domenica 16 ottobre 2011

Monarchia tradizionale parte 4:La tradizione.



"Purtroppo, qualche volta, se la dottrina é di incomodo, se la regola é di ostacolo a qualche opera, se nel caso si opina che il dissimulare o il transigere faciliti il buon successo, si dimenticano le regole sicure e si trascurano i principi più solidi ingannati da un bene che é soltanto apparente. Ma che cosa resterà di queste costruzioni senza fondamento, innalzate sull'arena? Cadrà la pioggia, entreranno le acque con violenza, infurieranno i venti e rovinerà la casa non fondata sulla solida pietra della dottrina ferma e inconcussa".
- Beato Pio X

La rivoluzione europea
In lingua castigliana la parola "rivoluzione" può significare molte cose. In astronomia dicesi rivoluzione il movimento completo che compie un pianeta o un satellite nel percorrere la sua orbita regolare. In medicina é un'alterazione e commozione tra gli umori. In senso generale, é l'azione di rivolgere o rivoltarsi.
Con tutto il rispetto per certe nuovissime accezioni, é sicuro che sin dall'antichità, nella sua accezione politica, la rivoluzione é l'inquietudine, il chiasso, la sedizione o la grave alterazione in una società o in uno Stato, ossia una perturbazione negativa dell'ordine sociale vigente. E così a tal punto che l'insospettabile autorità di Roque Barcìa nel suo Diccionario general etimològico (1), riconosce che solo metaforicamente si può intendere la rivoluzione come nuovo ordine nel governo delle cose, dandole un senso costruttivo. Ma nel castigliano corretto rivoluzione implica qualcosa di negativo; é la negazione dell'ordine, il baccano, la violenza scapigliata e distruttrice. Quando la violenza non distrugge, ma ricostruisce l'antico ordine nella sua perfezione più bella, non la si chiama rivoluzione bensì restaurazione. I due secoli di abbellimento della parola - spesi dal pensiero europeo dal 1789 - cercando di attribuirle la valenza positiva di "ordine nuovo", nulla possono contro l'inesorabile autenticità della lingua castigliana che equipara la rivoluzione al disordine.
Come altri termini politici, "rivoluzione" é vocabolo che entra nel dizionario del diritto pubblico in una precisa epoca: intorno al 1600 in Francia, durante uno degli attriti delle Spagne contro l'Europa. Quando Enrico IV compra Parigi al prezzo di una messa machiavellicamente sacrilega, i suoi nemici del partito spagnolo o della Lega vanno a rendere omaggio al nuovo cattolico già re, con un opportunismo da cui si discolpano spiegando: "Que voulez-vous? C'est la révolution" (2). Da allora il termine "rivoluzione" passa ad acquisire il significato di cambiamento politico radicale contrario all'ordine, non di ristabilimento violento dell'ordine.
E' un significato che soddisfa le esigenze del politico, ma resta incompleto per lo storico, perché la storia impone di distinguere la serie di cambiamenti politici parziali dal grande processo che nega i sistemi culturali e politici cristiani, iniziato con la devianza eretica costituita dal protestantesimo, continuato in Inghilterra nel secolo XVII e nell'America del Nord nel XVIII, il cui apice é la profonda alterazione del 1789.
La rivoluzione scusata
La filosofia hegeliana e totalitaria del secolo XX ha preteso di superare il significato negativo di quanto é rivoluzionario, cercando un contenuto creativo nell'antica rivoluzione demolitrice: appoggiandosi ad Hegel con fedeltà innegabile e considerando come tesi il vecchio ordine e come antitesi i movimenti liberali, contestualmente soppressi e assorbiti nella tipica funzione dello "aufheben" hegeliano, innalza come sintesi le rivoluzioni creatrici dello Stato totalitario, come momento dinamico di questo. Se lo Stato totalitario sintetizzava e superava ("aufhob") gli Stati assolutisti e quelli liberali, la rivoluzione che lo genera sintetizza e supera l'ordine antico con la rivolta borghese o marxista. Negativa per quanto sopprimeva, era positiva per quel che conservava, divenendo così creatrice ed effettivamente positiva.
Questa nuova accezione della parola "rivoluzione", così in contrasto col modo tradizionale di parlare in Castiglia e con la generale terminologia prehegeliana, si é fatta largo nel nostro secolo al riparo dei nuovi linguaggi del nazional-socialismo hitleriano, del fascismo mussoliniano e del bolscevismo comunista.
Il più sicuro degli hitleriani speculativi, Julius Binder, teorizzò la rivoluzione creatrice in un System dei Rechtsphilosophie con accenti che non sono stati superati da nessun altro teorico del totalitarismo di alcuno dei movimenti paralleli. Binder lega la nozione di rivoluzione alla relazione dialettica, stabilita da Hegel, tra la norma e la contronorma, tra "Satz" e "Gegensatz", in funzione del postulato dell'identificazione del reale col razionale. Julius Binder, opponendosi all'ebreo A. Liebert che nel suo Vom Geist der Revolutionen aveva nel 1919 conservato il senso liberale di cambiamento distruttivo in ambito politico, sostiene che nella ragione si giustificano sia la norma che la contronorma del diritto futuro, per la stessa ragione che il divenire dialettico giustifica nello stesso tempo la tesi e l'antitesi, essendo la rivoluzione la "Trägerin der Idee" ed il sostegno dell'idea rinnovatrice che sostituisce il sistema anchilosato della tesi con la nuova sintesi giuridica. Come in questa sintesi si usano degli elementi della tesi, così nel diritto nuovo si conservano ingredienti - trasformati - dell'antico; la rivoluzione é l'agente creatore che opera tale cambiamento nella macchina sociale e giuridica della vita collettiva della comunità popolare (3).
Questa mutazione corrisponde al cambiamento dalle rivoluzioni distruttrici alle rivoluzioni conservatrici, nel confusionismo terminologico che identifica rivoluzione con restaurazione, senza fare altro che aggiungere alla prima l'aggettivo "nazionale". Dal che si ripete la lettura di Hegel fatta da Georges Sorel, che postula degli orientamenti "vérs un idéalisme constructif". Già nel 1932, un tedesco, Michael Freund, nel suo Georges Sorel, der revolutiönäre Konservativismus, aveva additato la possibilità di una rivoluzione conservatrice, con termini ripresi da Gustavo Glaeser in un articolo pubblicato nella rivista Critica fascista, del 15 settembre 1933, titolato Attualità di Sorel. Questa é l'opinione successivamente canonizzata dall'alta autorità di Sergio Panunzio, quando nella sua Teoria generale dello Stato fascista definisce il fascismo come "un grande fatto storico di conservazione rivoluzionaria" (4).
Questo punto é talmente connesso alla prospettiva della speculazione totalitaria - nella misura in cui questa deriva dall'hegelismo -, che la sintesi che abbiamo visto aver luogo tra fascisti e nazional-socialisti si verifica pure nel bolscevismo russo. Nell'articolo Dialecktiskii Materialism, pubblicato nel tomo XXII dell'Enciclopedia sovietica, un uomo dell'importanza di A. V. Stchoglov parte dalla legge della "zakon otrichaniya otrichaniya", la legge della negazione della negazione, per dimostrare un principio positivo nel quale la negazione sia "snimaechya", cioè superata, raccolta e soppressa contemporaneamente: esattamente quel che gli hegeliani chiamerebbero "wird aufgehoben". Col che si produce la rivoluzione conservatrice, implicita nella riapparizione del nazionalismo russo assieme alle riforme sociali comuniste. Nella Storia del partito comunista, pubblicata ufficialmente a Mosca nel 1950, si parla di rivoluzione dall'alto, con frasi attribuite allo stesso Stalin (5).
Tuttavia, nonostante il suo imponente apparato filosofico, la concezione totalitaria della rivoluzione non eccede le dimensioni della precedente tematica della rivoluzione distruttrice, perché si continua a partire dal fatto demolitore che distrugge quanto esisteva precedentemente, quali che siano le spiegazioni dottrinali addotte per gli effetti di distruzione inerenti tutte le imprese rivoluzionarie. Questa spiegazione é in fondo talmente semplice da definire la possibilità tanto della rivoluzione creatrice di tipo hegeliano, quanto la giustificazione positivista della rivoluzione seccamente distruttrice. Perché coloro che difendono la realtà rivoluzionaria partendo da una concezione biologica del diritto, come fa lo straripamento impetuoso di una corrente politica, finiscono col confondere il reale col razionale o quantomeno a subordinarlo, innalzando la storia a regola e il mutamento rivoluzionario fattuale a principio: gli uni e gli altri non cercano affatto di assoggettare i dati storici alle regole di una metafisica che li precede.
La rivoluzione davanti al pensiero tradizionale
Quella soggezione dei fatti a una precedente metafisica é ciò che caratterizza il pensiero politico spagnolo quando analizza la rivoluzione, sia sul suo molteplice piano politico, che nel senso di processo corrosivo moderno ed europeo attribuitole dalla filosofia della storia. Se fosse possibile riassumere l'attitudine dei pensatori ispanici che hanno affrontato il problema da tre secoli ad oggi, direi che per essi la rivoluzione é primariamente un male e, in secondo luogo, un assurdo.
I nostri classici politici sostenevano che la rivoluzione é un male perché porta con sé la negazione dell'ordine dell'universo, buttando apertamente a mare, in modo radicale e violento, i dogmi pazientemente depurati generazione dopo generazione, che integrano il tesoro spirituale di un popolo (6); é la negazione della Tradizione, soppressa alla radice dall'impeto rivoluzionario, invece di venire logicamente e progressivamente migliorata. Nessuno meglio del mio connazionale Donoso Cortés ha esposto questo significato distruttore e nemico dell'ordine - e quindi malvagio -, della rivoluzione, quando scrive, nella conclusione del suo famoso Saggio, che essendo l'ordine necessario alle società e le rivoluzioni un cambiamento disordinato di esso, logicamente non sono neppure concepibili; infatti "E' a tal punto necessario che tutto sia soggetto a un ordine perfettissimo, che l'uomo, pur avendo portato il disordine in ogni cosa, non riesce a concepire il disordine; per questo motivo, non c'è rivoluzione che, nel distruggere le istituzioni precedenti, non le distrugga in quanto assurde e perturbatrici, e che nel sostituirle con altre di arbitraria invenzione non le dica costitutive di un ordine eccellente" (7). Ordine nuovo rivoluzionario che lo stesso Donoso Cortés qualificò, nel capitolo V del terzo libro del Saggio, né più né meno come "la nobiltà del crimine".
L'assurdo della pretesa rivoluzionaria risalta in modo manifesto quando la si confronta con la concezione cristiana dell'universo. Quando sant'Agostino ci ha definito con frasi incomparabili quale sia il concetto cristiano dell'ordine universale, non si é limitato a descrivere la gerarchia delle cose naturali, bensì vi ha aggiunto la costituzione delle società umane, cosa evidentemente logica, perché l'ordine ha radice nella legge eterna e questa abbraccia la totalità degli aspetti della creazione, comprendendo quello fisico, quello morale e quello politico. Dice sant'Agostino nel primo paragrafo del capitolo XIII del XIX libro del suo De civitate Dei: "Pax civitatis, ordinata imperandi atque obediendi concordia civium. Pax coelestis civitatis, ordinatissima et concordissima soietas fruendi Deo in invicem in Deo. Pax omnium rerum, traquillitas ordinis. Ordo est parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio" (8).
Dal che si ricava: primo, che il benessere della comunità consiste nell'ordine che la rivoluzione nega, per cui la rivoluzione é intrinsecamente cattiva; secondo, che l'alterazione che la rivoluzione provoca presuppone una rottura - opera dell'uomo e contraria al corso della storia - della perfezione dell'ordine. Il "natura non facit saltum", implica nell'ordine sociale - in cui si attua la libertà dell'uomo - la negazione dei radicali cambiamenti rivoluzionari, attribuibili perciò alle conseguenze della ribellione condannata nel primo precetto dei comandamenti del Decalogo. E' per questo che a ragione Antonio Aparisi y Guijarro ha detto: "Sarete dei: questa frase detta ai primi uomini compì la prima rivoluzione. Sarete re: questa frase detta ai popoli, ha dato corso all'ultima. Sempre l'orgoglio!" (9).
La tradizione
Contro la teoria della rivoluzione in ogni sua forma, il pensiero ispanico ha inalberato la visione di un ordine progressivamente migliorato senza salti nel vuoto, che é quanto si denomina con Tradizione.
La Tradizione nasce dalla vita, essendo nelle parole di Enrique Gil y Robles la "continuità della vita umana" (10). Ogni vita coagula in un insieme di esperienze ed opere che rimangono quando l'uomo, che le ha realizzate o raccolte, scompare dalla scena dei viventi; ogni esistenza umana elabora un tesoro trasmissibile a coloro che verranno dopo, essendo proprio la capacità di ereditare il tesoro accumulato dalle precedenti generazioni quel che distingue l'uomo dagli animali irrazionali. Quando nasciamo non lo facciamo astrattamente, ma col possesso di formule vitali trasmesseci dai nostri padri, che integrano quel che chiamiamo la nostra cultura e la nostra tradizione; per questo motivo Donoso Cortés disse superbamente che "i popoli senza tradizioni diventano selvaggi" (11).
Quel tesoro é soggetto a due criteri di selezione: il vigore degli elementi trasmessi permette la sopravvivenza di alcuni eliminandone altri, secondo una proiezione nella storia delle tensioni vitali presenti; e le opere dell'uomo si sottomettono a regole cui si deve assoggettare l'uomo stesso, per la sua condizione di creatura responsabile davanti alla legge di Dio. Nel primo caso la Tradizione si purifica, in modo naturale, nello svolgersi logico della storia; nel secondo caso la Tradizione si depura metafisicamente nella pietra di paragone costituita dalla legge di Cristo.
La differenza che distingue la nostra civiltà ispanica con la civiltà europea é appunto che, essendo la Tradizione consustanziale alla vita umana, l'Europa non ammette altro che la cieca depurazione meccanica promanante dallo scontro delle forze spirituali e sociali, mentre la filosofia tradizionale media i risultati degli sforzi umani - in proiezione verso il futuro - con i principi della verità cattolica. Per l'Europa tutto é storia viva senza metafisica previa; per la Spagna la metafisica é sempre stata metro dell'avvenire. Per l'Europa si deve tenere conto solo dell'opera dell'uomo; per le nostre genti gli affari dell'uomo devono sempre accordarsi con quelli di Dio. In definitiva tutto consiste nel sopprimere o mantenere lo schema del cosmo come dialogo tra l'Onnipotenza divina e l'ineludibile libertà dell'uomo.
Positivisti o hegeliani canonizzano i fatti e riducono la tradizione ai residui che i fatti hanno lasciato, senza distogliere gli occhi dal vile cammino costituito dalla storia. I cristiani, al contrario, lungi dall'ammettere in blocco i fatti dando loro valore per la forza che permise loro di lasciare tracce, coniugano i fatti e gli uomini che li hanno compiuti con alcuni canoni superiori, con le regole che vengono direttamente da Dio. In definitiva, nella dualità delle tesi relative al contenuto della tradizione politica, appare ancora una volta l'opposizione antitetica tra la civiltà teocentrica di cui siamo continuatori e la civiltà antropocentrica che nel capitolo II ho definito civiltà europea.
Tradizione e progresso
Tuttavia, senza uscire dai canali della verità cristiana e della metafisica che vaglia previamente, la Tradizione é l'operare degli uomini e dunque dipende da ogni azione umana. Quel che riceviamo dagli antenati non coincide con quanto trasmettiamo ai discendenti, perché nella massa culturale che trasmettiamo inseriamo il nostro personale apporto, il frutto del nostro operare stesso. Questo apporto, che ogni generazione aggiunge a quel che ha ricevuto dalle generazioni precedenti, é il progresso.
Dal che risulta l'assurdità della posizione che soleva contrapporre la tradizione al progresso, giacché non esiste progresso senza tradizione, né tradizione senza progresso. Progredire é mutare naturalmente e migliorare qualcosa della Tradizione ricevuta dal punto di vista morale; se questa manca, se non c'è materia da riformare, il progresso é impossibile. Tuttavia, anche la Tradizione considerata come massa immutabile é qualcosa di morto, un'archeologia pietrificata, un blocco inutile. Se gli uomini non trasmettessero la Tradizione ricevuta aggiungendovi la propria impronta personale, la Tradizione sarebbe un cadavere.
Anche nel pensiero. Combattendo successivamente l'assolutismo e il liberalismo, gli eccessi dell'autorità e quelli della libertà, la tirannia di uno solo e quella di molti, gli argomenti immutabili devono essere esposti con un cambiamento frontale per rispondere alla specifica modalità operativa del nemico. E' quanto diceva in modo splendido Vàzquez de Mella quando definiva in cosa consiste il progresso della Tradizione: "perché - erano le sue immagini - non la credo per come é presentata: uno stagno di acque ferme e invariabili, che non possa essere accresciuto da nuovi rivoli che scendono dalle fonti pure della montagna" (12).
La Tradizione delle Spagne
La Tradizione delle Spagne é nata nella lotta. La Reconquista ha dondolato la sua culla con l'incrociare di spade e la Contro-Riforma ha sfiancato il suo slancio sbriciolando le lance dei nuovi crociati nelle Fiandre di cinque continenti. E' una Tradizione di combattimento militare, di senso missionario puro, nata contro la moltitudine dei mori maomettani ed affilata contro l'eresia protestante. Dal che derivano le sue due caratteristiche, storica e di ideali.
Storicamente la Tradizione delle Spagne é integrata dall'insieme delle Tradizioni di ciascuno dei popoli che le compongono. Vale a dire che é una Tradizione unica, ma variegata e multiforme nelle sue espressioni sociali e storiche in conformità all'idea dei Fueros. Nella penisola comprende le tradizioni particolari di Castiglia, della Galizia, del Portogallo, dei tronchi di Euskalerria e della Catalogna, dell'Andalucìa, di Aragona e altre minori; in America, quella di tutti popoli che vivono dal Rìo Grande al Sud; in Oceania, quella delle Filippine; nelle terre d'Occidente, i brandelli di tempo in cui Napoli, la Sardegna o le Fiandre servirono l'impresa universale capitanata da Castiglia.
Dal punto di vista degli ideali é l'instaurazione dei comandamenti di Cristo come leggi del vivere sociale, ristabilendo nelle circostanze d'oggi quello spirito che fu nella Cristianità medievale. Da cui ne viene che, essendo partita da un pezzo di terra d'Occidente, abbia - ed essa sola l'abbia - una trascendenza dai confini universali.
NOTE
1) Alvarez hermanos, Madrid 1882, IV, 704 b.
2) Heinrich Treitschke, Politik, V ed., Leipzig, S. Hirzel, 1922, I, 131.
3) System der Rechtphilosophie, Georg Stilke, Berlino 1937, pp. 393-394.
4) Seconda edizione, Padova, Cedam 1933, p. 13.
5) Istoriya vsesoyinoi kommunisticheskoi partii (bollshevikov), Gospolitizdat, Moskvà 1950, p. 505.
6) Dal testo si inferisce come le critiche alla rivoluzione distruttrice nulla hanno a che vedere con l'idea di rivoluzione come restaurazione, che appare nel pensiero di José Antonio Primo de Rivera come risultato di una politica pragmatica.
7) Trad. it., Rusconi 1972, p. 429.
8) "...la pace della città é l'ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell'obbedire; la pace della città celeste é la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose é la tranquillità dell'ordine. E l'ordine é la disposizone degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene", trad. it., Paoline 1973, p. 1161.
9) Antologìa, Editorial Tradicionalista, Madrid 1951. N. 81.
10) Tratado de derecho politico, Imp. Salmaticense, Salamanca 1899 y 1902, I, 219.
11) El cerco de Zamora, in Obras, I, 78.
12) La iglesia indipendiente del Estado ateo, in Obras, Madrid, V, 1931, 70.