Giorgio, e lo stesso Garibaldi si era confezionato un vessillo nero con un vulcano fiammeggiante ed ha appreso dell’amato tricolore solo durante il suo viaggio di ritorno in Italia, e ha dovuto rimediare in tutta fretta mettendo assieme tovaglie, indumenti e tappezzerie trovate a bordo della nave che lo trasportava.
Spesso si ricorda l’utilizzo del tricolore nelle Cinque Giornate ma si omette di dire che erano i colori dello Stato autonomo che aveva avuto Milano per capitale e che esso veniva utilizzato in forma complementare alla Croce di San Giorgio. Solo i rivoltosi più “politicizzati” avevano coscienza che si trattava del simbolo di un partito politico, la Giovane Italia, che lo aveva adottato qualche anno prima. Carlo Alberto lo ha furbescamente fatto diventare la bandiera del regno per affermare la sua volontà di diventare re dei territori che quarant’anni prima lo avevano preso come contrassegno, e cioè la Padania. Per esorcizzarne le implicazioni mazziniane lo ha “marchiato” con uno scudo di Savoia, agli inizi sproporzionatamente grande.
Solo da allora, esso è diventato bandiera d’Italia seguendo la trasmigrazione del termine, fino a ricoprire l’intera penisola. In seguito esso ne ha accompagnato tutte le avventure, emergendo con più forza nel corso di guerre e avventure dolorose, e – soprattutto – nel mesto cerimoniale che vi ha puntualmente fatto seguito col suo corollario di funerali, ossari, monumenti eccetera. Il fascismo ha aggiunto il nero arrivando alla sublimazione di una quadricromia dalle forti implicazioni ideologiche ma anche funebri, che non a caso è la stessa dei simboli dell’estremismo islamico.
Questo suo passato nazionalista e fascista aveva relegato il tricolore nell’ambito del nostalgismo e – fuori dal quadro politico – a bandiera calcistica, buona solo per gli stadi o per le vittorie della nazionale di football.
Esso è stato ripescato di recente solo in funzione anti-autonomista, nel tentativo di promuovere un patriottismo unitarista in grado di opporsi all’ondata di crescita della aspirazioni locali di libertà e vere identità.
Non è un caso che esso sia stato riesumato con forza proprio dagli ultimi tre presidenti, per uno dei quali forse anche per una sorta di espiazione di antiche memorie di rosso-bianco-verdi ungheresi.
Per finire, giova ricordare che il tricolore mazziniano è un rarissimo caso di simbolo di partito diventato segno dello Stato conquistato. Era successo con la bandiera rossa diventata segno dell’Unione sovietica e con la svastica diventata vessillo della Germania. La sola divertente differenza è che il partito mazziniano non ha conquistato il potere ma anche questo è un sicuro segno di italica creatività.

di GILBERTO ONETO