domenica 25 settembre 2011

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due-Sicilie(1860-1861):Il tradimento di Lanza e l'entrata dei Garibaldini a Palermo:Parte 5°.

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.


Palermo 1860.

Partiti da Corleone invece di camminare a marcie forzate, come richiedeva il bisogno, si fece alto alla Ficuzza, poche miglia distante da Corleone, ed ivi si passò la notte del 28 maggio.
Meckel era un prode soldato, onestissimo, devoto alla causa del Re, cui serviva, però avea il gran difetto, non raro negli allemanni, di essere testardo, e freddo nelle operazioni militari. Fu questa la causa della disgrazia del Regno e della Dinastia: sebbene la maggior parte de' duci regii non tradirono, pur nondimeno coadiuvarono la causa della rivoluzione col contenersi ora da presuntuosi, ora da vili, da inetti sempre.
La mattina del 29, alle 7 del mattino, con tutto il nostro comodo, la brigata si mosse, facendo alto ogni momento. Si giunse a Marineo a mezzo giorno, ove si dimorò molto senza ragione alcuna. La marcia da questo paese a Misilmeri fu lenta ed uniforme. La sera, a tarda ora si giunse a Villabate, tre miglia lontano da Palermo al sudest, e si ristette in quelle campagne.
La notizia della rotta a Parco di Garibaldi, sgomentò i rivoluzionarii di Palermo. I così detti liberali di quella città, tronfii dopo Calatafimi, abbassavano la cresta dopo i fatti di Parco: e taluni più prudenti tacevano e si nascondevano. Lanza venne in loro aiuto colla sua inerzia, e con la sua inesplicabile condotta. Costui giunto a Palermo si chiuse nel Palazzo reale, ed era invisibile come un Imperatore del celeste impero. Era però circondato da' suoi parenti di Palermo, i quali erano in voce di liberali. Lanza andava in fama di pessimo amministratore, di mentre grossa, e tuttavia si credeva che sapesse menar le mani, e le facesse muovere a' soldati.
E davvero per domare la rivoluzione siciliana non si richiedeva un Generale strategico e di grande istruzione, come un Satriano: sarebbe stato sufficiente un militare qualunque sia, anche un borghese, il quale non avesse impedito a' soldati di battersi ed inseguire il nemico. Alla naturale inettezza di Lanza si aggiungevano le liberali insinuazioni de' suoi parenti, i quali istillavano il loro liberalismo a quel gallonato fanciullone. È questa la sola ed unica ragione che si potrebbe addurre per ispiegare la condotta tenuta in Palermo nel tempo della sua luogotenenza con l'alter-ego.
La truppa che difendeva Palermo era spartita a' Quattroventi, a Castellammare, alle Finanze, ed al Palazzo reale: non contando i battaglioni ch'erano in Monreale, e la brigata Meckel andata in cerca di Garibaldi. Lanza non pensò a fornire la truppa di viveri, onde provvedere a tutto quello che suole avvenire in tempo di guerra.
Egli, invisibile nel Palazzo reale, qualche volta cacciava il naso dalla sua camera e domandava al suo stato maggiore: "che si fa? che si dice?" Bel tipo di Generale in capo! se se ne avesse uno per ogni Stato sarebbe la delizia de' rivoluzionari. Lanza, il solo ordine che diede appena giunse in Palermo fu quello che si togliessero dal Banco settecentomila ducati: trattandosi di danaro è un altro affare, l'attività non manca mai, tanto a' codini, quanto, e più di tutti a' liberali.
Il 28 maggio giunsero a Palermo due battaglioni esteri, i quali appena toccato il porto voleano sbarcare con animo di battersi. Il Comandante Migy si recò subito da Lanza e lo pregò a dar l'ordine che la sua gente sbarcasse, esprimendogli il desiderio ed il valore che aveano que' soldati di contenere un tentativo, che avrebbero potuto fare gli invasori. Il Lanza si ricusò assolutamente, e lasciò que' soldati a bordo che poi fece sbarcare il giorno appresso per adunarli attorno al Palazzo reale, permettendo che restassero inoperosi, come inoperosi erano ivi tutti gli altri battaglioni napoletani. Si disse che il maggiore Migy avesse rotta la spada in faccia al Luogotenente generale Lanza, quando questi lo condannò all'inazione.
Lanza fu avvertito da molte persone degne di fede, che Garibaldi marciasse sopra Palermo, che entrerebbe per Porta di Termini la mattina del 27 maggio, e che la città si leverebbe a rivoluzione.
La sera del 26 si leggeva pubblicamente per le vie di Palermo una lettera di Garibaldi diretta al Barone Cozzo, presidente del Comitato rivoluzionario, con la quale lo avvisava come egli entrerebbe in città dalla Porta di Termini il giorno seguente sull'alba, come volea trovar barricate pronte, e sentire le campane sonare a stormo in segno di generale rivoluzione.
Lanza sapea tutto e a nulla volea provvedere.
A chi gli facea osservare come non dovesse tenere oziosi tanti battaglioni intorno al Palazzo reale, ma spingerli contro Garibaldi, egli rispondeva: "Lasciatelo scendere a Palermo che tel concerò io per le feste."
Il generale Colonna, che si era distaccato da Meckel con la sua brigata alla Piana de' Greci per opporsi a Garibaldi nell'entrare a Palermo, ebbe ordine da Lanza, appena giunto a Villabate, di lasciare quella posizione e ritirarsi nel piano del Palazzo reale ov'era altra truppa accampata e che stava in ozio; perocchè Villabate era il punto strategico per difendere Palermo dalla parte del Sud, da dove si attendeano i garibaldini e le bande siciliane. Lo stesso generale Colonna pregava Lanza di mettere de' soldati nelle strade principali della città, essendo certo ed imminente lo scoppio della rivoluzione; e costui rispondeva: "Non voglio far nulla, se si rivoltano bombardo.
Il generale Marra fece leggere una lettera al Lanza scritta da un signore devoto al Re, il quale lo preveniva, e lo assicurava, che nella prossima notte sarebbe scoppiata la rivoluzione, e che Garibaldi sarebbe entrato in Palermo sull'alba del giorno seguente. Il Generalissimo Lanza dopo di aver letta quella lettera, la restituì a Marra, e gli disse freddamente: «Bombarderò» Sciagurato! Era egli ben invaso dalla bombardomanìa? Bombardare una popolosa e monumentale città senza scopo militare,mentre avea tutti i mezzi di impedire la rivolta popolare, e l'entrata di Garibaldi in Palermo, è il maximum del delitto, dell'infamia e della pazzia. Però, Lanza non era pazzo, egli sapea quel che facea: col bombardare Palermo raggiungeva lo scopo di far odiare l'innocente e tradito sovrano. Di fatti l'esecutore di quello scellerato bombardamento fu il colonnello Briganti conveniunt rebus nomina saepe suis -
il quale comandava allora il Forte di Castellammare: quello stesso Briganti, poi generale, che mentre in Calabria comandava una brigata, andava giornalmente a confabulare e pranzare con Garibaldi, e fu ucciso da' soldati non potendo costoro sopportare un traditore tanto audace.
Era questo traditore l'amico e il confidente del generalissimo Lanza, l'esecutore de' più tenebrosi delitti. Io anticipo gli avvenimenti, acciò si sappia da tutti, che Francesco II non ordinò punto il bombardamento di Palermo, e quando gli fu annunziato l'atroce e pazzo agire del generalissimo Lanza, si mostrò oltre ogni dire adirato e dolente, e disapprovò altamente quel bombardamento di già consumato. Quel giovane e pio Sovrano - che i popoli ebbero la disgrazia di non conoscere - per riparare il danno che avea sofferto quella città, invece di ordinare poi di conquistarla insanguinandola, si contentò di ritirare le truppe ed abbandonarla a Garibaldi: esempio sublime, unico nella storia de' popoli. Oh! i popoli, maledicono sempre il vinto e lo calunniano ingiustamente. Ma che Palermo intanto non ignori, come la principale anzi l'unica ragione per la quale Francesco II abbandonò a Garibaldi quasi l'intera Isola fu quella di non insanguinarla di più di quanto l'avea insanguinata furbescamente il generalissimo Lanza. Cessi dunque la meraviglia che 24 mila uomini di buonissima truppa abbandonassero una città già conquistata, e si ritirassero in sembianza di vinti sul continente napoletano.
Lanza, attese le notizie che avea ricevute, in cambio di rinforzare Porta di Termini, e l'altra vicina di S.Antonino, la sera del 26 maggio, quando Garibaldi si trovava vicino a quelle porte, richiamò la metà della truppa che le guardava. A Porta S.Antonino lasciò 260 reclute, giudicate inabili a seguire il 2° cacciatori che trovavasi con Meckel: a Porta di Termini 59 soldati del 9° di linea. È pur troppo evidente, Lanza preparava la facile entrata di Garibaldi in Palermo per la mattina del 27.
Garibaldi dopo la confabulazione tenuta al trivio della Ficuzza, importunato da' suoi amici si avviò a malincuore verso Palermo per la via di Marineo e Misilmeri. Udito che la brigata Meckel non l'inseguisse, prima di giungere a Marineo si ascose con i suoi in una foresta sotto la Ficuzza ove passò la notte.
La mattina del 26 scese a Marineo, indi si avanzò sino a Misilmeri. In questo paese fu incontrato da parecchi membri del comitato rivoluzionario di Palermo, e da un certo Ebar inglese corrispondente del magno giornale il Times,
residente pure in Palermo, il quale Eber fu poi il duce di una divisione garibaldina.
Garibaldi ad onta de' consigli di Crispi e di Turr, tuttochè si trovasse a poche miglia lontano da Palermo, non avea cuore di avventurarsi alla temeraria impresa, di cacciarsi dentro questa città. Ma i membri del comitato rivoluzionario di Palermo, e lo stesso Eber lo persuasero a compiere la cominciata opera, avendogli
descritto le posizioni che occupava la truppa, e che a Porta Termini e a quella di S.Antonino si trovassero pochissimi soldati. Forse gli rivelarono le loro relazioni con qualche duce regio, e le promesse che da costui avevano ricevute. In fine gli assicurarono che la popolazione di Palermo sarebbe tutta per lui, appena apparissero le bande garibaldine.
Si erano riunite nelle vicinanze di Misilmeri molte bande siciliane, una, condotta da La Masa era venuta da Mezzoiuso, un'altra condotta da Fuxa della Bagaria, ed altre condotte da' fratelli Mastricchi.
Garibaldi animato da tutto quello che avea inteso dal comitato rivoluzionario di Palermo, purtuttavia volle passare a rivista le bande di La Masa, di Fuxa e de' fratelli Mastricchi, e persuaso che quelle bande erano desiderose di battersi e seguirlo dovunque, si decise a buttarsi sopra Palermo la mattina seguente, giorno 27 maggio.
La notte del 26 maggio, Lanza e gli altri duci napoletani dormivano tranquillamente come ne' beati tempi di perfetta pace; la soldatesca naturalmente l'imitava. I garibaldini però vegliavano ed operavano energicamente; essi si unirono alle bande siciliane, e tutti formarono un'armata di circa 4000 uomini. Quella stesa notte del 26 si avanzarono sulla sponda destra del piccolo fiume Oreto, e si divisero in due colonne. Quando appena spuntava l'alba del 27 maggio, una colonna si slanciò per ponte dell'Ammiragliato, l'altra pel ponte delle Teste. La prima colonna assalì i soldati di porta S. Antonino, la seconda quelli di Porta di Termini.
Le reclute che guardavano Porta S.Antonino destate improvvisamente, se bene in disordine, purtuttavia fecero il loro dovere, e respinsero per più fiate gli assalitori. Il loro capitano, non so se vile o compro della setta, fingendosi ferito, con parole e grida sconfortò tutti, e li abbandonò poi per recarsi a Porta di Termini, e sconfortare con i suoi piagnistei quegli altri soldati. L'avanguardia garibaldesca era guidata da un certo Tukery inglese, che si avanzava in mezzo a' carri per assalire Porta S.Antonino: nondimeno sofferse gran danno; Tukery fu poi ucciso, e surrogato da Nino Bixio. Le reclute dopo di aver fatta una valida resistenza, abbandonate dal proprio Capitano, e sopraffatte dal numero degli assalitori, si ritirarono combattendo verso il Palazzo reale.


Entrata in Palermo dei Garibaldini.

A Porta di Termini succedeva la medesima scena con piccole differenze. Que' 59 soldati del 9° di linea, fecero pure una vigorosa resistenza, ma sempre in disordine; ed oppressi dal numero de' nemici, attaccati alle spalle da' rivoluzionari della città, furono costretti di ripiegare alla volta del Palazzo reale.
Lanza, duce supremo, Luogotenente del Re con alter ego, dormiva saporitamente, invece di di vigilare per non farsi sorprendere da un nemico audace, che già si sapeva essere alle porte di Palermo. Egli, destato dal rumore, fece capolino dalla sua ben munita stanza, e domandò con voce rauca a qualcheduno del suo stato maggiore: «Che si dice? che si fa? «E mentre facea quest'insulsa domanda, egli forse sapea meglio di tutti quello che si dicesse e si facesse in quella notte, ed in quella mattina memoranda. Sollecitato a dare i suoi ordini per respingere quel nemico che dovea acconciare per le feste, esitò, e furbescamente fece passare assai tempo per risolversi. Costretto a prendere una risoluzione per acquietare la soldatesca che gridava e strepitava, perché volea correre per dare addosso a' rivoluzionari e agli invasori, di tanti battaglioni disponibili che avea ne mandò uno solo, con quattro cannoni comandati dal capitano de Sauget: però giunsero troppo tardi. I garibaldini si erano di già intromessi nella città, riuniti ai rivoluzionari di dentro, e tutti uniti, ergeano ripari, barricate e prendevano posti ne' palazzi per fulminare la truppa senza essere né offesi né visti.
Il capitano de Sauget con i suoi quattro cannoni tirò parecchie cannonate ove non si trovavano nemici, e poi si vantava di essere stato l'unico che avesse offeso il nemico invasore; mentre né pure gli torse un capello.
Dopo che i garibaldini si erano fortificati, il Lanza, sul tardi, fece avanzare Landi con una brigata, e il Tenente colonnello Marulli col 9° di linea, il primo per i quattro cantoni della Città, il secondo per Porta Macqueda. L'eroe di Calatafimi, Landi, appena vide il nemico, come dovea prevedersi, diede indietro frettolosamente senza far tirare un colpo di fucile a' suoi soldati, lasciando scoperto e compromesso il Marulli a Porta Macqueda, il quale assaltava le barricate col suo reggimento. I garibaldini vedendosi liberi d'altri nemici diedero tutti addosso al Marulli, fulminandolo non visti da tutti i punti. Costui si difese energicamente, ma avendo poca forza, ed essendo stato ferito assieme ad altri suoi dipendenti, diede indietro e si ricoverò al Palazzo reale.
Il generale Bartolo Marra che avea il comando di quelle scaramucce fu pure costretto ritirarsi al solito porto di salute creato dal generalissimo Lanza, cioè il piano del Palazzo reale, ed il vicino piano di S.Teresa.
Quando la strada di Porta Termini fu sicura d'ogni pericolo, Garibaldi montato a cavallo, entrò da quella porta. Ecco la parte del pericolo che si scelse l'eroe de' due mondi, il duce supremo della rivoluzione cosmopolita, del quale si raccontarono, e tutt'ora si raccontano maraviglie della sua entrata in Palermo la mattina del 27 maggio del 1860.
La rivoluzione leva alla stelle i suoi duci per raccogliere sotto le sue bandiere i giovani creduli ed entusiasti, e sacrificarli poi per i suoi inqualificabili fini.
Garibaldi entrato in Palermo, fu spettatore dell'incendio di un Palazzo ove abitava un certo Mistretta, creduto delatore di polizia. Il duce rivoluzionario reputò quel vandalismo, sfogo di popolo.
Il colonnello Meckel non reputò nel medesimo modo il saccheggio della casa del rivoluzionario di Corleone, al contrario impedì e perseguitò i saccheggiatori per quanto le circostanze glielo permisero. Intanto Garibaldi è un eroe, Meckel un vandalo e peggio.
Il giorno 27 maggio ci furono per la Città parecchie scaramucce tra soldati e rivoluzionarii, ma senza scopo e risultati. Lanza invece di mettersi alla testa di tutta l'armata e rovesciarsi sugl'invasori, mandava truppa a piccoli drappelli per combattere il nemico. Egli usava questa tattica per togliere a' soldati la possibilità di vincere, e di scoraggiarli con continue ritirate.
Se poi qualche battaglione diretto bene ottenesse qualche vantaggio sopra i nemici, il Generalissimo gli mandava subito l'ordine di ritirarsi, come accadde diverse volte, e specialmente quando fu assaltato e preso il bastione di Montalto da' soldati. Quel giorno 27 maggio si pugnò alla villa Filippino, al Giardino inglese, a Ballarò, ma senza disegno e senza scopo; erano sempre gli stessi soldati che correano da un punto all'altro, il resto della truppa stava oziosa intorno al duce Lanza. Questo inqualificabile generale, non contento di tutta quella truppa che tenea ammassata ed oziosa intorno a sè, mandò l'ordine a Buonanno che comandava tre battaglioni in Monreale di ritirarsi in Palermo, già s'intende intorno al Palazzo reale. Lo stesso ordine mandò alla truppa la quale guardava la interessante posizione de' quattro venti, togliendosi la comunicazione col mare.
Lanza, dopo la rappresentazione di quelle commedie guerresche da lui bene organizzate, giudicò che la pienezza de' tempi fosse giunta: tutto avea egli operato col senno - non già con la mano - per raggiungere lo scopo suo premeditato e prediletto; per soddisfare la sua smania di bombardar Palermo, e così compromettere nell'opinione pubblica Colui che gli avea dato danari, onori e potenza. Sul tardi di quel giorno 27, segnalò al suo amico Briganti accovacciato nel Forte di Castellammare, che avesse cominciato a bombardar la città. Costui non se lo fece dire due volte, eseguì subito l'ordine dell'amico. Vano mezzo di guerra! maggiormente quando non è seguito dall'assalto della truppa alla città bombardata. Il modo come Lanza si condusse nel bombardar Palermo servì solo a far detestare ingiustamente l'innocente e tradito sovrano, a spaventare le donne ed i fanciulli innocenti, mentre i caporioni della rivolta sapeano risparmiarsi in luoghi sicuri, sapeano ove andasse a finire quel barbaro mezzo di guerra.
Briganti per dar meglio ad intendere al suo amico Lanza, com'egli eseguisse bene gli ordini di lui, e sapendolo rincantucciato ne' segreti penetrali del Palazzo reale, spesso spesso mandava qualche bomba alla volta dell'amico, la quale cadendo in mezzo a' soldati molti ne uccideva o feriva.
La flotta napoletana stava inoperosa nel porto di Palermo, ed una sola fregata si mosse più per far male a' soldati anzichè a' rivoluzionari: mentre Briganti bombardava, quella fregata si collocò dirimpetto porta Felice, e tirò così bene i suoi colpi lungo il Cassero che valse benissimo ad uccidere tre soldati, e ferirne sette nel piano del Palazzo reale. Quella disgraziata truppa non sapea più da chi guardarsi!
Garibaldi dopo di aver goduto lo sfogo del popolo, coll'incendio della casa di Mistretta, corse ad impossessarsi del Palazzo di città, detto Pretorio. Di là caccio il municipio, che disciolse, e lo ricostituì con elementi rivoluzionari. Dichiarandosi Dittatore - come già si era dichiarato a Salemi - emanò un diluvio di ordini e decreti per tutta la Sicilia. Arringò il popolaccio palermitano: nominò segretario di Stato, Crispi, già cospiratore siciliano, poi ministro di Finanze, delle quali il povero rivoluzionario avea tanto di bisogno: aprì le carceri della Vicaria, e diede la libertà a mille e cinquecento facinorosi. Lupo non mangia lupo.
Garibaldi non vedendosi seriamente molestato, ed ingrossate bene le sue bande, il 29 maggio prese l'offensiva contro i regii.




Fu sempre battuto da' soldati, ma questi si ritiravano ogni volta che il Lanza il volesse, cioè tutte le volte che battevano bene i garibaldini.
La gente pacifica di Palermo, in que' giorni era in uno stato deplorevolissimo: oltre di trovarsi in mezzo a due fuochi, era rubata ed assassinata dalle squadre, e principalmente da' facinorosi usciti dalla Vicaria: tanto che lo stesso Garibaldi decretò la pena di morte a quelli che rubassero. Vano decreto! non essendoci chi lo facesse eseguire.
Sebbene i garibaldini fossero padroni della città e tutto sembrasse loro favorevole, ciò non ostante aveano provato il valore de' soldati, e sapeano che da un momento all'altro il duce in capo Lanza potesse essere surrogato da un generale prode, e fedele al Re, e quindi tale da sospingere loro addosso circa 24 mila uomini di buona truppa. Essi che già difettavano di munizioni e di armi, come avrebbero potuto superare un attacco serio, anche col terzo delle truppe? Sapeano che Meckel con la sua brigata marciava sopra Palermo, ed aveano fatta esperienza a Parco che quel duce si battea davvero, e non era uomo da farsi trascinare alla causa della rivoluzione. Quindi le buone condizioni di Garibaldi e dei suoi erano precarie, e l'uno e gli altri stavano di mal animo.
Lanza che tutto avea calcolato, venne in soccorso de' nemici del Re. La sera del 29 maggio, essendogli stato segnalato da Castellammare che la brigata Meckel era per piombare sopra Palermo, finse di non crederlo: corse l'uffiziale telegrafico Agostino Palma, e gli fece vedere con gli occhi propri la colonna Meckel che marciava verso Palermo: ma egli fingeva sempre nulla vedere, e nulla credere: a chi lo consigliava di spingere battaglioni a sorreggere Meckel, rispondeva negativamente. Lanza riflettendo che l'arrivo della brigata Meckel gli avrebbe guastato i suoi rei disegni, trovò subito il rimedio. Dopo una confabulazione col colonnello del Genio Gonzales, si affrettò a scrivere una lettera a Garibaldi, lettera che mandò con un prigioniero sardo. Lanza, che dovea conciar per le feste
Garibaldi, lo pregava
a concedere un armistizio, e lasciar libero il passo al generale Letizia già carbonaro del 1820 per recarsi da Mundy comandante la flotta inglese, avendo scelto costui intermediario de' patti che doveano stabilirsi per la sospensione d'armi.



Garibaldi, che altro non desiderava, finse di farsi pregare, e Lanza lo pregò per la seconda volta: allora si piegò a lasciar libero il passo al Letizia, e si recò egli pure a bordo presso Mundy, ove fu stabilito, di cessare le ostilità la sera medesima di quel giorno 29, e discutere il giorno appresso i patti dell'armistizio.
Questa vergognosa condotta del Lanza, uno scrittore garibaldino la chiama colossale stupidità,
ma si dovrebbe chiamare diversamente. Di fatti quell'armistizio fu fatto la sera del 29 per legare le mani a Meckel, il quale era già arrivato con la sua brigata alle porte di Palermo.
Il Meckel appena giunto a Villabate mandò a Lanza un sergente siciliano travestito, con una lettera nella quale gli dicea, che la mattina seguente avrebbe assalito la città dalla parte di Porta di Termini e della Villa Giulia, detta la Flora.
Di quel povero sergente siciliano non si ebbe più notizia: chi sa se Lanza l'avesse fatto sparire, per evitare il cimento di confessare poi che avea ricevuta quella lettera.
Sin dal mattino del 30 tutta la brigata Meckel occupava la riva diritta del piccolo fiume Oreto. Tra Bosco comandante il 9° Cacciatori, e Morgante comandante il 2° ebbe luogo un'altra gara di onore, imperocchè tutti e due voleano marciare all'avanguardia dell'assalto di Porta di Termini, ed entrare i primi in Palermo. Voleva giustizia che si preferisse il Morgante, dapoichè Bosco era stato preferito all'impresa di prendere i cannoni ad Orsini sulle colline di Corleone. Invece il Bosco fu destinato ad investire la Flora, che rimane dalla parte del mare, coadiuvato da quattro compagnie del 2° Cacciatori. Alla Flora si erano fortificate un grandissimo numero di squadre.
Il 3° battaglione estero, quattro compagnia del 2° cacciatori, e due cannoni furono destinati allo assalto di Porta di Termini. Le quattro compagnie del 5° di linea rimasero di riserva. Tutta la forza che investì Porta di termini non oltrepassava mille e quattrocento uomini. Io fui destinato a Porta di Termini; e ne fui contentissimo, poichè sapevo che ivi la zuffa sarebbe stata più terribile, come in effetto avvenne.
Prima che si passasse il Ponte delle Teste avvenne un vivissimo scambio di fucilate con gli avamposti garibaldini, che si ritirarono facendo continuamente fuoco.
Passato il Ponte vi è una lunga e larga strada diritta, fiancheggiata allora di piccoli palazzi, la quale conduce a Porta di Termini, e di là prosiegue sempre diritta e larga fino alla piazza della Fieravecchia. Dal Ponte delle Teste sino a questa piazza corre poco più di mezzo chilometro. Quella via era tutta barricata, e le barricate erano state fatte di bellissimi mobili. Imperocchè i palazzi di quella strada furono abbandonati dagli abitatori; i garibaldini e le squadre li scassinarono, si servirono dei mobili per alzare barricate, e de' balconi di que' palazzi fecero tante fortezze con materassi di lana, con sacchi pieni di terra, in mezzo a' quali fecero le feritoie, donde poteano ferire i soldati senza essere veduti.
La truppa che assaltò Porta di Termini fu disposta in questo modo: i soldati marciavano ad uno ad uno alla distanza di due palmi, quasi radendo le mura de' Palazzi di diritta e di sinistra: quelli di diritta tiravano a' balconi di sinistra, e così viceversa. I due piccoli cannoni di montagna stavano al centro e batteano le barricate con grossa mitraglia: queste barricate aveano pure le feritoie, dietro le quali erano appiattati i garibaldini.
Descrivere tutti gli accidenti di quel sanguinoso combattimento, sarebbe andarmene troppo per le lunghe. Dirò in generale, che sul cominciare l'assalto caddero non pochi soldati tra morti e feriti, maggiormente a Porta di Termini ove le fortificazioni erano più spesse, e difese da molta gente: ivi il conflitto fu più sanguinoso. I soldati cadevano senza colpire, o vedere il nemico che li decimava. Fu a quel punto che la truppa si determinò dar fuoco a' palazzi fortificati per isnidare i rivoltosi. Questo mezzo riuscì facile a' soldati e fatale ai garibaldini: i quali se fossero usciti da quelle fortificazioni sarebbero stati uccisi, ed ove fossero rimasti sarebbero stati abbruciati. Da quel momento le sorti del combattimento cambiarono, i soldati non
furono più colpiti da invisibili nemici, e questi cessarono di far fuoco, pensarono a salvarsi, per lo che alcuni più fortunati poterono fuggire dalla parte opposta, permettendolo la peculiare costruzione de' palazzi: altri o furono vittime delle fiamme,
0furono uccisi, o fatti prigionieri.
L'artiglieria intanto si avanzava rovesciando le barricate: i guastatori erano pronti a togliere gli impedimenti per dare via al corso delle ruote sulle quali erano posati i cannoni.
Si gridò alla barbarie e peggio de' soldati, perché incendiarono que' Palazzi: ma di chi fu la colpa? de' garibaldini sicuramente. Questi in cambio di fortificarsi nelle abitazioni altrui, perché non uscirono fuori la città per attaccare in quelle pianure la brigata Meckel? poteano venire la notte precedente ad assalirci con grande vantaggio. Nessun uomo di buon senso potrebbe pretendere che i soldati si fossero fatti ammazzare da un nemico invisibile e sicuro, per la sola ragione che non pregiudicassero quelle abitazioni trasformate in terribili fortezze.
I garibaldini che si trovavano dietro la barricate, retrocedendo sempre, giunti alla Piazza della Fieravecchia si diedero a precipitosa fuga. I soldati giunti in quella Piazza, già si slanciavano ad invadere il resto della Città per la strada che conduce a' Cintorinari, dall'altra a sinistra delle Pentite, e dal vicoletto che sbocca a S. Cecilia. Non vi erano più nemici da combattere, ed altro non si sentiva che voci le quali chiedeano pietà, e pietà ottenevano poichè i soldati non incrudelivano contro coloro che abbassavano le armi.
Nella Piazza della Fieravecchia in un Palazzo a sinistra venendo da Porta di Termini, erano racchiusi più di cento soldati fatti prigionieri ne' giorni precedenti.
I garibaldini che faceano loro la guardia, appena intesero che la truppa si avanzava, si disposero a fuggire; ma i soldati prigionieri loro diedero addosso, li disarmarono, e fecero prigionieri i propri guardiani.
Ora nel punto che la vittoria sorrideva alla truppa napoletana, questa si avanzava sul resto della città senza trovar più alcuna resistenza: moltissimi paesani sventolavano bianchi lini, e gridavano: Viva il Re.
In quella si vede sbucare dalla strada delle Pentite un uomo in uniforme del 6° Reggimento di Linea, addetto al comando generale: era il Capitano Nicoletti, il gridava a' soldati; «Per ordine di Sua Eccellenza, il Luogotenente del Re, il generale Lanza, rimanete qui, poiché la rivoluzione è abbattuta e sottomessa: evitiamo gli orrori di una città presa di assalto e in breve entrerete nel resto di Palermo, ma, per ora, rimanete qui. Signori ufficiali, impedite a' soldati che si avanzino più oltre.
A questa consolante e insperata novella che ci recò il Capitano Nicoletti mandato da Lanza, tutti gli uffiziali impedirono a' soldati di avanzarsi più oltre, ed io stesso volli molto cooperarmi assieme agli uffiziali.
Il Nicoletti quando trovò il momento di parlare a solo con Meckel gli disse: «Ho detto a' soldati che la rivoluzione è sottomessa, è vero. A voi debbo comunicare che gli ordini di Sua Eccellenza, quali sono: Ier sera Sua Eccellenza il Luogotenente del Re conchiuse un armistizio con Garibaldi. Non mettendo in conto che il vostro attacco è contrario all'armistizio, sarebbe slealtà militare proseguire le ostilità. Date ordine alla truppa che si trova alla Flora, di cessare il fuoco e ritirarsi.»
Il prode e leale Meckel era per morir di dolore a quell'annunzio: credea di aver riparato il suo errore commesso di non avere inseguito Garibaldi dalla Ficuzza a Palermo; il vedersi sfuggire di mano la vittoria già riportata fu per lui un colpo di fulmine. Ma fu necessità ubbidire agli ordini del Generale in Capo. Alla Flora succedevano le stesse scene delle Fieravecchia. I rivoluzionarii erano stati snidati anche dall'Orto botanico e messi in fuga, e da ogni parte si udivano grida di Viva il Re,
e le preghiere di far cessare il fuoco di un vapore napoletano, il quale da sotto la Casino di Cotò, tirava cannonate a palla sopra i rivoltosi.
Bosco e Morgante al sentire l'ordine di Lanza, trasecolarono, e se lo fecero ripetere più volte, non credendo alle proprie orecchie.
Ecco quali sono le vittorie di Garibaldi tanto celebrate! Egli invece di battersi alla testa dei suoi volontari a Porta di Termini, se ne stava nelle bellissime camere di Palazzo Pretorio, ch'è nel centro della Città. E dirò nell'altro capitolo quello ch'egli fece all'annunzio della disfatta e fuga de' suoi volontari.

Ferdinando Beneventano Del Bosco.


(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).