domenica 22 gennaio 2012

Carl Ludwig von Haller: Gli organi rappresentativi (stati generali) nella monarchia tradizionale



Il capitolo LX (Convocazione degli stati generali) de La restaurazione della scienza politica di Carl Ludvig von Haller, il celebre giureconsulto svizzero, noto esponente del pensiero controrivoluzionario della prima metà del secolo XIX, convertitosi al Cattolicesimo, è dedicato ad indagare la natura di quelle assemblee proprie della monarchia tradizionale, spesso indicate e nominate come stati generali (così nel Regno di Francia) o parlamenti (come nel Regno d’Inghilterra), le quali una storiografia faziosa e volutamente imprecisa ha erroneamente identificato come le antesignane delle attuali assemblee legislative, in cui risiede, secondo il falso dogma della sovranità popolare e l’altrettanto falso postulato della necessaria distinzione
dei poteri dello stato, la sovranità e la potestà legislativa. Assunto di von Haller è proprio quello di dimostrare (1) che tali assemblee non hanno nulla a che vedere con gli attuali parlamenti, che sono appunto logica conseguenza dell’erronea dottrina della sovranità popolare; (2) che tali istituzioni, aventi mero potere consultivo, erano rispettose dell’ordine naturale (a differenza dei parlamenti attuali) e si inserivano organicamente nella costituzione materiale di quegli antichi stati.
Per forza naturale delle cose, un capo di esercito, diventato signore territoriale, si dà cura di organizzare il paese conquistato militarmente e di colmare di favori i suoi guerrieri, concedendo terre e alti impieghi per ricompensarli dei loro servizi; nello stesso modo è del tutto naturale che egli consulti, ad intervalli più o meno
ravvicinati, come faceva già prima nei consigli di guerra, i suoi principali compagni d'armi in merito agli affari generali dell'impero. Queste assemblee si chiamano stati generali del regno. Si dicono « generali» perché sono più vaste e influenti negli imperi militari, di quanto non siano le assemblee provinciali nei regni puramente
patrimoniali. Si dicono poi «del regno» (Reiches) dato che, secondo la natura del rapporto sociale, i loro membri dipendono soltanto dal sovrano e costituiscono a rigore lo Stato. Infatti gli altri abitanti non sono sudditi immediati del re, ma degli stati generali stessi1.
Invano gli scrittori moderni trasferiscono le loro idee rivoluzionarie nell'interpretazione della Storia, immaginando dappertutto l'esistenza di comunità sovrane e assemblee nazionali. Gli stati generali, composti di grandi vassalli, per loro origine e loro natura, non sono né il potere legislativo né la rappresentanza del
popolo. Alle origini il re, ossia il primo generale, possedendo l’indipendenza suprema, non riceveva leggi da nessuno. I suoi amici e i suoi ufficiali, a guisa di membra sparse e senza testa, non costituivano ancora un corpo o una comunità. Il re, loro signore, costituiva l'unico legame che li riunisse in una organizzazione.
È contrario alla natura delle cose (e smentito dalla Storia) pretendere che gli stati generali abbiano formato il potere legislativo: anche le odierne forme e modi di dire, per riunioni di questo tipo, smentiscono una tale pretesa. Ma i compagni fedeli e la nazione vittoriosa non potevano essere trattati come i vinti: non si poteva gravare su di essi con imposizioni. Nondimeno il re poteva aver bisogno dei loro sudditi, del loro concorso ed anche dei loro consigli. Era dunque naturale che, nei casi in cui voleva predisporli a qualche impresa comune, egli li convocasse, chiedesse il loro consenso e cercasse di assicurarsi la loro buona volontà e la loro devozione. Così gli stati generali sono, di solito, assemblee consultive, riunite per illuminare il re con i
loro consigli o per aderire alle sue proposte. Essi hanno, in verità, il diritto di rifiutare il loro concorso: possono presentare suffragi, domande, pareri e lagnanze; ma non possono fare leggi.
È questa una verità storica e trova la conferma da parte dei pubblicisti più dotti: Gli antichi re dei Persiani avevano già gli stati generali. Essi indirizzavano loro, nel discorso di apertura, queste parole memorabili: «Vi ho riunito, perché non crediate che io segua soltanto il mio giudizio; ma ricordate che dovete piuttosto
obbedire, che consigliare»2. Grozio chiama gli stati generali con il nome di gran consiglio del re; il quale non rimane, per questo, meno libero di fare ciò che vuole3.
Secondo il de Réal, gli antichi stati generali di Francia avevano soltanto un voto consultivo4. Il celebre Pütter dice la stessa cosa degli stati generali sotto i re Merovingi5. Parimenti come afferma il Montag, negli stati generali dei Germani e dei Franchi, nessuno aveva il diritto di voto, fuorché i gentiluomini chiamati dal re, che
ne stabiliva la convocazione, per essere aiutato dai loro consigli (consilii gratia)6. Il re d'Inghilterra è, secondo i giureconsulti di questo paese, il principio, il capo e lo scopo del parlamento7. Con uno scritto vergato di sua mano, il sovrano invita ciascun pari a recarsi da lui per dargli consiglio8 e sollecita i giudici delle contee ad inviargli dei deputati per operare e per consentire9 (ad faciendum et consentiendum). Osserviamo inoltre che i membri del parlamento prestavano al re un « serment d'allégeance» ossia, un giuramento di fedeltà, che dimostra, in modo ancor più palese, i loro rapporti di dipendenza e di subordinazione, di fronte al re. Per la Germania, si sa che, ancora nei nostri tempi, senza considerare la dissoluzione interna dell'impero, le risoluzioni della dieta portavano il titolo di umilissimi pareri dati con sottomissione (unterthänigste Gutachten) e solo la ratificazione imperiale dava loro la forza di legge, cosicché la pratica e il linguaggio ufficiale hanno sempre offerto le tracce dell'antica e legittima costituzione.
Un’altra conseguenza derivante dalla natura degli stati generali o delle assemblee consultive è che il sovrano ha, dappertutto e sempre, il diritto esclusivo di: 1) convocarli (chiedere il Consiglio); 2) nominare i membri che devono assistervi (scegliere i consiglieri): perciò il modo di convocazione differisce nei vari tempi,
benché finisca con l’assumere una forma costante e determinata; 3) proporre le materie di deliberazione, vale a dire determinare gli oggetti sui quali egli chiede il consiglio ovvero il consenso; 4) [prorogare o] sciogliere gli stati generali, allorché non ha più bisogno dei loro consigli e ha ottenuto il loro consenso, oppure può farne a meno; 5) convalidare i decreti con la sua sanzione (accettare o respingere il consiglio [in tutto o
in parte]; per modo che, in fondo, la volontà del sovrano è sempre quella che decide.
Questi diversi diritti non sono da intendersi come « prerogative »; espressione falsa inventata da Locke e da Montesquieu: sono piuttosto diritti propri e personali, che il re possiede per la natura delle cose e in virtù della sua stessa posizione, cosicché non si può lederli senza commettere ingiustizia. Anche questi princìpi sono confermati sia dal linguaggio ufficiale e dallo stìle di cancelleria, sia dalle cerimonie e dalle forme generalmente osservate all’apertura e allo scioglimento degli stati generali, come durante ìl corso delle loro stesse deliberazioni. Infatti, da tutto ciò si vede emergere la vera posizione del re: ossia da un lato vi è la sovranità piena ed intera; dall'altro, la dipendenza e la subordinazione.
1) Il diritto, riconosciuto per prima cosa al sovrano, di convocare e di sciogliere gli stati generali, trova appoggi cosi solidi nell’ordine della giustizia e nella natura delle cose, che invano i rivoluzionari dei tempi moderni hanno cercato di ditruggerli. [E chi potrebbe convocare le assisi dei. grandi, se non il re? I vassalli privi di autorità, gli uni sugli altri, non riuscirebbero mai a mettersi d’accordo sui tempi e sul luogo
dell’assemblea né sugli oggetti da deliberare. Questo diritto sovrano, da me constatato, trova la più valida conferma nei fatti]. Si veda ciò che accade in Inghilterra, della quale Locke, [Montesquieu] e il ginevrino Delolme hanno così crudelmente torturato il concetto di costituzione: là i sovrani hanno sempre
convocato il parlamento quando hanno ritenuto conveniente farlo; e la penuria del tesoro del re, unita alla necessità di far votare le imposte, ne ha solo aumentato l'influsso e ne ha reso indispensabile la frequente convocazione.
Nell’antica Germania, che gli scrittori moderni a dispetto della Storia vogliono far passare per una confederazione, mentre era una monarchia feudale limitata da patti e indebolita gradualmente per la potenza sempre crescente dei vassalli, gli imperatori riunivano in assemblea gli stati generali secondo le circostanze e li
scioglievano alla fine delle deliberazioni. Solo in occasione, non già di una legge formale, ma di un progetto di capitolazione che non fu mai votato, e solo dopo la pace di Westfalia che però portò il disordine al suo culmine e scalzò i fondamenti dello Stato, la dieta si prolungò dal 1622 al 1806, prendendo il nome di dieta permanente. In verità, né il sovrano, né i vassalli vi comparvero di persona: essi si fecero rappresentare da deputati, fra i quali quello dell'imperatore portò sempre il titolo significativo di commissario principale10.
2) Se gli stati generali formano un’assemblea consultiva, ne segue che il sovrano può sceglierne i membri o conferire il diritto di farvi parte. Nei tempi passati, si faceva assurgere a questo onore un numero ora più ora meno grande di eletti; qualche volta si sceglievano solamente i grandi, altre volte anche i vassalli minori.
Veramente, accadeva spesso che certi possedimenti e certe relazioni sembravano esigere un seggio nelle assisi del paese; ma il diritto di sedervi, lo ripeto, si otteneva soltanto con la chiamata da parte del re11. Siccome questi voleva ricevere non solo consiglio, ma anche aiuto, consultava di preferenza coloro che potevano prestargli una collaborazione più utile ed efficace. S’intende però che il frequente ricorso a
questa collaborazione doveva condurre ad un’usanza più o meno costante, più o meno generale: la regola di queste convocazioni, secondo la forza delle cose, venne desunta dai rapporti dei sudditi con il sovrano. Così in modo del tutto naturale i grandi vassalli, i feudatari immediati della corona, facevano parte degli stati generali, dato che proprio a loro venivano richiesti gli aiuti in uomini e in denaro; d’altronde essi dovevano osservare e far osservare, nel loro territorio, le leggi che si deliberavano nelle assemblee.
Nondimeno, per opporre un contrappeso alla preponderanza dei grandi vassalli, parecchi re, in particolare i Merovingi in Francia, come i Re d’Ungheria, di Danimarca e di altri paesi12, permisero ai nobili e ai proprietari liberi (purché in veste di sottomessi alla corona) di assistere agli stati generali13. Questa nobiltà di secondo ordine non aveva il diritto di voto; ma doveva, con il suo assenso, rendere più imponenti le decisioni. Nonostante ciò, la maggior parte di questi nobili, ritenendo inutile la loro presenza o volendo evitare le spese di rappresentanza, non assistevano alle assemblee generali; per modo che, di fatto, in queste figurava soltanto l'alta nobiltà che, secondo l’origine e la natura dell’imperio, era e rimaneva sempre il primo
ordine dello Stato.
In quei tempi, come nell’antichità, i Re convocavano anche, quasi dappertutto, i loro ministri o cancellieri, i principali ufficiali di corte ed i primi funzionari civili e militari14 che conoscevano, meglio di tutti, le condizioni e gli interessi dello Stato e i cui lumi potevano essere necessari agli altri deputati. È per questo che, in sede di consiglio, si convocano in Francia, insieme con la nobiltà, anche gli ufficiali della corona; in Danimarca, i governatori ereditari delle province. In Ungheria, i grandi dignitari civili e altri ottimati assistevano agli stati generali. Vi è ragione di credere che, in certi limiti, ciò sia accaduto dovunque. Se, in altri Stati, i Re furono sollecitati a escludervi anche i loro più alti funzionari, ciò accadde soltanto per mancanza di fiducia, essendosi armati, l’uno contro l’altro, il re e la nazione: la qual cosa non produce nulla di buono. Nei tempi più recenti, tale esclusione fu l’effetto dei principi rivoluzionari, secondo i quali si vuol fare una netta separazione
tra il potere legislativo e quello esecutivo, e quindi si cerca di adattare la realtà a quest’idea fantastica.
Dopo i vassalli e i grandi dignitari, non si tardò a convocare nelle assemblee generali l’alto clero, comprendente gli arcivescovi e i vescovi. In Francia, sotto i Merovingi, la maggior parte di questi dignitari apparteneva alla classe dei Romani vinti e agli antichi Galli; ma li si giudicava degni di essere consultati, dato che erano proprietari e vassalli. Inoltre li si stimava, perché essi riflettevano il prestigio di cui godeva la Chiesa e coltivavano essi soli le scienze e le lettere: così nei grandi affari non si poteva fare a meno dei loro lumi né del loro apporto culturale. In questo modo del tutto naturale, il clero è giunto a formare il secondo ordine dello Stato.
Infine si compresero ben presto i vantaggi che si potevano trarre dalle corporazioni: le si invitò a farsi rappresentare, nei comizi, da deputati scelti liberamente. Si convocarono così in Aragona i grandi maestri della cavalleria unicamente perché essi possedevano immense ricchezze e vasti domìni. Più tardi nei
secoli XI, XII e XIII, in sèguito all’anarchia causata dalle crociate e dopo le incursioni dei Mongoli, si vide sorgere un gran numero di città o piuttosto di comunità libere: allora i sovrani le invitarono a farsi rappresentare, negli stati, da mandatari. La ragione di ciò è che queste città dovevano bilanciare la potenza
dell’alta nobiltà e potevano esse sole fornire aiuti considerevoli in denaro. Da tutto ciò è possibile comprendere perché gli stati generali e quelli provinciali sono stati formati, sempre e dovunque, dalla nobiltà, dal clero e dalle libere città [le quali ultime costituivano ciò che in Francia si chiamava impropriamente terzo stato]15.
L’istituzione degli stati generali corrisponde, con semplicità, all’ordine della giustizia e alla natura delle cose. Si cerchi in tutti i recessi della memoria, si indaghi su tutti i pretesi sistemi rappresentativi: non si troverà nulla di più saggio e più utile di questa istituzione. Essa favorisce in modo sorprendente la riscossione dei sussidi, promuove il consenso alle leggi generali e la manifestazione dei voti popolari, e così rispecchia l’immagine fedele e vivente della nazione. Essa rappresenta tutto il popolo, nella sua reale consistenza, come un corpo strettamente unito nei suoi organi e non diviso nelle sue membra; lo rispecchia come una società formata in modo organico e non divisa nei suoi individui, senza reciproci rapporti. L’istituzione degli stati generali
rappresenta non solamente i diritti e i doveri sociali, ma anche le signorie, la Chiesa, i comuni, le proprietà territoriali, le forze armate, la religione, la scienza, il commercio, il lavoro: in breve rappresenta tutte le situazioni, tutte le risorse e tutte le necessità del popolo.
Che dire invece di quelli che oggi si chiamano enfaticamente corpi rappresentativi? Affidati unicamente alla forza del numero e della popolazione  tutt’al più appoggiati ad una ricchezza insicura e variabile, i corpi rappresentativi di oggi sono campati in aria, non riposando sulla natura delle cose. E che cosa rappresentano i membri di queste assemblee? In fondo la semplice qualità di uomo, che non ha bisogno di essere rappresentata, poiché ciascun individuo la possiede.
Prodotti di una società in dissolvimento, con il ricorso al suffragio popolare o piuttosto usciti dal nulla, i moderni corpi rappresentativi provocano necessariamente risultati simili a loro: essi sono la distruzione del diritto privato [e possono rovesciare ciò che è ancora in piedi, ma non possono avere alcun esito costruttivo né creare un ordine nuovo].
Si osservi inoltre come la convocazione del clero e delle città negli stati generali si allontanasse dal regime puramente militare, che doveva riunire solo il re e i suoi ufficiali più devoti, ossia doveva raccogliere l’esercito attorno al suo capo. Si operava in tal modo la fusione dei vincitori con i vinti e la conseguente pacificazione; la nobiltà feudale non si oppose a questa istituzione, poiché vi trovava un alleviamento dei suoi impegni amministrativi. D’altronde ciascun ordine degli stati rappresentava solo se stesso, per modo che non si sostituiva, come si fa nel nostro secolo, l’aritmetica alla giustizia; non si permetteva alla maggioranza di disporre arbitrariamente della proprietà e dei diritti della minoranza.
In Spagna, dove si erano formati assai prima che nelle altre parti dell'Europa, i comuni ebbero accesso agli stati generali sin dal secolo XII. In Inghilterra vi furono chiamati per la prima volta nel 1265, dall’usurpatore conte di Leicester, durante le guerre ch’egli fece contro Enrico III e contro Edoardo I; prima di quest’epoca, il parlamento si componeva soltanto dei baroni dell’ordine ecclesiastico e di quello temporale, come d’altronde avveniva dappertutto. Nondimeno l’appello alle città e ai comuni non si faceva ancora di pieno diritto, ma solamente con il beneplacito del re: solo nel 1297 si proclamò per legge che in futuro nessuna tassa avrebbe potuto essere stabilita senza il loro consenso. Questa disposizione era stata decisa sia nell’interesse del re, sia in quello dei prelati e dei nobili; poiché il primo poteva ottenere per essa
somme più considerevoli ed i secondi vedevano alleviati o almeno spartiti i loro oneri fiscali. Nel 1343, il parlamento si separò in due camere, solo perché una sola non poteva più contenere il gran numero dei suoi membri. I baroni ecclesiastici e i secolari (Lords) formarono la camera alta, che si chiama anche camera dei Pari; la nobiltà di provincia, unita ai deputati delle città, formò la camera dei comuni. Questa divisione
sussiste ancora ai nostri giorni, malgrado tutte le rivoluzioni di carattere religioso politico che hanno portato la desolazione in Inghilterra, negli ultimi secoli. In Portogallo le città figurano negli stati generali fin dal 1279. In Francia Filippo IV le convocò per la prima volta nel 1302, con l’unico scopo di ottenere dei contributi. In
quell’occasione non era stato ancora permesso ai loro deputati di stare seduti nell’assemblea: quando avevano lagnanze da presentare al re, essi non potevano presentargliele che in ginocchio. [Si può criticare, se si vuole, questo segno di rispetto e di sottomissione]; ma esso prova almeno che queste città non rivestivano autorità sovrana e che dovevano solamente alla bontà del re, loro signore e non loro servo, l’onore di far parte del consiglio. Se in Ungheria i deputati delle città furono ammessi dal 1403, possiamo aggiungere che in Germania questi deputati figurarono, assisi sui banchi, nelle assemblee generali fin dal 1474, ma che ricevettero un posto legale solo nel 1648, con il trattato di Westfalia16. Il re di Svezia li convocò nell’anno 1483, senz’altro motivo che quello di opporre un contrappeso alla potenza dei grandi vassalli ecclesiastici e temporali, ciascuno dei quali era, per così dire, re nei suoi domini17. In Danimarca i deputati delle città assistevano già alle assemblee degli stati generali nel 142618.
Tutte queste convocazioni, occorre notarlo, non erano ordinate né da una legge fondamentale né da un costume invariabile; i re rimanevano sempre liberi di consultare o meno le città, di convocare le une e di non convocare le altre. Spesso essi davano anche il diritto di sedere negli stati generali a qualche grande proprietario, il cui dominio era stato eretto a contea o a ducato. Infine, per la stessa ragione che la
composizione di queste assemblee dipendeva originariamente dalla semplice volontà del re, si è visto in Francia (durante l’epoca in cui Luigi XVI decise di convocare gli stati generali dopo una interruzione di 174 anni) pubblicare e proporre a questo riguardo diversi progetti bizzarri e stravaganti, fra i quali si finì con l’adottare precisamente uno dei più difettosi; poiché questo progetto, pur mantenendo nell’apparenza la divisione per ordini, mescolò di fatto e confuse tutte le classi.
Concesse non già alle città, ma a coloro che si chiamarono terzo stato, una doppia rappresentanza; introdusse ben presto il voto per testa e non più per stati, assecondando così il partito rivoluzionario, che mirava a cambiare 1’assemblea degli stati in un’assemblea repubblicana rappresentativa del popolo preteso sovrano e che da lungo tempo aveva reso familiari al pubblico queste nuove idee.
3) Come è attestato dalla Storia, si può dire che gli stati generali potevano deliberare soltanto sulle proposte del re: ciò per la ragione, assai semplice, che il re solo aveva il diritto di determinare gli argomenti sui quali chiedeva di essere consigliato o di riscuotere l’approvazione. Questo principio, riconosciuto dappertutto, dimostra che gli stati generali, lungi dal costituire il potere legislativo, erano semplicemente un’assemblea consultiva. Senza dubbio era loro permesso di presentare al re l’esposizione dei torti subìti, formulare lagnanze, suppliche e domande; ma questo è un diritto comune a tutti gli uomini, che può essere rivendicato anche dall’ultimo dei sudditi. Senonché i voti dei personaggi considerevoli, di cui si ha bisogno di cattivarsi
le buone disposizioni, hanno naturalmente maggior peso e sono di solito più ascoltati di quelli dei semplici privati. Ecco tutto. Qualche volta le assembee generali hanno anche ottenuto o usurpato dei privilegi; esse hanno ottenuto, per esempio, che il re non potesse, senza il loro consenso, decidere la guerra e la pace, né emanare leggi generali, né contrarre prestiti, né elevare fortezze. Ma un’attenta lettura dei documenti storici convince che questi privilegi hanno avuto per causa libere convenzioni o sono stati l’effetto della bontà del re o di uno spirito di tolleranza. Può anche darsi che siano stati originati da un indebolimento del potere o dalla necessità di sedare discordie interne o dall’intervento dello straniero. Si vedrà, in breve, che queste eccezioni confermano la regola. Queste cose sono accadute in Svezia nell'anno 1270, in Germania dopo la pace di Westfalia19 ed in altre epoche altrove. Avrò occasione di ritornare in sèguito sull’argomento.
4) Dobbiamo ora occuparci dell’apertura, delle deliberazioni e dello scioglimento degli stati generali. Secondo quanto è riferito dalla Storia, le parole, le formalità, i riti e la magnificenza che rendono segnalate queste solennità sono come una sorta di culto monarchico. Risaltano così in viva luce da una parte la superiorità e l’indipendenza assoluta del re; dall’altra il profondo rispetto e la sottomissione completa da parte degli stati. La maestà del sovrano non ha mai occasione di splendere maggiormente che nelle assemblee del regno, quando il capo ed i membri sembrano visibilmente riuniti nei loro veri rapporti. Il re convoca gli stati, fissando il tempo ed il luogo dell’assemblea; senza l’appello del re, essi si ridurrebbero ad
un’accolta di individui sparsi, isolati, senza legami che li uniscano tra loro. I deputati si portano per primi al luogo delle adunanze, per presentare al re i loro omaggi, per ringraziarlo dell’onore che egli ha loro fatto chiamandoli presso la sua augusta persona e per assicurargli devozione e zelo nel servizio. Il sovrano a sua volta si reca davanti agli stati con il fasto e il sèguito che gli convengono, portando le insegne del potere supremo. Egli apre l’assemblea assiso su un trono, simbolo della sua superiorità; i deputati si pongono in sott’ordine, ciascuno secondo il suo rango. Egli si  copre il capo mentre i deputati restano in piedi a testa scoperta finché non ricevono il permesso di sedersi.
Il re parla per primo e a proprio nome, non come un funzionario che compaia davanti ai superiori, ma come un sovrano che si rivolge ai sudditi. Secondo l’uso ancora attuale presso la corte inglese, egli parla della sua corona, dei suoi domìni, delle sue armate, delle sue flotte, dei suoi fedeli sudditi; benché, per lusingare l’amor
proprio e stimolare la buona volontà di coloro che gli sono sottomessi, faccia anche valere l’onore e gli interessi della nazione che sono, del resto, intimamente legati con i suoi. Dopo questa cerimonia d’apertura, gli stati presentano il loro umilissimo indirizzo di ringraziamento. Questo atto, che consiste di solito nella ripetizione o nell’ampliamento del discorso della corona, è redatto in termini che denotano la più
rispettosa sottomissione; da un lato attribuisce al re il titolo di maestà, di grazioso signore (nello stile tedesco) o di signore sovrano: da un altro chiama i deputati (o piuttosto i deputati si chiamano essi stessi) con il nome di fedeli servitori e sudditi del re20. Il re comunica le proposte ed i termini del loro lavoro, semplicemente per mezzo dei suoi ministri o dei suoi primi segretari. Nelle delibere come nelle allocuzioni, i deputati parlano ancora del sovrano come del loro signore e maestro, con il più grande rispetto e non danno alle loro risoluzioni il titolo di leggi ma quello di proposte, consultazioni, preavvisi, “bills”, petizioni. In Germania, all’assemblea nazionale partecipavano anche re stranieri; le sue decisioni venivano proposte come «umile
parere». Lo scioglimento degli stati generali, alla conclusione dei loro lavori, avveniva con la stessa solennità.
Se si comprendono veramente il linguaggio ufficiale, le formalità, le cerimonie, che sono state osservate in Germania fino agli ultimi tempi dell'impero e si osservano ancora ai nostri giorni in Inghilterra, sarà facile riconoscere i rapporti del re con gli stati generali. Non già stabilite da leggi, ma da sem- plice sentimento di convenienza, tutte queste usanze si spiegano da sé, secondo il principio che fa degli stati generali una assemblea consultiva, liberamente convocata dal re. Al contrario, se gli stati rappresentassero in effetti il potere sovrano, e se il re vi dovesse presenziare come semplice funzionario, si tratterebbe di costumi assurdi e contrari all'ordine naturale; anzi non avremmo neppur avuto la prevalenza di tali costumi, ma di altri opposti.
5) Infine tutte le proposte, tutte le risoluzioni, tutti i voti degli stati generali restano nulli e di nessun effetto, finché non siano approvati dal re. Infatti, dato che queste risoluzioni non sono altro che un consiglio, che poteva provenire anche da altre persone, il re può sempre modificare o cambiare, accettare o respingere, questi suggerimenti, anche quando gli stati si fossero mostrati unanimi nella loro opinione.
Su questo fondamento naturale [e non su una convenzione arbitriaria, su una pretesa prerogativa costituzionale] riposa la sanzione o ratifica regia, senza la quale le risoluzioni degli stati generali o di quelli provinciali sono prive di ogni valore legale, di ogni forza obbligatoria. Ecco perché il re d’Inghilterra, adottando il “bill” del parlamento, concernente gli affari generali del regno, dice ancora oggi: « Il re lo
vuole» [e non « Il parlamento ha decretato e Noi ordiniamo»]. Quando egli acconsente a una petizione particolare raccomandata dal parlamento, si esprime in questi termini: «Sia fatto come è desiderato». Benché siano desiderati e richiesti, i voti relativi alle imposte non esigono pur meno l’approvazione del re. In questa sorta  di accezione, la corona, in Inghilterra, si serve di una formula notevole: «Il re ringrazia i suoi leali sudditi, accetta la loro benevolenza e così egli vuole»21.
Quanto al diritto di respingere le proposte, i sovrani vi ricorrono raramente; poiché si sforzano di lusingare l’amor proprio degli stati e di mantenere l’accordo fra il capo e le membra, prevedendo piuttosto le risoluzioni contrarie alle loro vedute.
Nondimeno allorché i re debbono, malgrado tutte le precauzioni della prudenza, respingere qualche proposta arrischiata, temeraria ovvero ostile, essi impiegano un’espressione moderata, ma piena di insegnamenti: «Il re rifletterà»; la qual cosa significa: il re cercherà ancora altri consigli.
È chiaro che le cose dovrebbero andare del tutto diversamente, secondo i princìpi della rivoluzione. Nel 1789, in Francia, gli stati generali si divisero fin dall’inizio in due partiti: secondo che riconoscevano la sovranità nella persona del re  oppure nel popolo, vale a dire nella monarchia oppure nella assemblea, i deputati accettavano o respingevano la sanzione regia alle decisioni dell’Assemblea nazionale. I rivoluzionari resero odiosa questa sanzione, chiamandola un veto, un mandato d’arresto, un ordine di proscrizione, predisposto contro la volontà nazionale. Non ottenendo una vittoria completa fin dall’inizio della sua lotta, questa fazione si accontentò di un mezzo termine, di un compromesso, che lasciava al re la facoltà di
respingere una prima volta le proposte degli stati, ma che l’obbligava ad ammetterle quando erano presentate da un nuovo voto, dopo un certo tempo. Era questa una sorta di diritto di sospensione, che i faziosi chiamarono insolentemente [il diritto o piuttosto] il beneficio di appellarsi dalla volontà nazionale mal informata alla volontà nazionale meglio informata22.[Ma poi non si lasciò neppur più al sovrano questo ridicolo residuo di autorità].
Ben presto egli fu forzato a dare il consenso ai decreti più mostruosi: ben presto gli si ritirò la facoltà di dare la sua sanzione. Si deplorerà in eterno che il Re abbia subìto questa innovazione sovversiva e che abbia permesso agli stati di prendere il titolo di assemblea nazionale e di uscire, nelle deliberazioni, dai limiti che egli aveva loro segnato. Si deplorerà che egli abbia tollerate le imprese dei ribelli, invece di reprimere la loro arroganza. Con la sua debolezza, egli condannò se stesso a passare dal trono al patibolo, e la Francia e l’Europa a subire una lunga epoca di disordini, attraversata da discordie e violenze, dominata dalla tirannide e afflitta da delitti, orribili guerre e indicibili calamità.

Note:

1 In altri tempi, quando in Germania ci si riferiva all’Imperatore e all’Impero, si intendeva semplicemente far capo all’unità dell’Imperatore con i suoi Stati, vale a dire con i suoi vassalli e i suoi alti funzionari; ma non si indicava affatto, con queste parole, l’assurda pretesa che gli Stati fossero al di sopra dell'imperatore, e ancor meno ch’essi dovessero atteggiarsi a ostilità nei suoi riguardi. La stessa considerazione vale anche a stabilire il senso di certe espressioni usate negli antichi testi: popolo di un re, popolo unito in assemblea. Con queste parole, si intendeva definire i grandi dell’Impero, i personaggi che non dipendono che dal re; poiché essi soli formano, nel senso più appropriato, il suo popolo diretto.

2 «Rex erat qui dicebat proceribus Persarum: Ne viderer meo tantummodo usus consilio, vos contraxi; caeterum mementote, parendum vobis magis esse quam suadendum». (VALERIO MASSIMO [Exemplorum memorabilium], lib. IX, cap. V, e U.
GROZIO, I. b. et p. cit., lib. I, cap. III, § 16.
3 Ibid., lib. I, cap. III, § 10; lo stesso J. BODlN, op. cit., lib. I, cap. VIII, e S. PUFENDORF, I n. et g. cit., lib. VII, cap. II.
4 lbidem, lib. I, cap .III.
5 J. S. PÜTTER, Historische E1twicklung der [heutigen] Staatsverfassung des deutschen Reichs. (Sviluppo storico della
costituzione attuale dell’Impero di Germania). [1786-87-88-98], voI. I, p. 38
6 E. MONTAG, Geschichte der deutschen staatsbürgerlichen Freyheit cit., voI. I, p. 123, note c e t; vol. II, V sezione.
7 «Principium, caput et finis parlamenti».
8 «Consilium impensum domino regi».
9 « Ad faciendum et consentiendum».

10 J. S. PÜTTER, op. cit.
11 Cfr. E. MONTAG, Geschichte der deutschen staatsbürgelichen Freiheit cit., vol. II, pp. 83, 91 e 92. Quanto agli stati generali
di Francia, «vi si chiamarono i grandi dello Stato, vescovi, conti o duchi e coloro che il sovrano voleva consultare. Il re decideva
sempre» (voI. II, p. 291). In Inghilterra, il re nominava, in origine, i rappresentanti delle città, dei borghi, secondo il suo
gradimento, fra i grandi ufficiali della corona ed altre persone notabili del regno. Cfr. lo scritto apparso nel 1821, sulla costituzione dell’Inghilterra, p. 8.
12 VON MARTENS, Europ. Staatsrecht, p. 21.
13 Il Sismondi afferma, a proposito degli stati generali lombardi: « Tutti gli uomini liberi erano tenuti ad assistervi». (Histoire
des républiques [italiennes du moyen âge], cit., vol. I, p. 86).
14 Cfr. la composizione degli stati generali nel regno d'Israele sotto Giosué e Davide. (Giosué, XIX, e I Paralipomeni, XXIV).
Tutto si faceva, press’a poco, come ai nostri giorni.

15 « Praelati, proceres, missisque potentibus urbes. (GUNTHER, [Ligurinus cit., lib. VIII, v. 577]).

16 J. S. PÜTTER, op. cit., vol. I, p. 306.
17 F. L. T. VON SPITTLER, Entwurf der Geschichte der europäischen Staaten cit., vol. II, p. 473.
18 c. Ibidem, vol. II, p. 534.

19 Il Pütter riporta le notevoli ragioni per le quali l’Imperatore si opponeva alle novità politiche (op. cit., voI. II, pp. 86-87).
Quest’ultimo sosteneva di avere il diritto di convocare o meno la dieta e di determinare gli argomenti che dovevano essere
sottoposti alle sue deliberazioni. Ma la stanchezza generata dalla guerra e, in pari tempo, l’ascendente dei reali di Francia e di
Svezia, erano tali ch’egli non poté far prevalere i veri principi, e si vide costretto ad abbandonare i suoi diritti più fondamentali:
la qual cosa causò la rovina dell’Impero germanico.
20 Mentre gli stati generali di Tours erano riuniti in assemblea, durante la minorità di Carlo VIII, in un’epoca in cui queste
assemblee avevano la maggiore potenza, l’oratore Relly si espresse nei termini seguenti, indirizzando la parola al re in loro nome:
«Altissimo, potentissimo e cristianissimo re, nostro sovrano e signore secondo l’ordine di natura, i Vostri umilissimi e
obbedientissimi sudditi, venuti qui per Vostro comando, compaiono e si presentano davanti a Voi in tutta umiltà, riverenza e
soggezione. Sono stato incaricato, da parte di questa notabile assemblea, di esporVi il buon volere, l’affezione cordiale, il fermo e
irremovibile proposito, che essi hanno, di servirVi e di obbedire a tutti i Vostri comandi e desideri, collaborando all’esercizio dei
Vostri affari» (J. BODIN, De la république cit., cap. VIII, pag. 138).

21 Cfr. J. L. DELOLME, La constitution de 1’Angleterre ([Amsterdam, 1771], vol. I, p. 63; VON MARTENS, Europ.
Staatsrecht cit., p. 172.

22 La medesima lotta si riprodusse nel 1821, nell’assemblea delle «çortes» a Lisbona, e terminò in maniera ancor più conforme al falso principio della sovranità popolare. Oltre al fatto che questa assemblea usurpatrice pretese di dettare leggi sui più importanti argomenti, indipendentemente dalla sanzione del re, essa decretò che, anche per le altre leggi, il re sarebbe stato obbligato a dare la sua sanzione nel termine di un mese, in mancanza della quale, la sanzione stessa sarebbe stata presunta e la legge promulgata.