giovedì 23 febbraio 2012

La battaglia a San Tammaro e a Sant'Angelo in Formis

Porta Napoli da cui uscirono le truppe Duo Siciliane


La notte tra il primo e il 2 di ottobre del 1860 cominciò lo spiegamento delle forze napoletane fuori dalla fortezza di Capua per raggiungere le posizioni da cui avrebbero mosso per dare battaglia all’armata Garibaldina. Le forze dell’Esercito Duosiciliano erano quasi il doppio di quelle che Garibaldi avrebbe potuto impiegare, costituite dalle forze più fedeli tra quelle a disposizione del Re dall’inizio della campagna. Numerosi erano i soldati giunti da ogni parte del Regno nei mesi che precedettero la battaglia, a seguito delle varie sconfitte, ritirate e rese ordinate dai loro capi militari. Interi reparti giunsero a Napoli dalle Puglie dalla Lucania per ordine del ministro della Guerra, Generale Pianell, e altri abbandonarono i propri corpi di origine trasgredendo gli ordini di consegna e resa dalla Calabria dopo i fatti di Soveria Mannelli. Il Re delle Due Sicilie aveva posto a capo delle forze armate il Maresciallo di campo, Giosuè Ritucci, il quale, nonostante la conclamata fedeltà alla Casa Reale e alla Nazione, non era propriamente l’uomo di cui si aveva bisogno. Attendista per eccellenza, avrebbe preferito respingere gli attacchi come fatto a Caiazzo e attendere una offensiva garibaldina piuttosto che schierare le truppe e lanciarle all’offensiva. Ormai 66enne , dunque anziano come la maggior parte dello stato maggiore, era nato a Napoli nel 1794 e si era arruolato nel 1807 nell’esercito di Gioacchino Murat combattendo in quasi tutte le battaglie dell’era napoleonica da quella data in avanti. Entrò, col grado di Tenente dei Granatieri, nell’esercito delle Due Sicilie giurando fedeltà a Ferdinando I di Borbone e proseguì la sua carriera fino alla nomina, il 19 aprile 1860, a Maresciallo di Campo e Comandante delle forze duo siciliane sul Volturno. A volere l’offensiva fu soprattutto il Re Francesco II preoccupato che un eccessivo ritardo nella controffensiva avrebbe finito col favorire gli intrighi dei piemontesi che andavano ammassando le loro truppe in Emilia al confine con gli Stati Pontifici. Dopo l’ottima prova di Caiazzo e dopo aver respinto numerosi assalti a Capua il mito di Garibaldi andava infrangendosi, l’avventuriero, nonostante le iniezioni di fiducia (leggasi armi, soldi e uomini) inglesi e piemontesi, era incapace di procedere oltre. Numerose si alzarono le voci dalla Napoli presidiata dalle camice rosse, dalle camice blu e, soprattutto, dalla camorra, verso Torino. Primo tra tutti il ministro della camorra Don Liborio Romano che scriveva a Cavour chiedendo uomini, mezzi e, soprattutto, un rapido intervento piemontese per salvare la situazione. L’offensiva napoletana era nell’aria e se fosse riuscita tutto sarebbe stato compromesso.

Il vecchio ponte d'accesso a Capua con porta Napoli

Il nuovo ponte che conduce a Capua e che attraversa il vecchio fossato

L’uscita da Capua e lo schieramento della colonna Tabacchi 
Alle 3.30 del 2 ottobre i reparti napoletani attraverso porta Napoli presero la strada verso Sant’Angelo in Formis e San Tammaro dove sarebbero cominciate le operazioni. A comandare la colonna ovest dello schieramento napoletano il Generale Tabacchi che Roberto Maria Selvaggi nel suo capolavoro “Nomi e volti di un esercito dimenticato” non esita a paragonare ad un raccomandato. Sicuramente privilegiato Tabacchi, altro senatore dell’esercito con i suoi 69 anni di età, era nato a Foggia nel 1791 e aveva esercitato le sue funzioni di militare nel corpo dei Granatieri della Guardia Reale che raramente venivano impiegati negli scontri armati. Nell’aprile del 1860 arrivò la nomina a Generale e poco prima della battaglia del Volturno, l’11 settembre fu promosso Maresciallo di Campo responsabile del fronte ovest e al comando di tutta la Guardia. A lui spettava il compito più gravoso di tutti i comandanti impegnati in battaglia, ovvero quello di affrontare le forze garibaldine al comando del Generale Medici attestato a Santa Maria Capua Vetere. Compito arduo poiché tutta l’esecuzione della manovra complessiva dipendeva dal successo delle ali e lo schieramento di Santa Maria, che si prolungava anche su San Tammaro e su Sant’Angelo in Formis, era il più rinforzato dell’esercito garibaldino. Dimostrando tutta la sua inefficienza il Maresciallo Tabacchi divise le sue forze in due colonne, la destra comandata dal Colonnello Giovanni D’Orgemont, e la sinistra al comando del Colonnello Gennaro Marulli, lasciando dentro la fortezza di Capua il secondo reggimento dei granatieri della guardia comandato dal Colonnello Grenet. Un secondo errore di Tabacchi fu quello di non assicurare al meglio le linee di comunicazioni, fondamentali in uno scontro come quello del Volturno che basava le fondamenta della vittoria sulla capacità di coordinare gli sforzi. Invece il Colonnello D’Orgemont sbagliò strada e Marulli dovette coprire parte dello spazio lasciato dal collega in modo frettoloso dislocando parte dei suoi uomini verso l’Anfiteatro romano dove alle 5.00 della mattina erano cominciati gli scontri. Il limite del fianco destro dello schieramento duo siciliano era al comando del Generale Matteo Negri che fronteggiava i garibaldini a San Tammaro. Nel giro di poche ore il piccolo centro abitato era stato liberato e Negri con le sue artiglierie potè spostarsi verso Santa Maria Capua Vetere dove si stava combattendo duramente presso Porta Capuana (oggi detta Arco di Adriano). L’operazione di accerchiamento di Santa Maria era così iniziata in modo positivo ma mancava la stretta da Sant’Angelo in Formis dove il Maresciallo Gaetano Afan de Rivera, palermitano 44enne, uno dei più giovani al comando al Volturno, stava dando una pessima prova di sé. Appartenente ad una delle famiglie nobili siciliane più fedeli alla dinastia regnante si era meritato onori e gloria affiancando il Generale Filangieri durante la campagna di Sicilia del 1849. Sul Volturno aveva ai suoi ordini il Brigadiere Gaetano Barbalonga, e il Colonnello Vincenzo Polizzy entrambi palermitani e entrambi validissimi soldati distintisi nelle campagne del 1849. 

Lo schieramento del fronte tra San Tammaro a Sant'Angelo in Formis

La battaglia a Sant’Angelo 
Proprio a quest’ultimo fu dato ordine di marciare mentre Barbalonga restava fermo in attesa di ordini. Polizzy aveva ai suoi ordini il 7°, 8°, 9° e 10° cacciatori, la 13° brigata e parte del 1° reggimento ussari, praticamente il meglio dell’esercito duo siciliano. Lo scontro fu durissimo alle pendici del Monte Tifata dove l’assetto naturale e le sparute ville private offrivano ai combattenti numerosi punti di controllo strategico. I cacciatori presenti a Sant’Angelo erano quasi tutti siciliani e calabresi desiderosi di riscattare il loro onore compromesso dalle decisioni dei vertici militari nei mesi precedenti. La nebbia di prima mattina impedì ai garibaldini di veder avvicinare il nemico e si accorsero dell’arrivo dei duo siciliani solo quando, usciti dalla nebbia vicino al centro abitato, cominciarono ad inneggiare “Viva o’ Rre”. A quel punto, si era alle 5.30 della mattina aprirono il fuoco le artiglierie garibaldine controllate da marinai inglesi sbarcati a Napoli dalla fregata Renow per assistere le operazioni degli invasori. Alle 8.00 della mattina giunsero sul fronte i fratelli del Re Francesco, i conti di Trani e di Caserta. Alfonso, che si era distinto già a Caiazzo, e Luigi presero le armi e, in prima linea affiancarono i soldati e l’offensiva continuò con vigore fino a quando, una dopo l’altra, tutte le abitazioni e masserie private furono liberate dai duo siciliani. Mentre la lotta infuriava alla casina Longo, dove erano piazzati i cannoni anglo-garibaldini, intervenne in ausilio del Polizzy il Barbalonga e, insieme, in poche ore ebbero ragione dei nemici che furono cacciati fuori dal paese e respinsero, con successo, diversi tentativi di controffensiva ordinati dal Medici. 


Garibaldi scampa alla cattura 
Nella tarda mattinata, quando il grosso dei combattimenti erano chiusi e mentre Polizzy e Barbalonga si attestavano davanti alla destra dello schieramento garibaldino di Santa Maria Capua Vetere per riposare in attesa dell’ordine di avanzare che sarebbe dovuto arrivare da De Rivera per ultimare l’accerchiamento nemico, giunse sul campo di battaglia una carrozza che si trovò immediatamente circondata dagli uomini dell’undicesima brigata comandata dal Capitano Ferdinando Campanino, 48anni, di Napoli. Nel corso della mattinata Campanino e i suoi uomini avevano con coraggio assaltato le postazioni di artiglieria nemiche alla Casina Longo dove, incuranti del pericolo, avevano consentito a tutti i loro compagni di ottenere una vittoria sugli avversari. I duo siciliani uccisero il cocchiere e cominciarono a sparare contro la carrozza pensando di avere a che fare con ufficiali garibaldini. Sceso di corsa assieme agli altri aiutanti, Garibaldi fu subito identificato e, se si salvò da morte certa, fu solo per il soccorso dei carabinieri genovesi comandati da Mosto e dalla fanteria lombarda comandata dal Simonetta che bloccarono la carica degli uomini di Campanino. Tornato a Santa Maria Capua Vetere, Garibaldi diede ordine alle sue truppe di riprendere San Tammaro per spezzare l’accerchiamento e lasciare aperta una via di fuga in caso di sconfitta prendendo la via di Caserta. Arrivato alla Reggia, dove era fissato il suo comando e dove erano in attesa le riserve cui fu dato l’ordine di prendere il treno e dirigersi a Santa Maria per dare man forte ai compagni. 


La “scomparsa” di De Rivera 
Mentre proseguiva la battaglia a Santa Maria, il 3° battaglione del Capitano Carlo Corsi, nel primo pomeriggio, rioccupava San Tammaro e tutto il fronte sinistro garibaldino era in ritirata rapida sulla città. Da Capua Francesco II e Ritucci cercavano di mettersi in contatto con Afan De Rivera. Del Maresciallo, dopo la vittoria a Sant’Angelo, si erano perse le tracce. Polizzy e Barbalonga erano a pochi chilometri dallo schieramento garibaldino, un loro attacco avrebbe significato la vittoria certa per l’esercito duo siciliano. De Rivera, secondo le sue successive giustificazioni, aveva lasciato il suo posto per studiare il terreno e tentare di aggirare sulla destra i garibaldini tagliando la via tra Santa Maria Capua Vetere e Caserta. Il brigadiere Sergardi al comando dei Lancieri del Re sul fronte di San Tammaro, chiese però a Ritucci dei reggimenti ausiliari della riserva per portare avanti l’offensiva su Santa Maria. Ritucci rifiutò l’uso di altri uomini e preferì attendere il rientro di De Rivera senza affidarsi a Sergardi, Polizzy e Barbalonga per effettuare l’accerchiamento. Quando fu rintracciato, nel pomeriggio, era troppo tardi. L’offensiva su Santa Maria era fallita a causa dell’afflusso rapido delle riserve grazie al tanto vituperato treno borbonico, e, alle 17, il Maresciallo Ritucci ordinò la ritirata generale senza neanche porsi il problema di schierare sul campo le riserve in modo da ribaltare la situazione.

(Continua nel prossimo articolo)